SegnoSpeciale

SegnoSpeciale n. 240

Speciale 240

FASHION FILM
Genesi e generi di un oggetto post-cinematografico

a cura di Adriano D’Aloia         

La moda rincontra il cinema

      Flow and flaw. Un ragazzo, inquadrato di spalle, siede a un tavolo di assemblaggio, impegnato a montare frammenti di una pellicola 35mm: taglia, allinea le perforazioni ai denti della giuntatrice e fissa i lembi con del nastro adesivo trasparente. Le bobine del fonoriproduttore avevano già cominciato a riprodurre la colonna sonora: Non, je ne regrette rien di Edith Piaf. Nel film che sta montando, e di cui già possiamo vedere il risultato, un giovane è sdraiato in mezzo alla carreggiata di un ponte, si alza e comincia a correre all’indietro eseguendo sfrenati passi di danza. Nei frammenti successivi, una ragazza si sveglia nella sua roulotte: un primo piano mette in evidenza il suo monociglio. Un’altra in un supermercato avvicina per gioco due grosse arance al proprio petto poco formoso. Un’altra viene fermata al metal-detector di un aeroporto e mostra un vistoso apparecchio ai denti. Un’altra ancora in un bar mette in buca alcune palle di biliardo, nonostante un evidente strabismo, sotto lo sguardo sprezzante di un’amica con le orecchie a sventola. Il montaggio prosegue, mostrando altri giovani in una varietà di situazioni: nella cella di un carcere dopo un arresto, in momenti di strambo relax sul terrazzo di un condominio. Nella ultima sequenza tutti convergono sul ponte. Il film è pronto: sul coperchio della “pizza” si può leggere il titolo “Go with the flaw”.

      Flaw, cioè “difetto”, “imperfezione”, e non flow - il flusso che la società dell’apparenza e della perfezione ostentata sui social network invita incondizionatamente a seguire. Bellezza e imperfezione fisica, e da qui ovviamente una più lata imperfezione esistenziale, non sono contrarie alla moda, anzi quando si tratta di abbigliamento giovanile l’imperfezione è la regola di cui non vergognarsi. Non seguire il flusso, vai controcorrente a testa alta. Dev’essere questo il messaggio della campagna 2017 del brand italiano Diesel, un video di poco più di 2 minuti realizzato dal regista francese François Rousselet (autore anche di videoclip per Snoop Dogg, Madonna e Rolling Stones) che è un esempio perfetto della tendenza della comunicazione della moda a produrre contenuti ad elevata creatività visiva e narrativa, abbandonando totalmente la descrizione denotativa dei prodotti per concentrarsi esclusivamente sulla trasmissione dei valori del marchio. Per quanto tutti i protagonisti del video indossino gli abiti della nuova collezione, ciò che conta è l’anima alternativa e ribelle che emerge dal loro atteggiamento e dal loro comportamento: libero, sfacciato, trasgressivo delle norme etiche ed estetiche del mainstream

Découpage

      Il video della Diesel non è un semplice spot pubblicitario, ma una specie di cortometraggio che sfrutta la potenza di un’idea narrativa e un cast sapientemente assemblato per trascendere le caratteristiche dei capi d’abbigliamento e raggiungere obliquamente un obiettivo più sottile e profondo: comunicare lo stile di vita incarnato nei valori del brand, a cui lo spettatore aderisce nel momento in cui acquista e indossa quei capi. L’esempio esprime perfettamente la natura e la forza dei cosiddetti “fashion film” ed è un caso ideale per introdurre gli interventi che compongono questo Speciale, perché incorpora nella storia che racconta il processo cinematografico di realizzazione delle immagini e di generazione del senso: un montaggio alternato creato al tavolo di assemblaggio con i vecchi mezzi delle forbici, del nastro adesivo e della giuntatrice, a richiamare le modalità tradizionali di scomposizione e ricomposizione del flusso visivo per creare significato.

      L’operazione di taglia e cuci della pellicola per unire in un racconto continuo molteplici storie imperfette, rimanda all’atto del découpage che accomuna il montatore a un sarto e più in generale la macchina da presa alla macchina da cucire (a cui è peraltro tecnologicamente legata). Come fili e tessuti, la pellicola è tagliata e cucita, scorre su bobine rotanti attivate da un sistema meccanico. L’immagine stessa è l’abito che risulta dal processo creativo. E l’immagine-abito acquista vita e si muove proiettata attraverso la luce sul tessuto dello schermo, in un sommarsi di sostanze e superfici che non abbandonano mai l’originaria materialità dell’arte che le ha pensate e prodotte.

      Nel video della Diesel l’associazione tra la produzione del film e la produzione dei capi di abbigliamento in una modalità artigianale e pre-digitale dà corpo all’ideologia dell’autenticità che il brand intende propugnare attraverso la valorizzazione dell’imperfezione. L’alone vintage dell’analogico è il mezzo ideale per contrastare l’artificialità dei modelli di perfezione che imperano su Instagram.

Anatomia del fashion film

      L’affinità tecnologica e sostanziale fra sartoria e cinematografia, fra tessuto e immagine, fra stoffa e pellicola è l’orizzonte di riferimento per un’analisi delle caratteristiche e delle potenzialità del fashion film, un nuovo oggetto audiovisivo che deve la propria efficacia proprio alla combinazione e contaminazione di elementi della moda e del cinema. L’espressione “fashion film” non indica, come potrebbe essere più immediato pensare, lungometraggi ambientati nel mondo della moda o in cui quest’ultima ha un ruolo preminente. I fashion film infatti sono prodotti direttamente dalle case di moda, le quali casomai assoldano risorse creative provenienti dalla film industry e dal suo star system - registi, costumisti e attori - per assicurare una qualità superiore.

      Se da un lato i fashion film non sono riducibili a semplici spot pubblicitari, dall’altro neppure sono assimilabili in tutto e per tutto ai cortometraggi, nonostante la loro breve durata e l’impostazione narrativa. Assomigliano ai videoclip musicali, da cui mutuano la salienza della colonna sonora, il dinamismo dell’azione, l’intensità dell’emozione, ma non hanno niente a che fare con l’industria musicale. Per quanto siano il frutto della cultura digitale e siano pensati esclusivamente per la circolazione sulle piattaforme web, non sono equiparabili ad altri formati video che spopolano sui social network. A scavare un po’ si scopre che sono persino più vecchi del cinema e che la relazione tra movimento dell’immagine e movimento del corpo vestito era già alla base delle ipnotiche volute delle danse serpentine risalenti ai tempi del kinetoscopio.

      È vero che i fashion film sono l’evoluzione audiovisiva della fotografia di moda, a lungo il mezzo principale di comunicazione in questo settore, ma non sono assolutamente riducibili a una semplice messa in movimento delle immagini di una rivista. In alcuni casi si potrebbe persino spingersi a considerare i fashion film come delle opere sperimentali, dei film di danza o di video arte, ma rispondono pur sempre a esigenze in ultima istanza commerciali. Di sicuro stanno guadagnando una propria autonomia artistica, come dimostra il numero crescente di fashion film festival organizzati in tutto il mondo. Insomma, i fashion film sembrano derivare la propria specificità dalla contaminazione di alcune caratteristiche tipiche di altri formati e generi, pur senza corrispondere ad alcuno di essi. Non resta che osservarli attentamente per cercare di decifrare le imprevedibili mode della creatività audiovisiva contemporanea.

Go with the flaw, Diesel, 2017, https://www.youtube.com/watch?v=aYxG1ASrYKo

 


SegnoSpeciale n. 239

Speciale 239

SEQUENZE
Piccolo atlante di grandi momenti del cinema
Seconda parte
a cura di Paolo Cherchi Usai          

      Chris Fujiwara, critico cinematografico al quale si devono due belle monografie su Otto Preminger e Jacques Tourneur, ha pubblicato nel 2007 un volume antologico, The Little Black Book: Movies – tradotto due anni dopo in italiano dall’Editrice Il Castoro con il titolo Cinema. I 1000 momenti fondamentali –  contenente centinaia di micro-interventi su ciò che David Bordwell e Kristin Thompson chiamano le “epifanie” del Cinema, cioè gli istanti che riassumono, scatenano o almeno riescono a sublimare in pochi istanti le emozioni di tutto un film o la poetica del suo autore. È un testo imperdibile: si inizia a degustarlo in piccole porzioni ma poi non ci si ferma più, come in un’antologia portatile della perfezione visiva. Gli autori che hanno lavorato al fianco di Fujiwara non avevano a disposizione che poche righe per ciascun titolo, veri e propri haiku sull’immagine in movimento in quanto arte. I collaboratori a questo Speciale sono più fortunati perché hanno avuto più spazio a disposizione, ma la contropartita del loro privilegio è la responsabilità di esprimersi con dovizie di particolari e con un numero fisso di illustrazioni scelte a sostegno delle rispettive tesi.

      Al pari di The Little Black Book, il nostro gioco nasconde un’esigenza di disciplina del pensiero analitico; come già si è visto nella sezione inaugurale della raccolta, i metodi di indagine possono essere i più disparati. È così anche in questa seconda parte, non meno variegata della precedente in fatto di titoli prescelti e modalità argomentative. Guardandole nel loro insieme emergono dati di fatto degni di riflessione: quasi la metà delle opere esaminate è di origine statunitense, seguita a distanza dalla Francia e dall’Italia con tre titoli per ciascuna. Gran Bretagna, Giappone, Nuova Zelanda e Senegal ne hanno uno a testa, escludendo perciò importanti paesi produttori come la Germania e la Russia. Nessuna sorpresa: il cinema Made in USA ha sempre esercitato un ruolo egemone nel forgiare l’immaginario collettivo. Nessuna sorpresa anche dal punto di vista della cronologia, con Via col vento (1939) come film di più antica data in una selezione altrimenti prodiga di contemporaneità. 

      Il nostro esperimento sembra avere dato i suoi frutti: non c’è ombra di ripetitività né di agiografia autoriale negli interventi qui riprodotti. Ciò vale in modo particolare per il pannello conclusivo del dittico, presentato anche questa volta seguendo l’ordine alfabetico nei nomi dei partecipanti. Verrebbe voglia di continuare, magari trasformando il jeu d’esprit in una rubrica a cadenza regolare, ma poco importa che ciò accada o meno. Vorremmo che il gioco fosse almeno interpretato come un invito a chi studia e soprattutto a chi insegna cinema, un modesto suggerimento a incoraggiare fra gli spettatori questo genere di esercizio, anche in forma di conversazione.

 


SegnoSpeciale n. 238

Speciale 238

SEQUENZE
Piccolo atlante di grandi momenti del cinema
Prima parte
a cura di Paolo Cherchi Usai              

      Siamo abituati a parlare e scrivere di cinema (anche sulle pagine di questa rivista) prediligendo il “tutto” sulle sue componenti. Questo vale anche per le recensioni di film, che raramente si soffermano per più di qualche frase su un momento emblematico dell’opera in questione. Succede così anche per i romanzi, le sinfonie, le pièces teatrali e le architetture, e non c’è nulla di male in tutto ciò: la genericità è un accettabile prezzo da pagare in cambio di un produttivo scambio di idee. Quando si tratta di approfondire, tuttavia, le cose si fanno più complicate, vuoi perché non si è abituati a riflettere sui particolari, vuoi perché interpretarli con cognizione di causa richiede un superiore grado di concentrazione e di disciplina mentale. Il diavolo, come si suole dire, è nei dettagli, e quando si parla di dettagli non è possibile barare né trovare rifugio nell’impressionismo a buon mercato.

      Questo Speciale di Segnocinema è perciò diverso dagli altri. Anziché stabilire un tema e una “rosa” di suoi possibili sviluppi, si è questa volta offerta una carte blanche (al condizionale, come si leggerà più avanti): ciascun collaboratore può scegliere una sequenza rappresentativa da un film di sua scelta (evitando preferibilmente esempi già largamente esplorati quali la doccia di Psycho, il finale psichedelico di 2001: Odissea nello spazio o la scalinata della Corazzata Potemkin, ma anche film eccessivamente oscuri, inaccessibili e perciò non facilmente “verificabili” dai lettori). Il termine “sequenza” va qui inteso nel senso corrente del termine: un insieme di inquadrature consecutive, fra loro collegate allo scopo di formare una coerente e relativamente autonoma unità narrativa o di significato; sono consentiti i “piani sequenza” consistenti in una sola, lunghissima inquadratura.

      Entra qui in azione il diavolo: la sequenza designata deve essere descritta e poi esaminata a) in quanto entità estetica autonoma; b) nel contesto del film dalla quale essa è tratta; c) nel quadro dell’opera del suo regista; d) in rapporto ad altri film e alla storia del cinema in generale; e) tutti i punti precedenti messi insieme, se si riesce a farlo nei tassativi limiti di spazio assegnati a ciascun autore. Non solo: è stato chiesto a tutti di accompagnare il mini-saggio con sei ingrandimenti di fotogramma tratti dal film. La nostra sfida ha ricevuto un’accoglienza così calorosa da rendere necessario uno Speciale in due parti: in ciascuna, i vari contributi sono organizzati nell’ordine alfabetico dei partecipanti. Fra questi ci sono nomi celebri, collaboratori di lunga data e altri più giovani, accomunati dal desiderio di condividere pochi minuti o addirittura una manciata di secondi di quel cinema che fa battere il cuore, quel grappolo di istanti che vale molto più della somma delle sue parti.

 


SegnoSpeciale n. 237

TUTTI I FILM DELL'ANNO 2021-2022

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Speciale237 Intro

 

 

 

 

SegnoSpeciale n. 236

Speciale 236

SERIALE OGGI
Uno screenshot dei mondi a puntate
a cura di Luca Bandirali e Enrico Terrone              

      Da tempo le serie televisive si sono imposte come una forma d’arte a sé stante, che resta distinta da quella cinematografica sebbene ne condivida il medium delle immagini in movimento. Nel passaggio da cinema a televisione, cambiano le strutture e i modi in cui queste immagini sono organizzate in un racconto. Questo Speciale porta avanti la riflessione su tali strutture e tali modi, con un’attenzione particolare ad alcune delle questioni più attuali del dibattito sulla serialità, che risultano sintomatiche di uno scenario in continua evoluzione. Al livello dei personaggi, per esempio, l’antieroe ha incarnato negli ultimi due decenni la figura più rappresentativa del discorso seriale; ma recentemente alcune produzioni hanno imposto figure molto differenti da quella antieroica, come ci illustra Attilio Palmieri nel suo contributo.

      Ragionando sulla serialità come struttura audiovisiva, buona parte dei commentatori hanno ritenuto che, nell’era delle piattaforme con rilascio stagionale e consumo continuativo, l’episodio televisivo abbia perso di senso e di centralità rispetto all’epoca del palinsesto; il saggio di Laura Ysabella Hernández Garcia mostra invece quanto sia ancora importante l’episodio nella struttura seriale, ragionando su un particolare tipo di segmento narrativo, la puntata standalone. Sempre a livello di articolazione delle strutture, la stagionalità contemporanea è ormai caratterizzata da un numero più ridotto di episodi rispetto ai passati decenni, e molti broadcaster sembrano sempre più interessati al formato della miniserie; su questo aspetto si sofferma il saggio di Angela Maiello. Infine, nel passaggio dal cinema alla serialità televisiva, si è assistito a una rimodulazione del sistema dei generi. Fra i generi più adatti alla struttura miniseriale, si è imposto il documentario biografico di cui tratta il saggio di Caterina Martino sulla docuserie di Netflix dedicata ad Andy Warhol.


SegnoSpeciale n. 235

Speciale 235

SHOT & FRAME - Seconda parte
Sulle molteplici relazioni tra cinema e fotografia
a cura di Marcello Walter Bruno e Caterina Martino              

      Cinema e fotografia vengono abitualmente trattate come pratiche indipendenti - benché unite storicamente da una sorta di filiazione - e non comunicanti. In questa seconda parte dello Speciale proseguiamo il viaggio nell’interscambio tra le due arti aprendo la critica cinematografica a una comprensione del film che si allarga dalla dimensione narrativa a quella dell’immagine e mettendo in gioco la possibilità d'invadere campi altrui, controcampi altrui, per riscoprire i molteplici legami che uniscono la fotografia e il cinema - le fotografie e i film - dall’epoca analogica all’epoca digitale.

      Non si può non sapere che molti grandi fotografi hanno fatto dei film. Mariolina Diana ripercorre le tappe del cinema di Robert Frank dall’esordio con Pull My Daisy, manifesto beat che coinvolge, tra gli altri, Jack Kerouac, Allen Ginsberg e Gregory Corso. Non si può non sapere che molti grandi registi hanno realizzato fotolibri. Roberto Chiesi rievoca il mestiere di fotografo di Alberto Lattuada, autore del fotolibro Occhio quadrato (1941), e di Luigi Comencini. Non si può non conoscere il doppio mestiere che caratterizza molti grandi artisti della modernità (da Andy Warhol a David Lynch) e anche esponenti delle nuove generazioni.

      Micaela Veronesi s'interroga sul Wenders fotografo e teorico della fotografia contemporanea mostrando l’intreccio con la pratica del Wenders regista cinematografico (un caso di quasi parallelismo). Giampiero Frasca salda un debito che gli studi di settore hanno nei confronti di Chris Marker - ricordiamo che il suo centenario è passato inosservato per un problema di attribuzione: per gli studiosi di fotografia il regista di La jetée è uomo di cinema, ma per gli studiosi di cinema l’autore di fotolibri come Clair de Chine e Passengers è piuttosto un fotografo. Martina Volpato discute dei millennial fratelli D’Innocenzo, il cui fotolibro Farmacia notturna è uscito a ridosso di Favolacce.

      Non si può non sapere che fotografia e cinema condividono molti elementi storici, teorici e artistici. Nicola Dusi ragiona, ad esempio, sulla questione del movimento, la cronofotografia dagli esperimenti di Muybridge e Marey, alle scie e agli sfocati delle fotografie di danza, al cinema contemporaneo. L’incrocio di competenze, pratiche, temi, peculiarità è necessario se si vuole scoprire la rete di influenze che caratterizza le immagini tecniche (per come definite da Vilém Flusser) e la loro profonda identità.


SegnoSpeciale n. 234

Speciale 234

SHOT & FRAME - Prima parte
Sulle molteplici relazioni tra cinema e fotografia
a cura di Marcello Walter Bruno e Caterina Martino              

Fermate obbligatorie: i generi, il reale e l'irreale     

      Il cinema si relaziona con la fotografia in vari modi. Ci sono film che narrativizzano immagini che appartengono alla storia del fotogiornalismo: in questo Speciale facciamo l’esempio di Flags of Our Fathers di Clint Eastwood, ma non dovremmo scordare che il cosiddetto neorealismo americano inizia con La città nuda, pellicola di Jules Dassin che ha lo stesso titolo di un celebre fotolibro di Weegee (egli stesso caso esemplare di fotografo/regista). Ci sono film - da La macchina ammazzacattivi a Blow-Up a Palermo Shooting - che, mettendo in scena il personaggio del fotografo (più o meno finzionale), ragionano metalinguisticamente sui poteri e i limiti delle immagini tecniche, sia in epoca analogica che digitale. Ci sono documentari dedicati a fotografi viventi (Il sale della terra di Wenders su Salgado) oppure del passato.

      E poi, anche se non sempre è dimostrabile, ci sono soggetti cinematografici che germinano da opere fotografiche: da dove viene Zabriskie Point se non dagli scatti di Edward Weston? da dove viene il camion di Duel se non dalla serie concettuale di John Baldessari? Del resto, le biografie immaginate da Paolo Sorrentino nel libro Gli aspetti irrilevanti (Mondadori) sono ufficialmente innescate dalla galleria di fotoritratti firmati Jacopo Benassi.

      La fotografia si relaziona col cinema in vario modo, da un citazionismo più o meno puntuale (si pensi agli untitled film stills che resero famosa Cindy Sherman a fine anni Settanta) all’utilizzo di star hollywoodiane ed effetti speciali negli esempi più ricchi di staged photography (es. Dream House di Gregory Crewdson con Gwyneth Paltrow e Philip Seymour Hoffman). Ma poi, quello che fa crollare le paratie è il puro e semplice fatto che molti fotografi finiscono col fare i registi (è il destino di molti esponenti della cosiddetta scuola fotografica di New York: in questo Speciale Flavio De Bernardinis rivisita Kubrick e Caterina Martino affronta William Klein), molti registi (e registe, vedi Leni Riefenstahl) finiscono per fare i fotografi (anche solo scattando privatissime polaroid, com’è il caso del Tarkovskij trattato da Angelo Desole) e molti restano sospesi fra le due attività rischiando una crisi d'identificazione (è stato il caso di Chris Marker, autore del “foto-romanzo” La jetée, il cui centenario della nascita è passato colpevolmente inosservato).

      È un meccanismo che parte da molto lontano (si rivedano i cortometraggi di Man Ray o Paul Strand) e arriva fino ai giorni nostri: si pensi, per limitarsi all’Italia, ai fratelli D’Innocenzo, il cui fotolibro Farmacia notturna è uscito nella pausa tra Favolacce e America Latina. Dunque, i cinefili sono avvisati: non è possibile occuparsi di film senza avere la necessaria competenza enciclopedica in materia di fotografia (soprattutto moderna e contemporanea: l’avete visto il cane di Daido Moriyama nel finale di Blade Runner 2049?). In particolare sono avvisati i lettori delle riviste illustrate, condannati a confondere foto di scena e frame ricavati dalla pellicola: Lolita ha gli occhiali a cuoricino solo nel servizio a colori di Bert Stern. Ontologicamente parlando, il cinema sulle riviste è fotografia.


SegnoSpeciale n. 233

Speciale 233

ITINERARI Seconda parte
Il cinema e la strada
a cura di Paolo Cherchi Usai              

Fermate obbligatorie: i generi, il reale e l'irreale

      I titoli dei film possono dire tutto o il contrario di tutto, ma la presenza della parola “strada” all’inizio di oltre quaranta importanti opere citate nei maggiori dizionari di cinema (dunque in libri che hanno già operato una drastica selezione nel mare magnum dei film realizzati in epoca moderna) dev’essere qualcosa di più di un mero capriccio statistico (per non parlare delle “vie” e dei “sentieri” che costellano le filmografie di tutte le lingue). È un’impressione confermata dagli interventi nella seconda parte del nostro Speciale sull’argomento, dedicata a tre concetti “portanti” del rapporto fra cinema e percorso fisico nello spazio e nel tempo.

      Il bersaglio grosso è il noir statunitense, che non potrebbe esistere senza strade: Enrico Terrone, navigatore nell’intricato stradario di questo genere, si affida alle sempreverdi stelle polari di Paul Schrader, Raymond Borde e Étienne Chaumeton per guidarci negli itinerari della perdizione filmica. Il radar di Domenico Monetti coglie indicazioni stradali in altri generi: il Western, naturalmente, e poi l’horror, ma anche (meno prevedibilmente) la commedia all’italiana, che deve alle strade Il sorpasso di Dino Risi ma anche molto altro. Domenico Spinosa ha optato invece per un viaggio trasversale, a cavallo fra realismo (Joris Ivens) e surreale (Luis Buñuel, uno che di strade ne ha mostrate davvero tante, e tutte rivelatrici).

      La chiusura di uno Speciale sulla strada con un accenno a Il fascino discreto della borghesia (1972) è il miglior suggello a un’esplorazione che si voleva non solo collettiva ma genuinamente corale. Ai battistrada che ci hanno accompagnato fino a questo punto si affianca - nella consueta domanda rivolta ai nostri collaboratori - una nutrita e coraggiosa pattuglia di compagni di percorso, ciascuno con la loro immagine di una strada, ciascuno con un’impressione da essa lasciata nelle rispettive memorie di spettatori. Il loro messaggio è chiaro: se, come scrive Poe, tutte le strade sono davvero opere d’arte, è un’arte anche il saperle percorrere con curiosità ed empatia, come un viandante che non ha fretta di arrivare a destinazione


SegnoSpeciale n. 232

Speciale 232

ITINERARI Parte prima
Il cinema e la strada
a cura di Paolo Cherchi Usai         

      Edgar Allan Poe aveva scritto nel racconto-saggio Landor’s Cottage (Il villino di Landor, 1849) che “tutte le strade, nel senso comune del termine, sono opere d’arte”. Se è così, c’è una profonda affinità elettiva fra il cinema e un manufatto umano in forma di solco tracciato nello spazio fisico della sua esistenza. Viene subito in mente, è ovvio, il road movie in tutte le sue accezioni, ma c’è molto di più: la macchina da presa ha attraversato dal suo nascere un’infinità di percorsi, vuoi per necessità, vuoi per una deliberata scelta documentaria o drammaturgica. La strada è una perfetta metafora del tempo che scorre. Era facile, ai tempi della pellicola, scorgere un parallelo fra la lunga striscia di celluloide che attraversa l’obiettivo del proiettore e quella di terriccio, pietra o asfalto negli innumerevoli itinerari della visione artificiale.

      Come tutto ciò che è dato per scontato, la strada (intesa qui nel senso materiale - non banalmente metaforico - del termine) in quanto dramatis persona dell’immagine in movimento è un universo di significati largamente inesplorato dalla critica. E sì che la storia del cinema pullula di riferimenti diretti in materia, da Fellini a Wenders, da John Ford a David Lynch. Riesaminarli con uno sguardo vergine, pronto a cogliere l’inaspettato dalla quotidianità o dallo storytelling più corrivo, può portare a incontri, cioè sorprese, cioè nuovi modi d'intendere l’estetica del grande o del piccolo schermo. Oltre alle strade in quanto tali ci sono le identità di chi le percorre: piloti, cowboys, motociclisti, amanti in fuga, ma anche semplici viandanti. Sotto questo profilo, l’intera filmografia di Werner Herzog potrebbe essere osservata in filigrana come celebrazione di pellegrinaggi dello spirito, autobiografie in fieri nel nome dell’avventura nell’interiorità. 

      È con questo intento che Segnocinema vuole invitare a intraprendere un diverso cammino (in due tappe, qui e nel prossimo numero) lungo le nostre strade di spettatori, trasformando così l’intuizione di Poe in un invito al nomadismo interpretativo. C’è l’imbarazzo della scelta, dal guardarsi indietro (come in una memorabile sequenza in Professione: reporter di Antonioni) al guardare “oltre”, non solo topograficamente, con gli occhi di chi ha ancora voglia di viaggiare, con o senza il cinema.

 


SegnoSpeciale n. 231

TUTTI I FILM DELL'ANNO 2020-2021

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Speciale231 Intro

 

 

 

 

SegnoSpeciale n. 230

Speciale 230

THE NEW MIL POTERE E IL POLITICO
Modi di rappresentazione al cinema
a cura di Enrico Terrone                

      Il potere, inteso come capacità di condizionare le decisioni e le azioni degli altri, è fra i principali fattori narrativi del cinema: la chiave di volta di tanti suoi racconti. I film raffigurano il potere, lo raccontano, lo mettono in scena; quando lo fanno esplicitamente, si parla di cinema politico. D’altra parte, i film possono anche ambire a consolidare - a intaccare - il sistema di potere vigente nel contesto in cui sono prodotti e distribuiti. In tal senso, il cinema partecipa alla lotta per il potere; quando lo fa esplicitamente, si parla di cinema di propaganda.

      Mentre nel cinema politico i film rappresentano il potere come proprio oggetto, nel cinema di propaganda i film agiscono piuttosto come soggetti di potere. Come ha sostenuto Sheryl Tuttle Ross nel saggio “Understanding Propaganda: The Epistemic Merit Model and Its Application to Art” (2002), un film di propaganda comporta un’intenzione di persuadere un gruppo sociale consistente in nome di una certa istituzione, anteponendo il fine della persuasione alle ragioni della verità e della conoscenza. Tracciare nettamente la distinzione fra cinema politico e cinema di propaganda si rivela arduo. I film di propaganda spesso producono effetti di potere raffigurando il potere stesso, così come il cinema politico difficilmente si limita a raccontare rapporti di forza e finisce per farsi a sua volta soggetto di potere.

      La matassa si ingarbuglia ulteriormente se si mette in gioco la nozione di ideologia, che sembrerebbe trasversale alle categorie di cinema politico e cinema di propaganda, come anche la celebre distinzione godardiana tra “fare film politici” e “fare politicamente i film”. I testi di questo Speciale - che sviluppano una linea di riflessione inaugurata dal saggio di Paolo Cherchi Usai “Le immagini del potere” (Gli Anni Luce. 49) apparso sullo scorso numero di Segnocinema - contribuiscono generosamente a districare questa matassa, proponendo percorsi originali e soffermandosi su titoli esemplari.

 


SegnoSpeciale n. 229

Speciale 229

THE NEW ME
Eroine ai tempi della Complex Tv
a cura di Ilaria Franciotti e Marina Pierri                

      Lo Speciale indaga lo sviluppo del personaggio femminile cine-televisivo durante gli ultimi trent’anni, nell’epoca che - seguendo Jason Mittell - possiamo definire della complex Tv, in cui lo storytelling seriale ha raggiunto picchi notevolissimi. In questa nuova era le narrazioni dei personaggi femminili in serie prodotte, scritte e dirette da donne, sono presenti in percentuali che, nonostante siano ancora basse, incontrano un notevole aumento.

      Nel primo intervento Ilaria Franciotti e Marina Pierri delineano un breve percorso dell’Eroina televisiva prima di passare a uno studio di caso su Sex and the City, un format che richiede ancora di essere interrogato, nonostante le sue svariate criticità, anche in vista della nuova stagione prevista per l’anno corrente. Nel secondo articolo Malvina Giordana, partendo dal personaggio del Difficult Man, realizza genealogie in cui abitano rappresentazioni molteplici di Difficult Woman, che incarnano un femminile ormai fortemente connesso al contesto sociale.

      Nel terzo intervento Eugenia Fattori parte da una domanda: quali elementi rendono femminista un personaggio femminile? Prendendo in considerazione un processo dialettico che si attiva tra i soggetti che scrivono, dirigono, producono e quelli che guardano e interpretano l’autrice arriva a delineare diverse griglie narrative giungendo alla conclusione che non sono i personaggi a essere intrinsecamente femministi, ma ognuno di loro può essere letto in un’ottica di critica femminista che ne analizzi il ruolo sia in termini di costruzione dell’immaginario sia in termini di relazione con l’industria.

      L’ultima parte dello Speciale vede un intervento di Eva Cabras relativo alla rappresentazione cine-televisiva di corpi non conformi individuando tre punti di problematicità: quello relativo ai generi narrativi, quello sui ruoli specifici e quello focalizzato sulla singola caratterizzazione. Oltre a individuare tutti gli stereotipi che sono alla base dei punti indicati, l’autrice suggerisce cambi di rotta specifici che possano permettere rappresentazioni più inclusive di ogni tipo di fisicità.

 


SegnoSpeciale n. 228

Speciale 228

EFFETTO COVID Seconda parte
La nuova “normalità” del cinema
a cura di Paolo Cherchi Usai                 

      Supponiamo che, al momento di leggere queste pagine, i cinema italiani siano stati riaperti senza alcuna limitazione in fatto di mascherine, distanze di sicurezza e sanificazione dei locali. In altre parole: il Covid-19 è stato un lungo incubo costato centomila e più vite umane, ma ora che siamo tutti vaccinati la vita può riprendere il suo corso normale. Ritorna finalmente Bond, James Bond, fra poco arriverà Avatar 2, e la Marvel riprenderà a snocciolare nuove permutazioni di supereroi. L’ipotesi è ovviamente irrealistica, ma - nel contesto di questa seconda parte del nostro Speciale sull’immagine in movimento ai tempi della pandemia - ce ne serviamo per interrogare il nostro futuro di spettatori.

      I più ansiosi a cercare responsi immediati nella sfera di cristallo mediatico sono gli organizzatori, i frequentatori e i commentatori dei festival di cinema, la cui crisi d’identità era già evidente prima che il virus gettasse scompiglio nel costipato calendario internazionale dei tappeti rossi; Antonio Termenini ne offre una succinta cronistoria per ricordarci come è nato il fenomeno e quali ne furono le radici culturali. Quanto ai cinematografi e al loro pubblico, nessuno si aspetta miracoli. Nella migliore delle ipotesi si può prefigurare un timido e faticoso ritorno in sala (quando il grosso della stagione italiana è ormai trascorso), ma Marcello Walter Bruno guarda molto più avanti, prefigurando un paesaggio audiovisivo dominato dal principio della mutazione esponenziale.

      La sua salutare allergia alla retorica del piagnisteo è assecondata da Enrico Terrone nella sua analisi delle dinamiche e delle ragioni che governano il grande “sorpasso” della serialità e il lento (forse provvisorio) tramonto della forma-lungometraggio. Ciò che accomuna i due interventi è da una parte l’assenza di trionfalismi nella loro risoluta volontà di guardare avanti; dall’altra, un rispetto per il passato immune da nostalgie così come da quel senso di superiorità dal quale mise in guardia il filosofo medioevale Bernardo di Chartres con il celebre aforisma a lui attribuito: “Siamo come nani sulle spalle di giganti, così che possiamo vedere più cose di loro e più lontane, non certo per l’acume della vista o l’altezza del nostro corpo, ma perché siamo sollevati e portati in alto dalla loro statura”.

      Come in ogni altra disciplina, la fiducia nel futuro passa attraverso l’educazione. Educazione a proteggersi dal virus, a mantenere la distanza di sicurezza, a incoraggiare la ricerca di nuovi antidoti, a vaccinarsi. Nel contributo di Micaela Veronesi, educazione è anche l’opportunità di trasformare una soluzione di emergenza - la didattica del film in formato streaming - in un’occasione per formare la coscienza degli spettatori di domani. Il suo invito a maestri, professori e ai loro studenti è l’implicita rivendicazione del primato della conoscenza sul consumo, del condividere sull’isolarsi dal mondo di fronte a uno schermo. Anche al cinema, in sala o a casa propria, il Covid-19 può insegnarci a fare i conti con la Storia.

 


SegnoSpeciale n. 227

Speciale 227

EFFETTO COVID Prima parte
La nuova “normalità” del cinema
a cura di Paolo Cherchi Usai                    

      Il Covid-19 è una meteora al rallentatore, e le sale di cinema i suoi dinosauri. L’anno appena trascorso ha portato con sé una definizione di annus terribilis che pochi avevano finora immaginato: al posto di un trauma improvviso (guerra, uragano, tsunami, terrorismo, genocidio), ecco un disastro nato in sordina e cresciuto con inesorabile lentezza; invece dello shock sismico, ecco il bradisismo del disorientamento collettivo di fronte a un problema di cui non si conoscono ancora appieno le cause, le dinamiche e le soluzioni.

      Il 4 dicembre 2020 la Warner Bros. ha annunciato che tutti i suoi film saranno disponibili in streaming nello stesso giorno della loro uscita nelle sale (là dove saranno aperte). Pochi mesi prima, il 29 luglio, la Universal aveva stabilito che le proprie produzioni avrebbero migrato sulle “piattaforme” digitali a soli 17 giorni dalla loro prima comparsa sul grande schermo (di norma erano 90), ma la ben più drastica decisione della WB ha tolto gli ultimi margini di dubbio, se ancora ce n’erano. Certe piccole notizie come questa fanno la Storia.

      In una situazione così inafferrabile e perciò così insidiosa, il meno che si possa dire a proposito del mondo della cultura e dello spettacolo è che il panorama sia quasi del tutto irriconoscibile rispetto a quello di dodici mesi fa. Se non lo è completamente, è perché i chiari e forti segni premonitori del cambiamento erano sotto gli occhi di chiunque; in questo senso, l’unica vera responsabilità del Covid-19 è stata quella di trasformare i segnali in realtà empirica. Il pubblico diserta i cinema a favore dello streaming, e i locali chiudono; nella paralisi della Hollywood classica, la serialità prende il sopravvento sul tradizionale modello del lungometraggio a soggetto; un nuovo tipo di collettività “virtuale” stravolge le antiche modalità di fruizione delle immagini in movimento, rivelandone d’un colpo le fragilità e gli anacronismi.

      Ma questo non è tutto. Terminale o no, la crisi di identità del cinema in quanto evento collettivo ha ramificazioni profonde, che coinvolgono non solo la produzione e il consumo delle immagini in movimento ma anche il modo in cui se ne insegnerà la storia, la teoria, la tecnica e l’estetica per le generazioni a venire; lo stesso vale per le abitudini degli spettatori, sia in ambito pubblico che nel privato; e, per quel che può contare, per l’evoluzione del loro spirito critico. Anche i festival dovranno trovare un nuovo modus vivendi in un contesto che già li vede ridotti al rango di manifestazioni ancillari dell’industria, lussuose e tristi appendici delle strategie di marketing aziendale.

      Guardare in faccia a queste realtà senza miopi ottimismi ma senza nemmeno cadere nella trappola della nostalgia a buon mercato. È, al contrario, una preziosa occasione per confrontarsi con un vecchio detto secondo il quale il miglior modo per influenzare il cambiamento è prendersi la responsabilità di farne parte. Ci sono cose molto più urgenti del futuro del cinema, ma questa invenzione di fine Ottocento è ancora con noi; se siamo qui a parlarne è perché crediamo nella sua necessità. Tanto vale sforzarsi di dimostrarlo con qualche buona ragione in più rispetto al nostro mondo di ieri, prima del Covid-19.

 


SegnoSpeciale n. 226

Speciale 226

PIXAR STORIES
25 anni di lungometraggi animati
a cura di Ilaria Franciotti e Valerio Sbravatti                

      25 anni fa, il 22 novembre 1995, Toy Story fu distribuito nelle sale statunitensi. Si tratta del primo lungometraggio prodotto da Pixar Animation Studios, nonché del primo lungometraggio di sempre animato interamente al computer. Esso fu un immediato successo di pubblico e di critica, e ha segnato l’inizio di una sequela di lungometraggi Pixar - solitamente preceduti ciascuno da un cortometraggio diverso - che costituiscono una presenza fondamentale nell’offerta cinematografica di film animati, dagli incassi medi altissimi e con numerosi premi e riconoscimenti. Con l’occasione di questo anniversario, il presente Speciale intende offrire una panoramica utile a conoscere meglio la casa di produzione Pixar.

      Christian Uva delinea un profilo storico della Pixar dalla nascita a oggi, ragionando sulle sue radici culturali, sul suo ruolo nel mercato cinematografico statunitense, e sul suo rapporto con quella che sarebbe diventata poi la casa madre, Disney. Marco Bellano analizza l’innovativo utilizzo delle tecnologie digitali da parte della Pixar, in equilibrio tra avanguardia e artigianato. Franco Fraternale si occupa degli aspetti drammaturgici e tematici fondamentali dei lungometraggi Pixar, rilevando in particolare come nei personaggi vi sia un contrasto tra ciò che desiderano e ciò di cui hanno davvero necessità. Ilaria Franciotti ragiona sul ruolo delle donne nell’azienda e al contempo sui personaggi femminili cui essa ha dato vita. Infine, Valerio Sbravatti offre una breve guida per orientarsi tra i lungometraggi Pixar, da Toy Story a Onward - Oltre la magia.

 


SegnoSpeciale n. 225

TUTTI I FILM DELL'ANNO 2019-2020

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Speciale225 Intro

 

 

 

 

SegnoSpeciale n. 223-224

Speciale 223-224

C’ERA UNA VOLTA LA STORIA (DEL CINEMA)
Come raccontare il passato del grande schermo
a cura di Paolo Cherchi Usai                 

      Questo Speciale di Segnocinema è stato concepito e messo in cantiere quando l’acronimo Covid-19 non era stato ancora inventato. Al momento di andare in stampa, i nostri orizzonti sono radicalmente mutati; cambieranno ulteriormente da qui al momento in cui leggerete queste pagine, ma non sappiamo come. Un grande economista del ventesimo secolo, John Kenneth Galbraith, aveva detto che “l’unico scopo delle previsioni economiche è quello di dare un’aria di rispettabilità all’astrologia”. Il suo motto potrebbe essere applicato anche al mondo dello spettacolo, e in particolare a ciò che si era soliti chiamare “cinema”.

      Per una straordinaria coincidenza, ci ritroviamo a riflettere sul come raccontarne il passato in un frangente che si può definire a buon diritto un evento-spartiacque. I cinema di quasi tutto il mondo hanno chiuso i battenti per più di tre mesi: in Europa, ciò non accadeva dai primi di agosto del 1914, pochi giorni dopo l’assassinio del principe Francesco Ferdinando a Sarajevo. La macchina da guerra dello streaming ne ha approfittato subito. C’è chi dice che l’Internet abbia con ciò assestato il colpo di grazia a una forma di intrattenimento collettivo già moribonda; altri sostengono che si tratti di una crisi transitoria. Pur tenendo a mente il felice aforisma di Galbraith, sono d’obbligo almeno due constatazioni. La prima è che in tutta questa storia i festival del cinema stanno facendo una pessima figura, mettendosi sullo stesso piano dell’industria calcistica con il loro rifiuto di cancellare gli eventi di quest’anno per evidenti cause di force majeure; ma di questo parleremo forse più tardi.

      L’altro dato di fatto è la brusca interruzione di un capitolo della nostra cultura audiovisiva, che si credeva destinato a un finale in forma di melanconica dissolvenza in chiusura. Sotto molti punti di vista, si può ben dire che una storia del cinema finisce qui, ed è opportuno guardarsi indietro per meglio spiegare alle prossime generazioni di spettatori che pubblico siamo, da dove veniamo, e in cosa abbiamo creduto: da qui la scelta di lanciare uno sguardo retrospettivo alla nostra libreria. C’è stata un’epoca in cui la biblioteca di ogni cinefilo conteneva almeno un libro di storia del cinema. La sua presenza sugli scaffali era, in un certo senso, un indicatore di legittimità della passione per le immagini in movimento. Più che essere letti da cima a fondo, questi volumi erano trattati come Bibbie per un culto da celebrare in sala: strumenti di consultazione, integrati molto spesso da dizionari dei film e dei registi.

      Con l’evolversi del cinema, dei suoi spettatori e del mercato, l’editoria del cinema - una volta fiorente industria di nicchia - si è ridotta a un fantasma di ciò che era ieri, mantenuto precariamente in vita dalle università e da pochi coraggiosi imprenditori. È anche cambiato il modo di imparare la storia del cinema guardando le sue opere, ma non è solo questione di Internet; raccontare le grandi opere e le maggiori personalità del passato significava percorrere pochi decenni di Storia. È ora passato più di un secolo dai fratelli Lumière, e la memoria cronologica degli spettatori è così breve che un classico “moderno” come The Shining è visto da molti come il reperto di un’epoca già lontanissima.

      Ma che cos’è allora, oggi, la “storia del cinema” per uno spettatore motivato da interessi puramente personali (cioè non professionali)? E se questa storia non si legge più sui libri, quali sono le modalità di formazione di una memoria collettiva sull’ex-“nuova forma d’arte”? L’intento di questo Speciale è di guardare dentro ma soprattutto fuori dai recinti delle discipline universitarie, cercando di comprendere, discutere e valutare gli sviluppi di una storiografia che non si fa più soltanto con la parola scritta, e che non si può più discutere al singolare. Le “storie” dei film già fatti e di coloro che li hanno creati richiedono insomma nuovi narratori, nuovi metodi, e nuove strategie culturali.

 


SegnoSpeciale n. 222

Speciale 222

LA POST NEW HOLLYWOOD DEGLI ANNI '90
Miramax, New Line e la Indiewood americana
a cura di Tommaso Mozzati               

      È ormai passato un trentennio dal trionfo a Cannes, nell’irripetibile 1989, di Sesso, bugie e videotape, successo che impose sulla scena internazionale il profilo di un giovanissimo autore di Atlanta, Steven Soderbergh, e che fu il volano per l’affermarsi di una nuova idea di cinema indipendente, da quel momento in poi destinato a venir integrato nelle dinamiche produttive del mainstream hollywoodiano grazie a case fra cui la Miramax e la New Line, a eventi sul tipo del Sundance Film Festival. Proprio le traversie toccate di recente in sorte a Harvey Weinstein, che di quella svolta è stato protagonista indiscusso accanto al fratello Bob, si offrono allora - soprattutto sul piano dell’immaginario collettivo - come l’atto finale di una ricca stagione, giunta a un capolinea simbolico nonostante che il suo tramonto venga di solito ricondotto già ai primi anni del 2000.      

      Al di là, infatti, dei riflessi personali connessi a tali, spinose vicende, si è legato a esse il senso di una più generale revisione, in virtù della loro stessa risonanza e della loro forza simbolica: basti pensare alle conseguenze critiche sull’odierna ricezione di Kill Bill, pietra miliare di una siffatta temperie in termini di ambizioni stilistiche, di investimenti finanziari e di esito al botteghino. Con in mente il pretesto offerto da un simile turning point, ci si può allora rivolgere alle filmografie favorite da quel coeso frangente storico ed economico, valutandone a un tempo le premesse, i risultati e i riflessi, nella disamina di personalità al centro dell’attuale scena cinematografica americana, fra cui quelle dello stesso Soderbergh, di Quentin Tarantino, di Paul Thomas Anderson o in misura minore di Kevin Smith, di Nancy Savoca e di altri nomi usciti dalla fucina creativa degli anni Novanta.

 


SegnoSpeciale n. 221

Speciale 221

VENT'ANNI NEL DUEMILA
Traiettorie nel cinema dal 2000 al 2019
Seconda parte
a cura di Enrico Terrone          

      Se la crisi del cinema, la morte del cinema, il post-cinema sono stati temi centrali dei dibattiti teorici del tardo Novecento, i primi due decenni del nuovo secolo hanno offerto significativi casi di studio a supporto di questo genere di riflessioni. Su tale passaggio dalla teoria alla pratica, vertono, ciascuno a suo modo, i saggi che costituiscono la seconda parte dello Speciale. Paolo Cherchi Usai individua nella “logorrea audiovisiva” il tratto caratterizzante del cinema contemporaneo, mettendola in relazione con il passaggio dall’analogico al digitale. In una vena simile, Flavio De Bernardinis parla di una transizione dal “cinema”, inteso come tradizione genuinamente collettiva, ai “film”, intesi invece come meri oggetti di consumo, che sono fruiti individualmente o al più condivisi nel senso banale in cui si condivide un contenuto sulle reti sociali.      

Micaela Veronesi identifica invece la specificità degli ultimi vent’anni in una nuova, più che mai complessa, relazione fra cinema e realtà, per cui il primo non si limita a rispecchiare oppure ignorare la seconda, ma la riconfigura sistematicamente attraverso la finzione. La questione del reale è ugualmente decisiva nell’intervento di Marcello Walter Bruno, che analizza l’assegnazione dei premi Oscar alla regìa negli ultimi due decenni, notando l’emergere di una nuova generazione di autori (in particolar modo los tres amigos Cuarón, González Iñárritu e Del Toro) che combinano disinvoltamente ambizioni artistiche e spettacolo commerciale, realismo ontologico e manipolazione digitale.

      Resta però una questione aperta. Posto che il cinema come pratica e come arte sia cambiato nel modo che questi interventi suggeriscono, che ne è del valore dei singoli film? Lo Speciale cerca infine, se non proprio di dare una risposta, almeno di offrire nuovi spunti di riflessione, chiedendo ai collaboratori di "Segnocinema" quali sono le opere che li hanno maggiormente segnati in questi vent’anni nel Duemila.

 


SegnoSpeciale n. 220

Speciale 220

VENT'ANNI NEL DUEMILA
Traiettorie nel cinema dal 2000 al 2019
Prima parte
a cura di Enrico Terrone     

      L’idea di questo Speciale nasce da una serie di interventi pubblicati verso la fine del 2018 dal filosofo Alessandro Torza sul suo profilo Twitter (https://twitter.com/torschau). Vi erano elencati in ordine cronologico una quarantina di film (da In the Mood for Love e Werckmeister Harmonies per arrivare sino a Blade Runner 2049 e The Killing of a Sacred Deer) selezionati come i più memorabili del ventennio che stava volgendo al termine. Al di là del mio accordo su certi titoli (Under the Skin, A Tale of Two Sisters...) e del netto disaccordo su altri (The Grand Budapest Hotel, Old Boy...), quel che più mi colpiva era che la selezione non riguardasse un decennio, come accade tipicamente quando il cambio di decina si avvicina, bensì un arco di vent’anni. Su questa scelta, a differenza di quella dei titoli, il mio accordo è totale. Osservandolo da dove siamo ora, l’inizio del nuovo millennio mi appare come un blocco unitario, il che motiva l’estensione della durata dai dieci anni canonici ai venti. Dopo il secolo breve, il decennio lungo. 

Il cinema nell’epoca dell’arte televisiva

      Fra i principali fenomeni socio-culturali del decennio lungo c’è sicuramente l’ascesa del web come nuovo medium egemone: il sesto potere che si è mangiato in un sol boccone il quarto e il quinto, la stampa e la televisione. Quest’ultima si è però presa la sua rivincita in ambito artistico, andando a insidiare il primato del cinema come arte audiovisiva, dopo decenni in cui il palinsesto televisivo era stato artisticamente irrilevante. La centralità delle serie televisive nell’estetica contemporanea è ormai un dato di fatto, ben evidenziato e analizzato dal saggio di Luca Bandirali per questo Speciale.

      Come ha reagito il cinema, “l’occhio del Novecento”, a questa inattesa invasione di campo cominciata al volgere del secolo? Quali tratti cinematografici peculiari meglio hanno contribuito a far fronte all’insidioso sfidante televisivo? Una prima strategia di risposta ci porta a considerare il potenziale plastico e spettacolare del grande schermo, che negli ultimi vent’anni è stato valorizzato in particolar modo dal connubio fra la tecnologia digitale e l’estetica del fumetto. È un processo che inizia con X-Men di Singer (2000) e Spider-Man di Raimi (2002), per poi raggiungere vertici di complessità e virtuosismo nelle opere di cineasti come Rodriguez, Nolan e Snyder. Su questo tema lo Speciale presenta una proficua dialettica fra Roy Menarini, che esprime scetticismo riguardo alla nuova estetica dei blockbuster digitali, e Alessandro Torza, che insiste invece sulla rilevanza artistica e sulla profondità filosofica di una certa tendenza del cinefumetto contemporaneo, esemplarmente incarnata da Batman v Superman: Dawn of Justice.

      Una seconda peculiarità cinematografica nell’epoca dell’arte televisiva è la vecchia cara (cara?) politique des auteurs, croce e delizia della cinefilia. Come noto, le serie Tv solitamente non hanno un autore, inteso come regista che dà la sua impronta all’opera mediante la messa in scena. Se proprio ci sono degli autori, sono i cosiddetti showrunner, figure ibride di sceneggiatori e produttori (da J.J. Abrams a Charlie Brooker, da Ryan Murhpy a Matthew Weiner). È un fatto, però, che l’apprezzamento estetico delle serie si sia finora concentrato sopratutto sulle opere. Invece, come mostra vividamente il contributo di Andrea Bellavita a questo Speciale, nel cinema contemporaneo resta cruciale il culto degli autori, che ha le sue roccaforti nei festival. 

L’autore come serie

      Sebbene la figura dell’autore marchi una differenza importante fra il cinema e le serie televisive, c’è anche una corrispondenza che a mio avviso non ha sinora ricevuto l’attenzione che meriterebbe. L’autore cinematografico assomiglia a una serie. Ogni suo nuovo film è come una nuova stagione che può essere valutata non solo come oggetto a sé stante ma anche come componente di un’opera più ampia, che nel caso televisivo è la serie stessa mentre nel caso cinematografico è la filmografia del cineasta, quella che si potrebbe definire “serie-autore”. Come una serie Tv tipicamente inanella stagioni finché il network non la chiude, così la serie-autore inanella film finché la salute dell’autore medesimo lo sostiene. Economiche o biologiche che siano le ragioni della chiusura, la serie Tv e la serie-autore sono oggetti d’apprezzamento estetico accomunati dall’estensione temporale: non solo raccontano storie ma soprattutto hanno a loro volta una storia, un ciclo di vita.

      Detto questo, che ne è delle serie-autore negli ultimi vent’anni? Il mio sospetto è che si tratti per lo più di serie che hanno dato il meglio di sé nel secolo precedente, e che ora si limitano a variazioni sul tema e note a margine, se non proprio a snocciolare nuove stagioni per mera inerzia. Fra gli autori più celebrati del decennio lungo, ci sono vari cineasti i cui film migliori si situano negli anni Novanta (Assayas, Burton, i Coen, Eastwood, Tarantino...) o addirittura nei decenni precedenti (Allen, Almodóvar, Malick, Moretti, Cronenberg, Scorsese...). Non è facile trovare un grande autore del cinema contemporaneo che abbia dato il meglio di sé nel nuovo secolo. Si potrebbero forse menzionare Wong Kar-wai, P.T. Anderson, Van Sant, i Dardenne, von Trier, Sokurov, Haneke, ma non ne sarei così sicuro. Fra le eccezioni c’è sicuramente il Lynch di Mulholland Drive, probabilmente il film più discusso e amato (non da me, ma che importa) del periodo in questione. Però stiamo parlando di un film del 2001, che fa dittico con un altro del 1997, Strade perdute: sembra più un ultimo bagliore degli anni Novanta, anziché una pietra miliare del cinema del Duemila.

      Poi ci sono le serie-autore che hanno esordito nel nuovo secolo, quelle di Larraín e Mungiu giusto per citarne un  paio, oltre a tante altre che si possono incontrare nell’intervento di Bellavita. Qui ci si addentra in una questione spinosa, che peraltro affiora anche in alcuni passaggi del saggio di Menarini: non sarà forse che le serie-autore degli anni Duemila, per quanto ammirevoli, non sono all’altezza di quelle cui ci avevano abituato i decenni precedenti? La mia tentazione sarebbe di rispondere che è proprio così, ma argomentare su questo punto porterebbe troppo lontano. E poi si potrebbe sempre obiettare che sopravvalutare il passato e sottovalutare il presente è una delle fallacie più radicate nell’anima umana, come peraltro spiegato magistralmente proprio in un film del periodo di cui stiamo trattando: Midnight in Paris

I film fuori-serie

      Mi limito allora a constatare che fra i miei film preferiti del decennio lungo ci sono soprattutto dei “fuori-serie”: titoli come Almost Famous, Funny People, Young Adult, il cui valore estetico è sostanzialmente indipendente dall’eventuale collocamento all’interno di una serie-autore. Del tutto “fuori-serie” è anche quello che continua a sembrarmi uno dei fenomeni più interessanti del cinema del nuovo secolo: la neo-commedia hollywoodiana - o “Filmetto”, come  è stata ribattezzata su Segnocinema - la cui estetica spregiudicata oggi si fa sentire anche nel cinema americano più esplicitamente artistico o politico: i casi di Green Book, Vice e Joker, firmati rispettivamente dai registi di Amore a prima svista, Anchorman e Old School, sono lì a dimostrarlo. E non è forse vero che due fra i più celebrati nuovi autori americani, Wes Anderson e Noah Baumbach, hanno dato il meglio di sé proprio nei loro incontri - nei Tenenbaum e in Greenberg - con l’interprete più emblematico del Filmetto, vale a dire Ben Stiller?

      Se ne potrebbe dibattere all’infinito. Il punto è che i film del decennio lungo, tanto quelli amati quanto quelli odiati, mi appassionano come pochi altri: sono i film della mia vita, non fosse che per il banale fatto anagrafico che questi vent’anni stanno proprio al centro della mia vita. Da qui l’idea di coinvolgere in questo Speciale altre persone che nel 2000 avevano, chi più chi meno, un’età fra i vent’anni e i trenta: la generazione che, mentre sullo schermo scorrevano questi film, è diventata adulta a tutti gli effetti. Ne risulta dunque uno sguardo sul cinema di inizio secolo volutamente parziale e polarizzato: vent’anni nel duemila raccontati da chi, come il Jonas di Tanner, aveva vent’anni nel 2000. A tale parzialità cercheremo comunque di porre rimedio nel prossimo numero, in cui lo Speciale sarà integrato da una seconda parte destinata ad aprirsi a una maggiore varietà di prospettive.

 


SegnoSpeciale n. 219

TUTTI I FILM DELL'ANNO 2018-2019

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SegnoSpeciale n. 218

Speciale 218

CATTIVISSIMI LORO?
I mille volti dell'antagonista fra cinema e Tv
a cura di Ilaria Franciotti e Valerio Sbravatti            

     

      È sin dall’antico teatro greco che si rileva l’opposizione drammaturgica tra il protagonista e l’antagonista, cioè tra il personaggio principale e colui o colei che si oppone al suo obiettivo pragmatico, ovvero al suo scopo. Questa opposizione basilare e astratta è riscontrabile pressoché in qualunque narrazione audiovisiva, sebbene si possa manifestare con una grande varietà di soluzioni. Basti considerare che nonostante il/la protagonista e l’antagonista stereotipici/che siano rispettivamente un personaggio buono e uno cattivo ciò non costituisce affatto una regola assoluta: i confini tra i due poli morali possono sfumare, fino a ribaltare la connotazione dei due personaggi, il che accade persino in generi insospettabili.

      Gli interventi di questo Speciale intendono dibattere questa idea. Armando Fumagalli offre un’analisi di antagonisti più evoluti rispetto a quello archetipico, che si oppone in modo manicheo al protagonista buono. I successivi tre interventi sono dedicati ciascuno a uno specifico genere tipico del cinema statunitense: Valerio De Simone affronta l’antagonista del teen movie, specificamente quella del periodo contemporaneo, ovvero la bitch, mostrando come le dinamiche del genere siano in buona parte determinate da dinamiche di gender; Ilaria Franciotti e Valerio Sbravatti propongono una tipologia di antagonisti del cinema horror statunitense, rilevando le caratteristiche ricorrenti della mostruosità e le possibili dinamiche che si attuano nello scontro tra mostro e protagonista; Giulia Cavazza si dedica al cinema d’animazione, evidenziando l’evoluzione nella costruzione dell’antagonista dall’epoca classica - dominata dalla produzione Disney, con i suoi personaggi semplici - fino a quella attuale in cui i conflitti sono maggiormente elaborati. Infine Luca Bandirali ed Enrico Terrone sostengono che in numerose serie televisive contemporanee si presenta come protagonista un tipo di antagonista moralmente ambiguo, ovvero un antieroe.

 


SegnoSpeciale n. 217

Speciale 217

IL LAVORO TRA NOI DIFFICILE
La rappresentazione del lavoro in età globale
a cura di Tiziano Toracca            

      A partire dagli anni Ottanta, con l’avvio del processo di globalizzazione dei mercati, di esternalizzazione della produzione, di digitalizzazione e smaterializzazione dell’economia, di polarizzazione tra aree del pianeta sempre più produttive e aree sempre più consumistiche, il mondo del lavoro ha subito trasformazioni radicali ancora oggi, in parte, indecifrabili. In Europa, il 1989 è forse la data che coglie meglio di qualunque altra questa cesura strutturale con cui s'inaugura la mondializzazione dell’economia. Le espressioni e le metafore chiave che sono emerse dall’ampio dibattito (trentennale, internazionale e interdisciplinare) sul lavoro in età globale sono ormai entrate a far parte del lessico quotidiano e danno indubbiamente conto di una perdita drammatica in termini di diritti, garanzie, valori. Parole o espressioni come ad esempio flessibilità, precarietà, instabilità, fine del lavoro, tramonto della classe, neoalienazione, neocaporalato, smobilitazione o mobilitazione totale, descrivono il nostro presente e si prestano a definire la negatività di esperienze quotidiane e comuni.      

      Considerando la centralità assunta dal lavoro a partire dall’età moderna (ma la sua rivalutazione simbolica comincia nel Medioevo, con il sorgere dei comuni e della borghesia mercantile), considerando cioè il legame tra il lavoro e l’identità sociale dell’individuo, la crisi occupazionale, la precarietà diffusa e le nuove forme di produzione e di consumo (il cosiddetto neocapitalismo parassitario che sfrutta i big data e le informazioni che gli individui scambiano sui social) sembrano addirittura tracciare una nuova antropologia (da questo punto di vista dovremmo forse riconsiderare la mutazione antropologica che Pasolini denunciava alla fine degli anni Sessanta e prendere sul serio non la sua profezia ma il suo strabismo). Di certo, più concretamente, questi fenomeni sono all’origine di forme di povertà e marginalità inverosimili, di avvenimenti senza precedenti e perciò epocali (i flussi migratori), di una spaventosa regressione culturale, di risentimenti e paure che favoriscono il ritorno a forme di nazionalismo tendenti a legittimare spinte reazionarie e xenofobe, a propagandare semplificazioni, a sostenere la legge del più forte (la logica del capitale) e a costruire zone di esclusione e di concentrazione.

      L’interesse per il tema del lavoro da parte di registi e autori di film, documentari o serie televisive, e da parte della critica (gli studi di Antonio Medici e Fiorano Rancati, di Angelo Sismondi e Roberto Tassi, di Elisa Veronesi e più recentemente di Stefano Alpini e Paolo Chirumbolo), è oggi indubitabile. Penso anzitutto ai film di Ken Loach (I, Daniel Blake, del 2016, ma anche It’s a Free World... di quasi dieci anni prima), uno dei registi più interessati ai temi sociali, capace di rappresentare poeticamente e senza melodramma le conseguenze della violenza che la legge del mercato esercita sulle persone e in particolare sui più deboli, sulle piccole comunità e sul tessuto sociale. Penso all’opera dei fratelli Dardenne (Deux jours, une nuit del 2014 resta a mio avviso un piccolo capolavoro ma si veda anche Rosetta, del 1999). Penso a Liberi (2003) di Gianluca Maria Tavarelli, a Stupeur et tremblements (2003) di Alain Corneau, sulla dura lotta che regola la vita di un’azienda multinazionale, a Il posto dell’anima (2003) di Riccardo Milani (autore del più recente Come un gatto in tangenziale, 2017, dedicato alle periferie italiane) e soprattutto a Mi piace lavorare - Mobbing (2003) di Francesca Comencini, autrice di alcuni documentari molto belli, tra cui In fabbrica (2007) dedicato alla storia operaia italiana.

      Oltre ad affrontare il problema del mobbing (come atto di sfruttamento) e della discriminazione di genere, Mi piace lavorare spinge a riconsiderare a tutto campo l’importanza della solidarietà di classe (uno dei maggiori problemi causati dalla flessibilità e dalla somministrazione di lavoro per mezzo di agenzie interinali è proprio la frammentazione della classe e del lavoro) richiamando alla mente in qualche modo Ressources humaines (1999) di Laurent Cantet, dedicato alla figura precaria e sfruttata dello stagista ma soprattutto al tema della solidarietà tra i lavoratori (sempre più difficoltosa) e al rapporto generazionale, tema quest’ultimo davvero centrale nell’immaginario letterario e cinematografico (di Cantet ricorderei anche Entre les murs del 2008, dedicato alla scuola, L’Emploi du temps del 2001, ispirato al celebre caso di Jean-Claude Romand, e anche L’atelier, del 2017, quantomeno per lo spunto e la sua ambientazione). 

Le trasformazioni del mondo del lavoro nei film

      Ma si potrebbe pensare anche a La febbre (2005) di Alessandro D’Alatri, consacrato alla sempre più difficile integrazione dei giovani nel mercato del lavoro come anche, in qualche modo, il suo ultimo film, The Startup (2017), a Giorni e nuvole (2007) di Silvio Soldini, all’angosciante commedia Louise Michel (2008) di Gustave Kervern e Benoît Delépine, a C’è chi dice no (2011), di Gianbattista Avellino, a Piccola patria (2013) il film d’esordio di Alessandro Rossetto, autore, nel 2002, di un documentario sul lavoro intitolato Chiusura, al drammatico e straordinario La Loi du marché (2015) di Stéphane Brizé (secondo alcuni il capolavoro del genere) e al suo recentissimo En guerre (2018), dedicato ancora una volta alle dure conseguenze sociali provocate dalle logiche mercantili. O ancora: a Sole cuore amore di Daniele Vicari (2016), a Petit paysan del giovane Hubert Charuel (2017) - una sorta di tragedia moderna - a Nos batailles (2018) di Guillaume Senez (autore paragonato ai Dardenne) e a Un homme pressé (2018) di Hervé Mimran.

      Ma si potrebbe pensare anche alle opere che si sono ispirate direttamente a testi letterari sul mondo del lavoro: Volevo solo dormirle addosso (2004) di Eugenio Cappuccio, ispirato all’omonimo libro di Massimo Lolli (1998), e Cappuccio è anche autore di Uno su due (2006); Le Couperet di Costa-Gavras (2005), basato sul romanzo The Ax (1997) di Donald E. Westlake; La stella che non c’è (2006) di Gianni Amelio, tratto da uno dei primi e dei migliori romanzi postindustriali, La dismissione (2002) di Ermanno Rea, ma di Amelio andrebbe ricordato anche il più recente L’intrepido (2013); Tutta la vita davanti (2008) di Paolo Virzì, liberamente tratto dal più celebre e fortunato testo italiano sul precariato e cioè Il mondo deve sapere. Romanzo tragicomico di una telefonista precaria (2006) di Michela Murgia[1]; Generazione mille euro (2009) di Massimo Venier (già autore di Mi fido di te), tratto dal romanzo omonimo di Antonio Incorvaia e Alessandro Rimassa (2006); 7 minuti (2016) di Michele Placido, ispirato al testo drammatico di Stefano Massini (2015); Sul mare, del già citato Alessandro D’Alatri, tratto da In bilico sul mare (2009) di Anna Pavignano.

      Per quanto riguarda i documentari, molto si è imparato da Attention danger travail (2003) di Pierre Carles, Christophe Coello e Stéphane Goxe, da Morire di lavoro (2008) di Daniele Segre e da Tout s’accélère (2014) di Gilles Vernet, ma un valore eccezionale hanno i documentari dedicati alla tragedia avveuta alla ThyssenKrupp di Torino nel dicembre del 2007 per il fortissimo valore simbolico di questa disgrazia anche in rapporto al ritorno della fabbrica nell’immaginario collettivo e artistico contemporaneo. Penso soprattutto a La classe operaia va all’inferno di Simona Ercolani del 2008 e al film dello stesso anno di Mimmo Calopresti: La fabbrica dei tedeschi, opere su cui hanno riflettuto recentemente Paolo Chirumbolo e Monica Jansen. L’interesse per il lavoro è del resto ben testimoniato dal moltiplicarsi di rassegne e festival promossi non più soltanto da associazioni di categoria o da associazioni culturali ma anche all’interno di istituzioni come scuola, università e agenzie di formazione e orientamento.

      Lo Speciale di "Segnocinema" tiene conto di questo scenario - l’idea di riflettere sulla rappresentazione del lavoro e delle sue trasformazioni è nata proprio durante un festival dedicato alle metamorfosi del lavoro[2] - ma la sua ambizione è naturalmente più circoscritta. Da un lato, attraverso i contributi di Checcaglini, Tricomi, Chirumbolo, Terrone e Alampi, lo Speciale vuole mettere in rilievo e dar conto della pluralità delle forme e dei generi con cui è stato rappresentato il lavoro (documentario, fiction, serie televisive) e della varietà dei fenomeni che possono rientrare in questo tipo di indagine (la precarietà, la discriminazione di genere, il nuovo operaismo, l’utopia o la distopia di un reddito di base, la debolezza dell’anticapitalismo e della sinistra). Non ha dunque alcuna pretesa di esaustività, al contrario scommette sulla complessità e l’urgenza del tema e sulla volontà di riflettere (e perché no, di contribuire all’indagine) da parte del lettore e dello spettatore.

      Dall’altro lato, attraverso la Domanda finale, lo Speciale mira a verificare quali opere hanno segnato l’immaginario contemporaneo in relazione alla crisi del lavoro. Un piccolo panorama dunque, ma anche qui, “in soggettiva” e in vista di integrazioni, ripensamenti, giunte.

 

[1] Tra i testi letterari sul precariato, andrebbero ricordati anche e almeno: Pausa Caffè, di Giorgio Falco (2004), Cordiali saluti di Andrea Bajani (2005) e Mi chiamo Roberta ho 40 anni, guadagno 250 euro al mese... di Aldo Nove (2006).

[2] Era la seconda edizione del Working Title Film Festival (WTFF). Cfr. http://www.workingtitlefilmfestival.it/en/.

 


SegnoSpeciale n. 216

Speciale 216

LO SPETTATORE RIVISITATO
Seconda parte: Dalla visione al consumo
a cura di Paolo Cherchi Usai         

      La prima parte di questo Speciale (ved. Segnocinema n. 215) ha percorso a sommi capi la storia dello spettatore, vista attraverso la lente della Storia e della biografia: scoprire il cinema da bambini, vederne il più possibile o soltanto alle feste comandate, imparare a guardarlo al femminile. Al giro di boa c’era una domanda-chiave sulla svolta nell’esperienza visiva, che coincide con il momento in cui si comincia a scegliere non solo quanti film si vogliono vedere, ma quanto si vuole vedere l’opera singola (nella sua interezza; a pezzi e bocconi; a metà; per frammenti; e così via). L'intervento di Davide Turrini fungeva non solo da cerniera, ma anche e soprattutto da prologo per il secondo episodio dello Speciale, dedicato allo spettatore del futuro.     

 È di rigore ricorrere al plurale: bisognerebbe parlare di futuri plurimi, di spettatori parcellizzati (non più “collettività” bensì “atomi” multipli della percezione), di tempi e luoghi che si moltiplicano quasi all’infinito, secondo il numero delle postazioni (gli schermi, finché dureranno) e delle opportunità percettive (gli spettacoli, finché ve ne saranno). Gli uni e le altre si coagulano intorno a un nuovo spartiacque, che separa due diversi motivi per guardare immagini in movimento: la ricerca della “visione” di mondi reali o immaginari, ovvero la “consumazione” di un prodotto che s'insiste a chiamare “film”, anche se non c’è più pellicola di mezzo, e “cinema” nel suo insieme, anche se lo si dovrebbe definire altrimenti.

      Nei quattro interventi che seguono, la transizione è esaminata secondo prospettive complementari, a cominciare dalla fondamentale questione sollevata da Adriano De Grandis: guardiamo più immagini artificiali di quanto non sia mai accaduto prima, ma ciò non significa che sappiamo guardarle meglio. Malgrado la sua apparente banalità, il dubbio è esacerbato e reso ancora più pregnante dalla straordinaria disinvoltura con cui lo “spettatore mobile” (nell’intervento di Claudia Porrello) può “vedere” o “consumare” immagini. La Frontiera è per ora rappresentata dalla visione in quanto “evento speciale”: lo “spettatore virtuale” (così com’è presentato dal saggio di Nicola Dusi) è pioniere e consumatore al tempo stesso, ma per quanto potrà mantenere la sua duplice identità di esploratore e di cavia della tecnocrazia?

      La meditazione di Adelina Preziosi a chiusura di questa raccolta propone un’implicita risposta al quesito, attraverso un umile quanto coraggioso atto di stoicismo critico, nel quale molti di noi dovrebbero riconoscersi: Preziosi parla di se stessa ma anche di tutti noi, spettatori per caso, non di rado consumatori controvoglia, magari affezionati a un modo di andare al cinema che non esiste più, eppure tutt’altro che rassegnati a trattare il cinema come oggetto di una percezione distratta, malleabile all’infinito, in ultima analisi superflua. In appendice a questo Speciale abbiamo perciò chiesto a un gruppo di collaboratori della rivista di confessare le proprie inclinazioni in quanto spettatori, e di metterle a confronto con quelle degli altri. È una lettura illuminante, che chiede e promette discussioni ulteriori sulle pagine di questa rivista.

 


SegnoSpeciale n. 215

Speciale 215

LO SPETTATORE RIVISITATO
Prima parte: Sperduti nel buio
a cura di Paolo Cherchi Usai       

      Quando si dice “spettatore” bisogna prima di tutto intendersi sul “quando” e sul “dove”. C’era un’epoca - apparentemente ormai remota - in cui si decideva di andare al cinema per istinto, passeggiando per le strade di una città o per ammazzare la noia; se si va “al cinema” ancora oggi, lo si fa sulla base di una decisione razionale, programmando in anticipo e scegliendosi i posti a sedere dopo avere analizzato le reazioni altrui (l’improvvisazione ha peraltro trovato il suo spazio ideale nel consumo delle immagini su Internet). Lo spettatore italiano va raramente al cinema in piena estate, ma luglio e agosto sono i mesi “caldi” per la distribuzione negli Stati Uniti e in molti altri Paesi. In alcune parti del mondo si va al cinema con un’assiduità ormai ignota alla maggior parte degli spettatori europei o nord-americani; in altre, la frequentazione di una sala è quasi un atto trasgressivo.

      Non ci sarebbe cinema senza spettatori; l’uno e gli altri sono tuttavia cambiati in maniera incessante nel corso del tempo, influenzandosi a vicenda e determinando la natura e il corso delle nostre esperienze visive: in sala, a casa propria, ovunque ci si trovi. Non esiste a tutt’oggi un atlante storico-geografico dello spettatore: per disegnarlo bisognerebbe disporre di una conoscenza enciclopedica del cinema ormai irraggiungibile senza uno sforzo collettivo e prolungato. È invece possibile tracciare le coordinate di questa mappa percettiva, cominciando dalla domanda più semplice e dalle sue più intricate ramificazioni: che differenza c’è fra lo spettatore che ha visto uscire Casablanca e quelli che hanno assistito all’inaugurazione di Guerre Stellari, e più tardi Il Signore degli Anelli, e più tardi ancora Game of Thrones? Era un uomo o una donna? In quale parte del mondo? È accaduto in un cinema, in un salotto, in aereo, o alla fermata di un autobus?

      Le risposte a queste domande sono articolate in uno Speciale in due parti, che hanno come fulcro rispettivo il passato e il tempo a venire. In questo numero si tenterà di disegnare un ritratto dello spettatore cinematografico così come esso è nato e cresciuto dal secolo scorso fino a oggi, sulla scorta di quanto già descritto in “Spettatori per caso” (Gli Anni Luce 44, Segnocinema 212, luglio-agosto 2018, pp. 6-9), prologo ideale di questo Speciale. Il punto di avvio è il cinema visto dai bambini, secondo la prospettiva autobiografica suggerita da Enrico Terrone. All’estremo opposto è l’approccio immersivo tipico dei presunti “anni d’oro” della cinefilìa militante (Roberto Chiesi), contraddistinto dall’idealistica voracità del vedere; Micaela Veronesi ne esplora la “diversità” del punto di vista femminile, in un percorso che ha inizio con la visione “ingenua” dello spettacolo e trova il suo provvisorio punto di arrivo nella “spettatrice” come entità politicamente autonoma.

      Gli ultimi due interventi di questa prima parte si occupano invece degli spettatori di cui non si parla abbastanza, forse perché non leggono mai riviste di cinema: quelli che guardano film soltanto a Natale (nel contributo di Orazio Paggi), e quelli che non li vedono per intero o stanno alla larga dai film-fiume di tre ore e più (ne discute Davide Turrini). Lo spettatore è questo, e molto altro: lo Speciale qui presentato in forma di dittico intende stimolare una riflessione sulla straordinaria complessità di un fenomeno culturale sul piano geografico, storico e psicologico. La letteratura sull’argomento è sterminata, ma ancora non abbiamo una storia generale del cinema scritta guardando non allo schermo, bensì a coloro che ne sono (o ne sono stati) testimoni diretti. Gli specialisti di area anglosassone la chiamano “film reception” o “film spectatorship”; in realtà si parla di tutti noi, e delle nostre vite davanti a immagini artificiali che si muovono. Per quanto gigantesca, un’impresa del genere rimane degna di essere affrontata.

 


SegnoSpeciale n. 214

Speciale 214

PLACETELLING
Il cinema e il racconto dei luoghi
a cura di Fabio Pollice e Luca Bandirali             

      Il placetelling - concetto coniato dalla scuola geografica salentina[i] – può essere letto come una declinazione specifica dello storytelling (la narrazione come azione sociale) incentrata sulla narrazione dei luoghi e capace di concorrere alla produzione del senso stesso dei luoghi. Come tale è il punto di convergenza di differenti campi di ricerca (geografia dei media, film studies, marketing territoriale, semiotica, narratologia, etnografia, solo per citarne alcuni) e trova nel racconto audiovisivo una delle manifestazioni più diffuse ed efficaci, che possono assumere le forme più diverse: dal lungometraggio di finzione al documentario, dallo spot pubblicitario ai videogiochi. Per comprendere la relazione che lega il placetelling ai luoghi e che consente al primo di proporsi come un potente mezzo di significazione e strutturazione dei luoghi, occorre leggerla seguendo due prospettive opposte e tuttavia complementari: le storie come racconto dei luoghi e i luoghi come narrazioni. 

Le storie raccontano i luoghi

      Più di vent’anni fa, questa rivista dedicava al tema in questione ben due speciali (“I luoghi del cinema”, “I non luoghi del cinema”, nn. 78 e 79, 1996). Marcello Walter Bruno nel saggio d’apertura esordiva così: “Non c’è stile senza luogo, non c’è genere senza luogo”. Aggiungiamo: non c’è storia senza luogo. Le realtà narrative si fondano su cronotopi, unità spazio-temporali. Una storia è costituita da oggetti che esistono nello spazio e nel tempo; Seymour Chatman li definisce appunto esistenti (gli ambienti e i personaggi); essi danno forma alle storie insieme agli eventi. Il cinema è particolarmente costretto dal proprio statuto ontologico a mostrare gli ambienti in cui le storie si svolgono: questa istanza che potremmo definire “geografizzante” accompagna il cinema dalle vedute Lumière del XIX secolo a quell’insieme contemporaneo di registrazioni audiovisive che vanno sotto il nome di post-cinema[ii] . Ma gli ambienti non si limitano ad accogliere le storie: le generano. La matrice spaziale dei racconti è stata indagata in molti studi. Basti pensare, nell’ambito della serialità televisiva, a opere come Lost o Westworld; se il principio di costruzione di un’azione narrativa è il conflitto, queste opere paradigmatiche della contemporaneità si fondano sul conflitto locale, sulla tensione tra comunità e spazi. 

I luoghi raccontano storie

      I luoghi sono costruzioni sociali, risultato del sedimentarsi dell’intreccio, storicamente determinato, di pratiche individuali e collettive. I luoghi non raccontano storie, ne sono espressione: prendono forma e distintività a partire da quelle storie che li hanno plasmati. Colui il quale si propone di descriverli e interpretarli, come può fare il geografo o lo storico, non può che partire da quelle storie, sfilandole una a una dalla complessa trama territoriale, per tornare poi a leggerle insieme nel loro intreccio, perché restituiscano il senso stesso del luogo. I luoghi si raccontano attraverso queste storie ed è attraverso di esse che costruiscono le proprie identità e si proiettano nel futuro. Per comprendere un territorio, occorre innanzitutto ascoltarlo attraverso le sue voci narranti: l’ascolto non ci restituirà ciò che il territorio è, ma come questo si legge e si interpreta, orientandoci così nella sua comprensione.

      Il cinema come forma di narrazione ha sin dalla sua nascita costruito un rapporto di reciprocità con i luoghi: da un lato, ha attinto alle loro storie e, anche in assenza di espliciti fini interpretativi, ha concorso a consolidarne, orientarne o modificarne la matrice identitaria; dall’altro, ha costruito storie che - per quanto detto in precedenza - ha dovuto necessariamente legare a dei luoghi, così che quelle narrazioni hanno avuto un effetto plasmante sui luoghi stessi andandoli a ri-significare e contribuendo anche qui a ridefinirne la matrice identitaria. 

Gli interventi dello Speciale

      Parlare oggi di cinema e luoghi significa anche fare riferimento a nuovi campi di ricerca come il film induced tourism o cineturismo e in generale ai production studies, per comprendere quanto il concetto di località sia una risorsa per l’industria cinematografica. A monte del processo produttivo, il location placement (presentare un territorio all’interno di un film come un prodotto) è una pratica che si inserisce all’interno del complesso mercato delle location cinematografiche, come ci illustra Marco Cucco. A valle, i film realizzati e distribuiti possono indirizzare i flussi turistici verso le location, generando fenomeni quantitativamente importanti, come indicato nel saggio di Giulia Lavarone; altri attivatori di turismo sono rappresentati dai videogiochi, come si apprende da Francesco Toniolo. Il settore audiovisivo è in tal senso sempre più interessato da operazioni di branding territoriale come nel caso presentato da Antioco Floris e Daniele Gavelli, incentrato sull’intervento pubblico a sostegno di una produzione televisiva ambientata in Sardegna. In questa assai articolata interazione tra comparti, si consolidano figure professionali come i location manager, chiamati a dare consistenza e fattibilità alle ambientazioni di una sceneggiatura; lo si evince dalla conversazione di Federica Epifani con Leo Angelini.

      Queste linee di riflessione rimandano senza dubbio a un’ulteriore declinazione del prodotto di storytelling come “ecosistema narrativo”, alla narrazione come “creazione di ambienti sociali abitati tanto dai personaggi quanto dal pubblico”[iii]. Il concetto di località assume dunque una posizione centrale sia nelle pratiche produttive che nella riflessione teorica. I dispositivi dello storytelling, dal cinema alla serialità televisiva fino ai più quotidiani User Generated Contents, assorbono contenuti dai luoghi, così come ogni forma di pensiero, secondo Deleuze, consiste nell’assorbire la terra[iv]. Viceversa, i luoghi sono anche “costruzioni sociali e culturali incessanti”[v] che le narrazioni contribuiscono a edificare.

 

[i] Fabio Pollice, Placetelling® per uno sviluppo della coscienza dei luoghi e dei loro patrimoni, "Territori della Cultura", 30, 2017, pp. 112-117.

[ii] Enrico Terrone, Cinema e geografia. Un territorio da esplorare, "Ambiente Società Territorio", 6, 2010, pp. 14-17.

[iii] Ilaria A. De Pascalis, Guglielmo Pescatore, “Dalle narrazioni estese agli ecosistemi narrativi” in G. Pescatore (a cura di), Ecosistemi narrativi, Carocci, Roma 2018, p. 23.

[iv] Gilles Deleuze, Felix Guattari, Che cos’è la filosofia, Einaudi, Torino 1996, p. 80.

[v] Angelo Torre, Luoghi, Donzelli, Roma 2011, p. 3.

 

 


SegnoSpeciale n. 213

TUTTI I FILM DELL'ANNO 2017-2018

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SegnoSpeciale n. 212

Speciale 212

1964-1968: L’ODISSEA DI KUBRICK
Il calendario di produzione di 2001
a cura di Filippo Ulivieri        

      Per commemorare i 50 anni di 2001: Odissea nello spazio di Stanley Kubrick - uscito il 2 aprile 1968 negli Stati Uniti e l’11 dicembre nel nostro Paese - ripercorriamo i quattro intricatissimi anni di lavorazione del film attraverso il più dettagliato calendario di produzione mai compilato. Intrecciando le informazioni contenute in libri e periodici inglesi e statunitensi con documenti di produzione dell’Archivio Kubrick di Londra si ottiene un diario quasi giornaliero degli anni 1964-1968 che rivela quanto complicata sia stata la realizzazione del film e soprattutto quale sia stato il vero ruolo di Stanley Kubrick nell’immaginare, preparare, sviluppare, dirigere e presentare al pubblico il più grande film di fantascienza di tutti i tempi. 

1964: primo semestre. In cerca dell'idea; l'incontro con Clarke

      17 febbraio 1964: durante un pranzo con Roger Caras, capo del settore vendite della Columbia Pictures, Kubrick ammette di essere interessato a realizzare un film di fantascienza. La scelta per il nuovo soggetto si è svolta in maniera un po’ caotica durante la post-produzione di Il dottor Stranamore: incerto su come bissare il successo appena ottenuto, Kubrick si è arrovellato sui temi più caldi del momento, dal sovrappopolamento alla disparità di etnia e di genere, dai delicati rapporti internazionali alle sempre più disinvolte relazioni sessuali. Alla fine, leggendo i rapporti sulla nascente industria aerospaziale e le ottimistiche promesse della futurologia, era stato catturato dall’idea di un film di fantascienza. Kubrick ci tiene però a precisare che vuol provare a fare un’opera seria, non la solita avventura fantasmagorica un po’ scioccherella con effetti speciali di terz’ordine: niente comparse in tute di gomma che rincorrono fanciulle seminude, nessuno scienziato pazzo dalla testa di mosca, né uomini microscopici e donne alte come grattacieli. E neppure quelle "inchieste sociali mascherate" coi dischi volanti e le guerre dei mondi che bene o male sono solo metafore grossolane della minaccia comunista.

      No, quello che ha intenzione di fare è un film sull’incontro con gli extraterrestri per esplorare "le forme ultime dell’intelligenza" e offrire "una visione romantica del futuro del genere umano." Caras, appassionato di scienza, non ha problemi a credere alla serietà di Kubrick e suggerisce di mettersi in contatto con Arthur C. Clarke, a suo dire il miglior scrittore nel campo: inglese, 46 anni, Clarke divideva con considerevole successo la sua produzione letteraria tra saggi di tecnologia satellitare, divulgazione scientifica e racconti di fantascienza filosofica - quaranta libri tradotti in trenta lingue per cinque milioni di copie vendute. Contattato da Caras con un telegramma nella sua dimora di Ceylon (oggigiorno, Sri Lanka), Clarke risponde di essere "tremendamente interessato a lavorare con l’enfant terrible del cinema americano."

 

 


SegnoSpeciale n. 211

Speciale 211

L'UTOPIA LIBERATA
Dizionario minimo sul '68 e il cinema
a cura di Flavio De Bernardinis   

      "Già il Sessantotto fu un primo impiccio. Era difficile sfuggire a schematizzare o a schieramenti ideologici. In particolar modo gli autori seri si staccarono difficilmente da questi cliché. Il terrorismo invece segnò proprio una cesura. Non sapevamo come raccontarlo. E cosa raccontare. Ci mancava del tutto il rapporto con questi ragazzi e la loro realtà. Di loro non sapevamo niente. Chi erano, cosa pensavano, come parlavano. La realtà è che ci siamo rifiutati". Chi dice queste cose è Mario Monicelli, nel libro intervista a Sebastiano Mondadori, anno 2005. Sono parole pesanti. La generazione che, in qualche modo, ha fatto la Resistenza, e ha partecipato alla nascita dell'Italia repubblicana, si rifiuta di avere a che fare con il Sessantotto.

      Ettore Scola è forse il cineasta di quella generazione più attento ai mutamenti della società: lui, nel 1968, gira Riusciranno i nostri eroi a ritrovare l'amico misteriosamente scomparso in Africa?, ammettendo che il film è anche frutto dell'aria nuova che si respira in Italia e in Europa: “Un tema che mi interessava affrontare era il neocolonialismo. Esistevano ancora infatti alcune colonie, tra le quali quelle portoghesi, tanto più anacronistiche proprio perché si era nel ’68, l’anno delle grandi svolte in America, Francia, Germania, Italia”. Oreste Sabatini, il personaggio "misteriosamente scomparso in Africa", interpretato da Nino Manfredi, rifiuta di rientrare a Roma, e sceglie di rimanere con la tribù indigena che lo idolatra quale stregone della pioggia. Il Sessantotto, certo, è innanzitutto il rifiuto della vita borghese. Ma nel cinema di Scola, quello del "sessantottino" Oreste Sabatini, in fondo, è lo stesso rifiuto gridato da Gassman preda del vino, cinque anni dopo, nell'ultima rimpatriata con lo stesso Manfredi e Satta Flores in C'eravamo tanto amati: non un rifiuto generazionale, come esige l'etica del Sessantotto, dei figli contro i padri, ma il rifiuto degli ideali traditi dal regime democristiano successivo al 1948.

      1948-1968, venti anni precisi. Nel cinema italiano più caro al pubblico, la commedia, è il 1948, piuttosto, a solleticare l'immaginazione e l'analisi. Come se il 1968 fosse semplicemente una parentesi, di disagio acuto e di accensione dell'ennesima speranza, ma parentesi subito chiusa per ripiombare, dopo gli anni del terrorismo, a ritroso, nell'unico vero lutto, ossia quello del 1948: ovvero l'Italia repubblicana quale progetto resistenziale fallito e tradito. Cesare Zavattini, il più naturalmente sessantottesco forse dei nostri cineasti, nel 1962, ancora può dichiarare: “Debbo dire che ho intuito nella Resistenza il sogno di quello che poteva avvenire per tutti noi: la Resistenza era un fatto radicale, un fatto rivoluzionario nella vita del nostro Paese. Poi è stata coinvolta, consumata, dirottata...”. Come Scola, anche Luigi Magni ammette che alle radici del suo film, dal titolo Nell'anno del Signore, 1969, ci sia stato il Sessantotto. I carbonari che combattono contro il potere temporale del Papa, a Roma, nel 1825, evidenziano qualche affinità con i giovani sessantottini, che lottano contro la società borghese. Ma è pur sempre una metafora. Ovvero, il Sessantotto, se appare, è sempre per via traslata. 

Riscrivere le regole del gioco

      Nella Meglio gioventù, 2003, di Marco Tullio Giordana, si attribuisce un'importanza maggiore a un episodio, che alcuni ritengono quale matrice del Sessantotto stesso, ovvero l'alluvione di Firenze, accaduta due anni prima, nel 1966. Evento che fece da incubatrice del Sessantotto, perché fu il primo raduno spontaneo di giovani provenienti da tutte le parti d'Italia e d’Europa, detti gli “angeli del fango”, allo scopo di porre in sicurezza il patrimonio artistico fiorentino. Il film di Giordana mostra l'episodio esattamente da questo punto di vista, privilegiando l'accaduto come circostanza politica ma non ideologica: occasione innanzitutto di civiltà: la civiltà del patrimonio artistico e culturale del Paese, per la quale una generazione si riunisce, si confronta e passa all'azione. Evento culturale, prima ancora che politico. Politico solo perché culturale. Rivoluzione silenziosa, senza chiassi e schiamazzi. Ancora una volta, il Sessantotto è bypassato.

      Ci sia permesso sconfinare dal cinema al teatro. I primi di giugno del 1968, i cortei studenteschi si abbatterono sulle maggiori istituzioni della cultura a Milano. Fu occupata la Triennale. Una folla di giovani si radunò alle porte del Piccolo Teatro, diretto da Giorgio Strehler e Paolo Grassi, istituzione che solo cinque anni prima aveva sfidato il potere democristiano, e le gerarchie ecclesiastiche, mettendo in scena una memorabile edizione, la prima in Italia, della Vita di Galileo, di Bertolt Brecht. Adesso i giovani sembrano però non ricordare i meriti conquistati sul campo, impugnando dei cartelli dai toni inequivocabili: "Grassi stipendiato da Moro", "No al teatro asservito al catechismo artistico dei reazionari". Di fronte a simili procedure, Strehler dà libero sfogo alla malinconia: "Una terribile lezione. Scoprirsi un mattino di essere a destra, di essere di retroguardia per tanti, mentre la sera prima ti sentivi a sinistra e all'avanguardia. E non capire come una simile trasformazione fosse avvenuta in 24 ore. In me comunque nasce l'affetto nel constatare la carica rivoluzionaria di una gioventù che a noi sembra spesso lontana, fredda, distaccata... Ma anche il dolore nell'accorgermi, ancora una volta, quanto poco in questo muoversi degli uomini della storia servono le esperienze degli altri".

      L'atteggiamento di Giorgio Strehler è lo stesso di Mario Monicelli. I giovani, pur affettivamente compatiti, risultano incomprensibili, e là dove dimostrano di non riuscire a valutare le "esperienze degli altri", anche sordi e ciechi. Monicelli e Strehler partecipano della generazione attiva negli anni 1945-1947, quella per cui "tutto era ancora possibile", e che, incassata la sconfitta elettorale del 18 aprile 1948, sta tentando in ogni modo di immaginare e costruire la democrazia. I giovani del '68, tuttavia, non valutano né tentativi né progetti: hanno bisogno di riscrivere subito le regole del gioco, un gioco, quello dei compromessi e delle mediazioni, che va ormai troppo per le lunghe. Guardiamo più avanti. Un rappresentante della generazione attiva nel '68, così ricorda gli eventi e l'atmosfera di quei giorni: "Il 1968 fu un anno memorabile. Il primo Giro vinto da Eddy Merckx, Beamon che a Città del Messico salta 8,90 in lungo, il Maggio, Praga. Inoltre, esce 2001: Odissea nello spazio...".

      Con tale schieramento di nomi e dati, Enrico Ghezzi inizia la sua monografia su Stanley Kubrick, pubblicata nel 1977: il Maggio è uno degli eventi ripresi, né il primo, né l'ultimo. Più avanti, nel libro, così ritorna sul tema: "L'era dell'effetto speciale moderno è nata nel 1968, con 2001. Del resto è tutta l'annata, e il nome stesso, che oggi si tende a far passare per un 'trucco'; forse davvero fu solo un effetto, un po' speciale". Ghezzi coglie un aspetto del ’68 poi ampiamente ripreso e discusso: la natura virtuale dell’evento, che dà inizio a ciò che si dirà la cultura dell’immateriale, considerata infine la vera rivoluzione, di stampo antropologico prima che politico. Un amico, che fece il ’68, ci ha confermato la cosa: un giovane in piazza, a Berlino, si sentiva già come in rete, connesso virtualmente con i suoi coetanei a Londra, Parigi, Roma, Tokyo, Los Angeles. Questa è la radicale differenza tra le generazioni del 1948 e del 1968: la natura virtuale delle cose che va a sostituire quella materiale. 

Rottura generazionale

      Se a monte del '68, la generazione dei "padri" si stupisce che non le venga riconosciuto il merito di aver tentato di fare delle istituzioni culturali qualcosa di accessibile al popolo (Strehler), e confessa infine di non comprendere nulla dei "giovani", e il loro "linguaggio" (Monicelli), adesso, a valle, il Sessantotto altro non sarebbe che un "effetto speciale", un sintomo di un evento davvero epocale, ovvero la rottura della continuità delle generazioni. Fenomeno di cui 2001 di Kubrick, tra l'altro, è esemplare perfetto, essendo infatti il film "isolato e solitario", senza progenitori e senza eredi nel cinema di fantascienza, e anche nel cinema in generale. Nonostante sia rimasto senza eredi, 2001 riesce tuttavia a inaugurare il nuovo cinema, fondato più che sui temi, sulla potenza delle immagini. Il terminale cinematografico del Sessantotto, inteso come innesco di una potenza di fuoco ininterrotta di immagini e suoni, trionfo dell'effetto speciale, a cominciare ovviamente dal binomio Lucas-Spielberg, è certo quello confluito in Apocalypse Now, 1979, di Francis Coppola.

      Alla fine del decennio, il "trip" dell'astronauta kubrickiano, sessantottesco, si dà ormai come compiuto. Nella giungla del Vietnam, nella civiltà occidentale tutta, realtà e immaginazione sono ormai un corridoio spazio-temporale, psichedelico, dove eventi storici e allucinazioni individuali si scambiano ripetutamente di ruolo. I "padri" (Kurtz-Brando) impazziscono nella "terra desolata" del nichilismo compiuto, e i figli (Willard-Sheen) ricevono l’incarico di stanarli per eliminarne gli effetti nefasti, senza tuttavia capire nulla della propria missione. La rottura generazionale innescata dal Sessantotto confluisce così in una implosione di passato e futuro, una sfera virtuale di spazio e tempo, a cui non resta che l'annientante bombardamento a tappeto di tutto il “regno immaginario” edificato nel cuore di tenebra della giungla, scorrevole sui titoli di coda del film.

      Ritornando un istante al teatro, nel 1970, a due anni quindi dallo scoppio della "rivoluzione", Paolo Grassi scriveva così: "Noi abbiamo resistito: contro le stramberie istrioniche di Carmelo Bene, contro l'anarchismo utopistico del Living, contro i Beckett e gli Ionesco. Contro un teatro che si compiace di essere irrazionale, noi abbiamo resistito". Il mito della resistenza è duro a morire: non è stato sufficiente opporsi ai nazifascisti, è toccato resistere anche all'effetto speciale della irrazionalità, prodotto dall'esplosione sessantottesca. Apocalypse Now, il cui titolo cita, in antifrasi, un celebre spettacolo del Living Theatre, andato in scena proprio nel 1968, Paradise Now, chiude tuttavia il cerchio: è perfettamente inutile resistere al fanatismo dell’irrazionale, venato di misticismo, che annienta ogni figura possibile della "ragione". Quella "ragione" che un libro di culto del Sessantotto, la Dialettica dell'Illuminismo di Adorno/Horkheimer, aveva già provveduto a denunciare come borghese e oppressiva.

      Nel 1969, Marco Ferreri realizza un film, Dillinger è morto, che è in fondo la parafrasi cinematografica delle parole di Paolo Grassi. L'irrazionale è ormai integralmente al potere. E, per giunta, se ne compiace. Il '68 è solo una stazione di transito con cui il Potere aggiorna i suoi metodi. In seguito, un filosofo italiano, da poco scomparso, potrà asserire che l’età berlusconiana, in effetti, altro non è che il frutto regolare del ’68. Il berlusconismo è la conclusione del concetto stesso di “resistenza”, le speranze del 1948, che lascia il posto a un'integrale “allucinazione collettiva”, effetto speciale e cuore di tenebra, ossia la paranoia del “tutto e subito”, del “qui e ora”, del “io, io, io e niente altri”. In breve, l’età delle mille e mille idee, possibili e immaginabili. A patto che siano rigorosamente sganciate dagli ideali. 

      Qui di seguito, il nostro dizionario minimo sessantottesco, in dieci voci (più una), cerca di indagare il rapporto tra il cinema e questo anno fatidico: un’indagine che deve essere ancora sistematicamente approfondita, e che il nostro contributo spera almeno di indirizzare e sollecitare.

 

 


  

SegnoSpeciale n. 210

Speciale 210

TEORIA E CRITICA, SORELLE MAI
Quali strumenti per un discorso sul cinema?
Parte Seconda
a cura di Luca Bandirali e Enrico Terrone
   

      In un molto citato dialogo shakespeariano, Desdemona chiede a Iago: “Che scriveresti di me, se dovessi lodarmi?”, e Iago risponde: “Non me lo domandate, gentile signora. Non sono niente, se non critico”. Desdemona è l’opera d’arte (nel nostro Speciale: il film) che fa una domanda non già a uno spettatore qualsiasi, ma a qualcuno che potenzialmente scrive di ciò che ha visto, per giudicarlo: il critico. E se alla domanda di Desdemona rispondesse non il critico, ma il teorico? E che cosa risponderebbe lo storico? Secondo Tom Brown e James Walters, curatori del volume Film Moments: Criticism, History, Theory (Palgrave, 2010), la specificità della risposta critica è nel suo essere “marcatamente focalizzata sulle qualità interne dei film”, elementi osservabili quali messa in scena, recitazione, fotografia, montaggio; la ricognizione di queste qualità implica un giudizio di valore. Brown e Walters ritengono invece che la risposta teorica e quella storica (di quest’ultima non ci siamo occupati in questa sede, ma sarà necessario farlo in futuro), risultino “più dipendenti da framework esterni al film”.

      Questo dibattito che Segnocinema ospita si propone di individuare, se possibile, la cornice più ampia in cui possono trovare ascolto tutte le risposte a Desdemona. In questo numero, Marcello Walter Bruno comincia proprio da una domanda che tratta i film come se fossero persone: che cosa vogliono davvero i film? Secondo Paolo Cherchi Usai, il dialogo tra teoria e critica, a certe condizioni, è l’ipotesi strategica più valida per ridare sostanza a un discorso sul cinema che è diventato “ronzio” indistinto. Andrea Bellavita si interroga sulla possibilità d'insegnare la critica nel contesto accademico dei film studies; Tiziana Andina inserisce il dibattito in una cornice ancora più ampia, in tutti i sensi, individuando in Nietzsche l’autore di una vertiginosa sintesi fra teoria e critica.

      In chiusura, abbiamo chiesto agli abituali collaboratori della rivista quali sono gli strumenti teorici di cui fanno consapevolmente uso quando scrivono una recensione, un genere di testo che ha resistito alle rivoluzioni tecnologiche ed epistemiche, forse proprio per la sua efficacia nel rispondere alla domanda di Desdemona.

 

 


  

SegnoSpeciale n. 209

Speciale 209

TEORIA E CRITICA, SORELLE MAI
Quali strumenti per un discorso sul cinema?
Parte prima
a cura di Luca Bandirali e Enrico Terrone
   

      Oggi più che mai teoria del cinema e critica cinematografica hanno bisogno l’una dell’altra. Da una parte, la critica ha bisogno della teoria per costituirsi come discorso rigoroso differenziandosi dalla chiacchiera sgangherata e umorale cui il web ha fornito un megafono di inopinata potenza. Dall’altra, la teoria ha bisogno della critica per mettere alla prova le proprie ipotesi e i propri modelli, nei quali peraltro la traiettoria esperienziale dello spettatore e le condizioni di valutazione estetica dell’opera - due aspetti cruciali della critica cinematografica - svolgono un ruolo sempre più prominente. Sebbene sia innegabile l’esistenza di una frontiera che separa la teoria del cinema dalla critica cinematografica, ci pare altrettanto evidente che questa frontiera meriti a sua volta di essere studiata e - perché no? - attraversata in entrambe le direzioni. A questo scopo, difficile trovare un luogo più adatto di Segnocinema, una rivista che persegue programmaticamente un’ideale di critica corroborata dalla teoria e, al tempo stesso, un’ideale di teoria umanizzata dalla critica.

      Lo Speciale prosegue dunque la riflessione ultratrentennale che questa rivista ha affrontato in merito al problema dei processi di costruzione di un discorso sul cinema. Il saggio di Adriano D’Aloia fornisce argomenti convincenti a favore di una complementarità di teoria e critica. L’intervento di Giovanni Bottiroli fa leva sulla nozione di interpretazione come possibile ponte fra il campo teorico e quello critico. Nella visione di Flavio De Bernardinis, il film non si limita a rappresentare l’oggetto della teoria e della critica, ma può diventare in alcuni casi un soggetto capace a sua volta di teorizzare, dandosi nella forma dell’evento. Il saggio di Luca Barra mostra l’importanza della complementarità fra teoria e critica in un ambito attualmente vivacissimo a tutti i livelli, quello delle serie televisive.

      E come in una serie televisiva appassionante, non ci si può certo fermare alla prima stagione. Lo Speciale su teoria e critica proseguirà sul prossimo numero di Segnocinema.

 

 


 

SegnoSpeciale n. 208

Speciale 208

SPIELBERGHIANA
Le radici ebraico-americane di un regista di genio
a cura di Paolo Cherchi Usai     

      Il cineasta-simbolo di quella che si era soliti chiamare la Nuova Hollywood è di origine ebraica. Steven Spielberg è nato nel 1946 dalla pianista Leah Posner e da un ingegnere, Arnold Spielberg, discendente da una famiglia ucraina emigrata a Cincinnati agli inizi del Novecento. Educato all’ombra di una religiosità risolutamente ortodossa, il giovane Spielberg è cresciuto in una società in cui la libertà di culto si è spesso scontrata con pregiudizi dalle radici profonde. In quanto regista, Spielberg è anche l’epitome della cultura popolare americana, di cui è stato ed è tuttora un portavoce autorevole e particolarmente vicino alla sensibilità delle masse. Nessuno più di lui ha saputo rappresentare le idee, le ambizioni e le utopie dell’uomo comune nel Nuovo Mondo. Il pubblico europeo ha recepito e celebrato quest’ultima faccia della medaglia, ricordandosi che ve n’era un’altra solo quando Spielberg ha affrontato di petto la propria identità etnica e la tragedia dell’Olocausto in Schindler’s List (1993), chiave di volta nella carriera dell’artista e cartina di tornasole della sua visione della Storia.

      Schindler’s List non esaurisce tuttavia il ritratto intellettuale di Spielberg in quanto personalità multiculturale. Il film è piuttosto il punto di intersezione fra due percorsi ideologici complementari: da una parte, il riassunto di un’eredità industriale che ha visto gli ebrei affermarsi come ispiratori ed esegeti dell’industria del cinema che essi hanno contribuito a fondare; dall’altra, la riflessione sull’ebraismo a uso e consumo di chi non può viverlo in prima persona. Le contraddizioni e i limiti di questo progetto sono alla base dell’impegno di Spielberg al di fuori della madrepatria. L’istituto di cinema intitolato a suo nome, lo Steven Spielberg Jewish Film Archive, non si trova a Los Angeles né a New York, bensì a Gerusalemme; è dedicato alla ricerca e alla promozione della causa ebraica, sotto l’egida dell’Abraham Harman Institute of Contemporary Jewry presso la Hebrew University of Jerusalem, dei Central Zionist Archives, e della World Zionist Organization. Spielberg è il principale finanziatore dell’Istituto, ma continua intanto a dirigere e produrre film “americani” senza altri aggettivi.

      Questo Speciale di Segnocinema è “speciale” in un senso diverso da tutti i precedenti, perché consiste in soli due saggi di ampio respiro, che si specchiano l’uno nell’altro. Uno prende lo spunto da Schindler’s List per esaminare più da vicino il retaggio ebraico di Spielberg attraverso la sua filmografia. L’altro discute gli stessi film attraverso l’ottica del cinema “nazionale” e della sua irripetibile impronta nel gusto collettivo. Così facendo, Marcello Walter Bruno e Mauro Resmini sviluppano un affascinante dialogo a distanza, in cui i concetti di tradizione e appartenenza si confrontano con quelli di innovazione e distanza. Spielberg non è certo l’unico a tentarne la sintesi: Woody Allen e i fratelli Coen sono altri due casi esemplari al riguardo, che meriterebbero analoga attenzione. Spielberg si distingue però da tutti gli altri per la complessità del rapporto fra le due vocazioni: ebreo e americano a un tempo, il suo cinema è ugualmente fedele all’una e all’altra origine, come la doppia elica di un codice genetico unico e indivisibile.

 

 


SegnoSpeciale n. 207

TUTTI I FILM DELL'ANNO 2016-2017

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LA LA LAND di Damien Chazelle

 

 

 

SegnoSpeciale n. 206

Speciale 206

LO STRANIERO
Ritratti di una figura archetipica del cinema
a cura di Paolo Cherchi Usai

      È un assolato pomeriggio d’estate in una cittadina di provincia. Una donna si siede al banco di un bar. Chiede qualcosa da bere. È vestita in modo elegante, più di quanto gli avventori del locale siano abituati a vedere. Si accende una sigaretta. Non ha voglia di parlare con nessuno, ma il barista riesce a strapparle qualche informazione. Era stata lì molti anni prima, poi se n’era andata, forse alla ricerca di qualcosa, forse per fuggire da qualcosa. Non sappiamo perché sia tornata, ma è chiaro che lo ha fatto per necessità. Dietro di lei c’è una storia che vogliamo conoscere. Per noi è ancora un enigma. Forse lo è anche per i clienti del bar, incuriositi dalla nuova arrivata. È da qui che inizia il film, da questa collana di punti interrogativi in attesa di risposta. A partire da questo momento, ogni dettaglio diventa importante: l’abbigliamento, il linguaggio, l’eco di uno sguardo dietro al quale c’è la promessa di un racconto da costruire. In quest’attimo meraviglioso, sospeso fra passato, presente e futuro, il narratore e lo spettatore si trovano sullo stesso piano, testimoni che brancolano nel buio.

Non ha nome ma ha un lungo passato

      La figura dello “straniero” è un essenziale topos della narrazione cinematografica, più che in qualsiasi altra forma di espressione artistica. Ciò è dovuto in parte al fatto che la condizione di “straniero” si fonda sui concetti visivi di assenza, ineffabilità, dislocazione e ritorno. In una storia per immagini, lo “straniero” è colui che non c’era e ora c’è, o sta per arrivare. È un portatore di plot: il suo sopravvenire cambia le cose, costringe a un riaggiustamento dello status quo. Non era visibile in precedenza, dunque è un portatore di incognite. Il primo interrogativo è la sua provenienza: da dove viene? perché è arrivato qui? c’è motivo di temere qualcosa dalla sua presenza? Lo “straniero” appartiene inoltre a due antichissime formule retoriche, quella di colui che nessuno conosce o di colui che apparteneva a una comunità e ripercorre all’indietro un percorso senza nome, di solito con conseguenze destabilizzanti per chi assiste alla fine del pellegrinaggio.

      Da questo punto di vista, lo “straniero” è spesso una fonte più o meno velata di minaccia (lo straniero che porta la felicità è un caso più raro). Con l’intervento dello straniero, gli equilibri di potere sono irrimediabilmente alterati. Con lo straniero, memorie che avrebbero dovuto essere seppellite ritornano alla superficie. Con lo straniero, tradizioni e valori consolidati diventano o ridiventano materia di discussione e qualche volta di scontro. Lo straniero è colui di cui ci si vorrebbe liberare, ricacciandolo là donde è venuto, neutralizzando il suo potenziale eversivo, o eliminandolo del tutto, anche fisicamente. Lo si mette sotto processo; ci si coalizza contro di lui; lo si vuole marginalizzare, criminalizzare, mettere in ridicolo. Lo straniero è, infine, un ingrediente privilegiato del finale cinematografico in virtù della sua potenziale simmetria drammatica: così come è arrivato, lo straniero può o deve ripartire, cioè ridiventare invisibile, anonimo, magari portando con sé il mistero con il quale si è affacciato nella storia. 

Il cinema è il suo diario per immagini

      Non c’è genere nel quale lo “straniero” non abbia lasciato la propria impronta. La donna o l’uomo che s'incontra per caso e di cui ci s'innamora, rivelando il suo lato oscuro quando ormai è troppo tardi; la persona vista di sfuggita alla stazione, senza bagagli e con un fardello esistenziale stampato negli occhi; l’artista, l’atleta o lo scienziato dalle maniere affabili ma riservate, che celano un problema irrisolto; e poi, naturalmente, il mostro, il vampiro, lo strangolatore, l’alieno da un’altra galassia. Ciò che accomuna la loro alterità è un compendio di tutti i motivi per i quali ci si accinge ad ascoltare un nuovo racconto. Rispetto alla letteratura e al dramma teatrale, il cinema e l’immagine in movimento hanno il fondamentale vantaggio di poter costruire l’identikit dello straniero per fugaci accenni. Lo “straniero” del romanzo si chiama così fin dall’inizio perché non ha un nome; se ce l’ha, il narratore non vuole dire di più, e l’estraneità del nuovo arrivato gli è subito stampata addosso. Al cinema ci si può prendere il lusso di scoprirlo poco a poco, senza fretta. La possibilità che il film finisca senza una spiegazione a tutto è accettata come una legittima regola del gioco.

      Nel corso dei decenni, il grande schermo ha dato una voce e un volto ad altri “stranieri” della Storia: gli immigrati, i reietti, le minoranze etniche, i perseguitati politici. Erano “stranieri” anche gli artisti e gli intellettuali denunciati come spie sovietiche negli anni più cupi del maccartismo, o gli studenti scomparsi in America Latina durante il periodo delle dittature militari. Oggi ce ne sono a migliaia, alle frontiere dell’Europa dell’Est e del Messico; nei battelli che approdano o affondano nel Mediterraneo, nei campi profughi del Medio Oriente, nelle regioni più desolate dell’Africa. Le loro vicissitudini non sono oggetto di finzione, bensì di una realtà che la non-fiction prova a svelare nei suoi resoconti di guerre, genocidi e catastrofi ambientali. Il tema è più che mai attuale, ma non ha mai smesso di esserlo. Sotto quest’ottica, parlare dello “straniero” al cinema non è tanto un esercizio di critica del contenuto, quanto una forma di impegno civile.

 

 


 

SegnoSpeciale n. 205

Speciale 205

IL LATO OSCURO DEL SOGNO
Hollywood come fabbrica di utopie e incubi
a cura di Ilaria Franciotti e Valerio Sbravatti

      Integrando le definizioni di due comuni vocabolari inglesi, il Merriam-Webster e l'Oxford Dictionary of English, si scopre che l'espressione la-la land ha due accezioni: 1) uno stato mentale sognante ed euforico distaccato dalle vicende più dure della vita; 2) un nickname per Los Angeles, in riferimento specifico all'industria cinetelevisiva. L'etimologia è differente a seconda della fonte: "la-la" potrebbe indicare il canterellare, oppure potrebbe derivare dalla sigla di Los Angeles. Questa semplice e succinta espressione pare alludere al fatto che quando si è persi nei propri sogni a occhi aperti si canta; allo stesso tempo, essa denota Los Angeles che con il suo cinema e i suoi teatri produce sogni intrisi di musica. La La Land è dunque un titolo emblematico per un film che fa confluire tutti questi elementi in un omaggio al musical classico. Tuttavia la sua conclusione è problematica: i sogni fabbricati da Hollywood sono davvero realizzabili o costituiscono piuttosto un'illusoria fuga dalla realtà che può addirittura sfociare in un incubo?

      È da questa domanda che parte il presente Speciale, percorrendo diverse strade. Ilaria Franciotti e Valerio Sbravatti analizzano il musical statunitense in quanto genere che per natura presenta delle dinamiche irrealistiche configurate come sogno a occhi aperti, come fantasia utopica. Il saggio di Enrico Terrone è un approccio filosofico debitore della teoria di Stanley Cavell sulla "commedia del rimatrimonio". Luca Bandirali riflette su come altri film hanno affrontato il tema in questione, anche con grosse differenze drammaturgiche e stilistiche. Elio Ugenti indaga come i film non statunitensi hanno descritto il cinema hollywoodiano come una fantasia per evadere dalla realtà. Paolo Cherchi Usai, infine, analizza le origini del lato oscuro di Hollywood.

 

 


 

SegnoSpeciale n. 204

Speciale 204

SEX & LOVE  parte seconda
La sessualità nel cinema hardcore. Identità, pratiche, culture
a cura di Marco Benoît Carbone, Giovanna Maina e Federico Zecca            

      La prima parte di questo Speciale si è focalizzata sulle modalità con cui il cinema degli anni Duemila (hollywoodiano ma non solo) ha rappresentato e tematizzato le sessualità e le dinamiche di genere. Questa seconda parte è dedicata invece ai discorsi sulla sessualità circolanti all’interno di determinati prodotti afferenti all’alveo della pornografia. Ancora una volta, ci si concentra sulla costruzione culturale delle pratiche e delle identità sessuali, e in particolare sulla loro definizione in rapporto a norme e comportamenti socialmente e storicamente codificati. L’introduzione dell’asse della pornografia fornisce tuttavia un ulteriore, profondo piano di osservazione critica. Come sottolineato dalla pioniera dei porn studies Linda Williams, infatti, la pornografia non è più (solo) il luogo in cui viene relegato tutto ciò che è ritenuto osceno dalla società - e che perciò deve essere obbligatoriamente tenuto fuori scena[1]; ma è anche (e soprattutto) un contrappunto complesso alle forme culturali cosiddette legittime, in cui è possibile osservare con maggiore chiarezza tanto le pratiche intimamente connesse con le assiologie (sessuologiche) dominanti, quanto gli opposti ed eterogenei tentativi di resistenza a una visione normativa del sesso e delle identificazioni di genere.

      Gli interventi che compongono lo Speciale operano in questa direzione. Nel saggio d’apertura, Giovanna Maina e Federico Zecca analizzano i rapporti di forte contiguità tra il “porno chic” degli anni Settanta e i discorsi della sessuologia moderna, osservando al contempo come la pornografia contemporanea estremizzi e, in certi casi, stravolga questi stessi discorsi. Nel saggio seguente, Alessandra Mondin e Mariella Popolla mettono in luce come le pornografie femministe operino su un piano di critica alle ideologie eteropatriarcali, offrendo espressione a corpi e identità non normate e riconfigurando le audience in senso “resistente”. Bruno Di Marino sposta infine la questione del rapporto tra pornografia e sessualità sul piano della forma audiovisiva del videoclip, esplorando le recenti e continue ibridazioni tra il video musicale e l’estetica dell’hardcore. Lo Speciale si conclude con una serie di brevissimi contributi volti a porre l’attenzione su specifici testi filmici che hanno rappresentato, per i temi affrontati o per le soluzioni visive adottate, dei casi di particolare interesse al fine di osservare come il confine tra cinema “legittimo” e pornografico sia inevitabilmente tutt’altro che netto e sia percorso, piuttosto, da linee di rottura e ambigue continuità.

NOTE

[1] Linda Williams, Hardcore: Power, Pleasure, and the Frenzy of the Visible, University of California Press, 1999, p. 283.

 

 

 

SegnoSpeciale n. 203

IN THE ROOM di Eric Khoo

SEX & LOVE  parte prima
Forme della sessualità nel cinema degli anni Duemila
a cura di Marco Benoît Carbone, Giovanna Maina e Federico Zecca            

      Questo Speciale intende esplorare le modalità con cui il cinema degli anni Duemila (hollywoodiano ma non solo) ha rappresentato e tematizzato la (o meglio le) sessualità, cercando di offrire un’iniziale mappatura delle questioni in campo, anche allo scopo di aprire ulteriori orizzonti di analisi per il futuro. La nozione di “sessualità”, per come è stata sviluppata negli anni Settanta da Michel Foucault, abbraccia almeno due ordini di fattori, strettamente correlati. Da un lato, essa si riferisce all’insieme dei discorsi e delle rappresentazioni che danno forma al genere (gender) dei soggetti, (ri)producendo specifiche identità sessuali che stabiliscono un rapporto culturalmente determinato con i corpi biologici.[i]

       Dall’altro, la nozione di sessualità si riferisce all’insieme delle attività e delle pratiche che una società definisce (e rappresenta) appunto come “sessuali”, attribuendo loro differenti significati e valori assiologici (positivo o negativo, normale o “perverso”, ecc.) in relazione causale con la formazione dell’identità di un soggetto. Oltre alle riflessioni del filosofo francese, hanno guidato la progettazione di questo Speciale anche altre importanti ricerche che hanno contribuito a sviluppare un approccio critico e non normativo al gender e al sesso: dal celebre studio di Laura Mulvey sullo sguardo maschile e su come esso orienta le coordinate scopiche dell’apparato filmico, fino alla concezione performativa del genere teorizzata da Judith Butler.[ii]

       Lo Speciale si divide in due parti, dedicate a due distinti nuclei tematici. In questa prima parte ci occuperemo nella fattispecie del cinema cosiddetto mainstream o “legittimo”, soffermandoci anzitutto su alcuni film considerati emblematici per i discorsi che hanno imbastito e per le visioni che hanno “permesso” riguardo alle pratiche e alle identità sessuali. A partire da un esame critico dei testi e dei loro procedimenti espressivi, narrativi, enunciativi, i contributi che seguono s'interrogano su ciò che i film lasciano fuori schermo e su cosa invece (am)mettono in campo, analizzando la declinazione di pratiche e subculture sessuali in rapporto ai generi e agli orientamenti dominanti.

       Massimo Fusillo considera l’impatto dei modelli eteronormativi sulla rappresentazione delle pratiche BDSM (Bondage and Discipline / Dominance and Submission / Sadism and Masochism) o in generale di quelle ritenute “devianti”, che sono spesso inevitabilmente pervase da connotazioni “maledette” o da sentimentalismi redentivi; Lucia Tralli si sofferma invece sulle romantic comedy o romcom e su come esse tendano a ricomporre e neutralizzare eccezioni e diversità sessuali nel modello della coppia monogamica; Mirko Lino e Marco Benoît Carbone analizzano infine le rappresentazioni del cyber-sex e in particolare delle ginoidi, notando come su di esse si proiettino tanto un’ossessione per il corpo femminile, quanto fantasie sessuali potenzialmente fluttuanti e polimorfiche.

       A complemento delle analisi offerte in questo numero, la seconda parte dello Speciale si concentrerà sulla rappresentazione della sessualità fornita invece dalla pornografia audiovisiva, soprattutto intesa nel suo rapporto con il cinema (sia mainstream, che d’autore) e con le arti visive. 

NOTE

[i] Michel Foucault, Storia della sessualità, tre voll., Milano, Feltrinelli 2015.  M. Foucault e D. Borca, La società punitiva. Corso al Collège de France (1972-1973), Milano, Feltrinelli 2016.

[ii] Laura Mulvey, “Visual Pleasure and Narrative Cinema”, Screen 16, 3, pp. 6-18, 1975; Judith Butler, Undoing Gender, Routledge, 2004.

 

 

 

SegnoSpeciale n. 202

V per Vendetta di James McTeigue

SOCIAL CINEMA
L'uomo immaginario del XXI secolo
a cura di Luca Bandirali e Stefano Cristante             

       “Il cinema ci chiama a riflettere sull'immaginario della realtà e sulla realtà dell'immaginario” sosteneva Edgar Morin in uno dei grandi classici del pensiero sociologico del XX secolo. Lavorando soprattutto intorno a questi due concetti, realtà e immaginario, l’indagine della sociologia ha tracciato un solco profondo nel campo degli studi sul cinema. Dalla parte del reale, ci si chiedeva in che modo un film riflettesse le strutture di una determinata società in una determinata epoca (Kracauer); dalla parte dell’immaginario, di capire il funzionamento tutt’altro che neutro del linguaggio cinematografico (Sorlin).

       Alcune delle parole chiave della ricerca sociologica sono state senza dubbio “industria culturale”, “testimonianza sociale”, “comunicazione di massa”: ma al presente, cosa è rimasto di questa industria? Che tipo di testimonianza può ancora offrire il cinema? La massa degli spettatori non si è forse segmentata in una moltitudine di nicchie? In un quadro ancora più generale, questo Speciale nasce dal desiderio di comprendere se, in un sistema dei media completamente rivoluzionato, il cinema sia ancora uno dei terreni privilegiati per la sociologia o se invece si ritrovi in una posizione arretrata rispetto ad altri fenomeni come la serialità televisiva, la produzione e la circolazione di contenuti sul web, lo statuto transmediale di molte narrazioni contemporanee.

       Abbiamo posto la questione a quattro studiosi di scienze sociali che hanno risposto in modi diversi: Sergio Brancato, a partire dal profilo storico dell’interesse della sociologia per il cinema inteso come “arte della fabbrica”, manifesta la necessità e l’urgenza di un nuovo approccio che scaturisca da uno “sguardo mediologico”; Vincenzo Bernabei ragiona sulla nuova gerarchia quantitativa dei generi cinematografici, individuando le strategie di rimediazione in atto; Ilenia Colonna mostra la sociologia al lavoro, presentando un caso di studio esemplare (la rappresentazione della crisi economica nel cinema italiano degli ultimi anni); Mario Tirino, infine, ripropone uno dei grandi temi del '900, quello del rapporto fra tecnologia e immaginario, nella prospettiva della sociologia dei processi culturali applicata alla produzione audiovisiva contemporanea.

       Ciò che emerge da questa rapida ma intensa panoramica è che il cinema non esiste soltanto in una versione conservativa e residuale, ma sembra essere ancora in qualche modo protagonista, sebbene in modo diverso dal passato, come oggetto sociale.

 

 

 

SegnoSpeciale n. 201

TUTTI I FILM DELL'ANNO 2015-2016

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JOY di David O. Russell

 

 

 

SegnoSpeciale n. 200

Speciale 200

CINEMA ARTE APERTA
Le quattro vite dell’immagine in movimento
a cura di Paolo Cherchi Usai               

       Non c’è esagerazione alcuna nel sostenere che la cultura visiva è giunta a uno spartiacque d'incalcolabile portata. Non si tratta della cosiddetta “rivoluzione digitale” in sé, quanto delle sue conseguenze sull’identità dello spettatore. In meno di due decenni l’esperienza dell’immagine in movimento si è trasformata in modo così radicale che il passato prossimo sembra già preistoria: il grande schermo è passato da protagonista a comprimario dell’esperienza collettiva, frantumata in una pletora di piattaforme, formati, alternative a una tradizione ormai secolare. Ci sono state altre rivoluzioni, dall’avvento del sonoro al colore, dallo schermo panoramico al 3-D, ma quella in corso è di gran lunga la più gravida di conseguenze e di possibilità creative. In altri termini, sta nascendo un nuovo tipo di spettatore, il cui identikit somiglia poco o nulla a quello delle generazioni precedenti.

       La sua comparsa ha tuttavia radici storiche profonde, legate all’evoluzione del pubblico e alla tecnologia che ha modellato i suoi desideri in un percorso affascinante e intricato, che vale la pena di ripercorrere. Abbiamo identificato quattro età nel processo evolutivo del cinema, quattro fasi del rapporto fra l’immagine artificiale e il suo osservatore. Ognuna è cresciuta sulle rovine delle precedenti, ognuna conteneva le premesse della sua trasformazione in un’entità ulteriore. Quella che sta emergendo ha in comune con tutte le altre un effetto di sorpresa e di straniamento, tipico di tutto ciò che sfida le previsioni affermandosi come novità dirompente e piena di incognite. Ma non è stato sempre così? In un certo senso, le quattro storie riassunte nelle pagine che seguono raccontano la stessa vicenda, lo stesso rapporto fra domanda (le esigenze dello spettatore) e offerta (i modi di esibizione delle immagini).

       Questa dialettica si ripresenta oggi in forma ancora più complessa, ma non dissimile da ciò che ha dato vita al “cinema” come espressione della civiltà delle macchine. Ecco una sintesi delle sue quattro vite.

 

 

  

SegnoSpeciale n. 199

Speciale 199

ENERGIE ALTERNATIVE
Le dualità virtuose del cinema italiano
a cura di Adriano De Grandis               

       Che cosa intendiamo quando parliamo di cinema italiano? C’è un modo per sintetizzarlo in un unico percorso? Ad esempio: un cinema pigro che si appoggia unicamente su prodotti consolidati, specie commedie, che andrebbero quasi vietate per i prossimi anni come qualche critico ha perfino provocatoriamente richiesto? O anche: un cinema ormai abbandonato allo sguardo di un pubblico famelico di fiction televisive, che da tempo non riesce più a comprendere linguaggi diversi, ma sa riconoscere soltanto l’unico che frequenta costantemente? O forse: non è vero che queste sono soltanto le punte visibili di un iceberg assai più stratificato, dove non esiste un movimento univoco, ma tanti, probabilmente paralleli, percorsi, che cercano l’avventura di diverse strategie, stili, temi, sguardi?

       Perché poi si finisce sempre a quella lotta manichea tra gli adulatori che sviluppano entusiasmi ed elogi a ogni premio vinto (come fosse questa l’analisi più corretta del valore cinematografico di un’opera) e i detrattori, che anche alla luce di questi riconoscimenti, parlano di exploit singolari, di movimento inesistente e di una certa predisposizione all’estero nel premiare ancora un cinema che esalta solamente la visione ormai consumata dell’Italia, in qualche modo consolatoria: un Paese sempre tra Totò e i mandolini, il neorealismo e la commedia da Amici miei quando va bene.

       Probabilmente bisognerebbe invece guardare al cinema italiano nelle sue molteplici anime e non soffermarsi solo a quelle più evidenti, intercettando anche quelle più coraggiose e marginali, sempre trascurate da giornali, televisioni, produttori, esercenti, critici e pubblico. Ecco perché qui si tenta di fare una mappatura, anche nelle sue contraddizioni, di tutte queste energie, da quelle più popolari alla Zalone a quelle più sperimentali, uno spettro così ampio da rivalutare la visione di povertà e indolenza del nostro cinema.

       Se Michele Gottardi va alla caccia di possibili nuovi, attuali rapporti padri-figli, forse mai come oggi in crisi anche nelle stanze cinematografiche, Beatrice Fiorentino esplora più da vicino la devozione (e l’ostilità) della commedia e la rinascita del “genere”; se il sottoscritto prova ad abbattere l’ultima frontiera possibile, tra quei registi che temono di uscire dal recinto di casa e quelli che hanno costruito la propria identità all’estero, mantenendo vive la radici italiane, Massimo Causo, in modo originale, spiega perché la macchina cinema da noi gira sempre verso lo stesso lato.

       Un percorso insomma tutt’altro che esaustivo, ma speriamo stimolante.

 

 

  

SegnoSpeciale n. 198

Speciale 198

LYNCHIDENTE
Il cinema interrotto di David Lynch
a cura di Flavio De Bernardinis               

        In attesa della eventuale terza serie, il caso della prima e seconda serie di Twin Peaks risulta emblematico dell'evoluzione artistica di David Lynch. La prima serie, pur con tutte le singolari originalità messe in campo, mantiene ancora vivo e centrale l'intrigo giallo. La seconda serie arriva a un tale grado di disgregazione dei nuclei tematici della narrazione, da restare sospesa in una sorta di purissima astrazione a ripetere.

        È di questa astrazione a ripetere che ci interessa parlare: nel 2016 sono ormai 10 anni, dal 2006 di INLAND EMPIRE, infatti, che David Lynch (che quest'anno ha compiuto 70 anni) non fa più film. Ci colpisce proprio oggi, che il cinema, e l'audiovisivo in generale, sono integralmente consegnati alla dimensione narrativa (film basati fortemente sulla sceneggiatura, e le serie Tv, web series...). L'ultimo Bellocchio ci sembra forse l'unico caso simile all'ultimo Lynch (anche se il regista italiano i film continua a sfornarli). Lo stesso Bellocchio lo dichiarò apertamente a proposito di Sangue del mio sangue: di non essere preoccupato, anzi di prediligere che, a differenza del cinema americano, la narrazione né debba "quadrare", né debba "risolvere".

        Il caso Lynch è quindi emblematico di una dicotomia ancora viva e irrisolta: tra il cinema che si abbandona alla pura astrazione e al gioco di forme, e il cinema che si concentra in intrattenimento e intrigo narrativo.

        Ma David Lynch, forse, come emerge in questo Speciale, va oltre, supera siffatta contrapposizione: per andare dove? Forse, verso quel territorio dove "cinema" vuol dire finalmente "cinema".

 

 

  

SegnoSpeciale n. 197

Speciale 197

CLASSICO FILMABILE
L'intersezione fra cinema e musica colta
a cura di Luca Bandirali               

       Il campo sonoro del film, nella sua componente musicale (storica o discorsiva), attinge fin dalle origini del cinema a un certo repertorio o a un certo stile che per molto tempo sono stati etichettati, prima rigorosamente dalla storiografia e poi in modo vago e onnicomprensivo dal senso comune, come musica classica. Fin dal XIX secolo, infatti, “il concetto di ‘classico’ […] s’impone nel ritmo quotidiano della vita musicale, governa l’attività delle istituzioni, fissa le direttrici lungo le quali si vien formando uno stabile repertorio” (dalla voce “Classicismo”, Dizionario Enciclopedico Universale della Musica e dei Musicisti, UTET 1983). Il classico si distingue, sincronicamente, dalla musica popolare e, diacronicamente, dalla musica antica e contemporanea.

         Il dibattito teorico ha coniato nel tempo etichette differenti, come quella di musica colta; in questa sede, dove ci occupiamo dell’intersezione fra il cinema e quello “stabile repertorio” che è stato definito classico (o serio, colto, eurocolto), è essenziale soprattutto accordarci non sull’etichetta più appropriata, quanto sulla tipologia di musica a cui vogliamo fare riferimento, che in parte è più facile raggruppare per esclusione: tutto ciò che non è popular music, dal gregoriano a Max Richter. Il purista trasecolerà di fronte a questa grossolana tassonomia, ma l’idea è quella di comprendere le pratiche d'impiego di un repertorio musicale che viene applicato alle immagini in movimento fin dalle origini. Tale repertorio ha orientato fortemente l’approccio alla musica per film, ne ha creato i presupposti linguistici, ne ha fissato gli obiettivi affettivi e sinestesici; la prassi di prelievo dal patrimonio preesistente si è trasferita variamente in uno stile adeguato al “commento” cinematografico.

       Nel tempo la musica per film è diventata un genere vero e proprio che a sua volta ha influenzato i linguaggi della musica contemporanea colta e leggera; lo si comprende perfettamente ascoltando i lavori di musicisti come Brian Eno che ha fatto della musica applicata un genere astratto, autonomo rispetto al testo cui si applica o a cui non si applica affatto. Ben prima di Eno, d’altra parte, fu Schoenberg a inaugurare il filone delle musiche senza film con Begleitmusik zu einer Lichtspielszene op. 34 (1930), composizione che incontrerà il cinema quarant’anni dopo, attraverso un meta-adattamento di Straub-Huillet; questo incontro ritardato è sintomatico dell’intersezione variabile fra cinema e musica colta, intersezione che abbiamo affrontato posizionando i punti di vista in entrambi i territori.

       Nell’ambito degli studi sulla musica per il cinema si collocano Roberto Pugliese, che passa in rassegna i musicisti di area colta che nel corso del XX secolo hanno variamente tentato l’avventura cinematografica; e Roberto Calabretto, che rovescia la questione, interessandosi ai cineasti che si sono posti il problema del filmare la musica classica. Nell’ambito dei musicisti abbiamo sollecitato gli interventi del compositore Riccardo Giagni, che si sofferma sulle peculiarità d’uso del repertorio eurocolto lungo la storia del cinema; e il pianista Roberto Prosseda, che offre una testimonianza interna al lavoro della composizione con particolare riferimento a tre grandi autori “visti da vicino”. L’intento è quello di prendere atto della complessità di una dialettica artistica che è in perenne tensione, e che mediante questa tensione ha generato dei codici culturali e linguistici.

 

 

  

SegnoSpeciale n. 196

Speciale 196

CINEFILIA | CINÉPHILIE | CINEPHILIA
Una passione senza confini
a cura di Enrico Terrone               

        Il cinema ha sempre avuto nemici contro cui combattere. Innanzitutto i padri nobili - le belle arti, la letteratura e il teatro - che lo guardavano dall’alto in basso, come un fenomeno da baraccone. Poi la televisione, il cugino sgraziato e aggressivo, che gli rubava spettatori trasformando l’incanto del grande schermo nel pallido baluginare di un elettrodomestico. Infine il digitale e la rete, i pronipoti impertinenti, capaci di ridurre i film stessi a flussi di bit, e di tramutare gli spettatori in utenti di computer, tablet e smarthpone.

         Cinefilia è il nome con cui possiamo chiamare la difesa del cinema dai suoi nemici nel corso del tempo. Ma cinefilia non è solo difesa: è anche ripartenza, controffensiva, attacco - e poi anche, all’occorrenza, trattativa, negoziato, compromesso. Cinefilia è la varietà dei modi in cui ci si batte per il cinema, ed è soprattutto la passione che spinge a farlo. Da una parte questa passione è senza tempo e senza confini: è unica come è unico il cinema. D’altra parte, al pari del cinema, la cinefilia si manifesta in determinati contesti storici e geografici, ed è sensibile alle specificità dei contesti - persino in una società globalizzata come quella contemporanea. Per capire che cos’è la cinefilia in assoluto occorre dunque chiedersi, innanzitutto, che cos’è la cinefilia in un certo luogo e in un certo periodo.

         Questa è la ragione per cui abbiamo interpellato quattro osservatori del fenomeno cinema in quattro contesti differenti - Italia, Francia, Regno Unito, Stati Uniti - perché ci raccontassero la cinefilia dal loro punto di vista.

 

 

  

SegnoSpeciale n. 195

TUTTI I FILM DELL'ANNO 2014-2015

Leggi il pdf

LO STRAORDINARIO VIAGGIO DI T.S. SPIVET di Jean-Pierre Jeunet

 

 

 

SegnoSpeciale n. 194

Speciale 194

IL FILM PERFETTO 
Aspetti della forma cinematografica compiuta
a cura di Luca Bandirali   

        In campo estetologico, la riflessione sul bello come esito della perfezione formale dell’opera ha nel tempo ceduto il passo a un’indagine sull’artistico, sul cosa o sul quando un oggetto è arte. La critica cinematografica, nata ben lontano dai dibattiti sul canone o sulla perfezione dell’opera, ha spesso fatto riferimento al capolavoro (cfr. SegnoSpeciale 132, “Cinema a 5 stelle: la retorica del capolavoro assoluto”), un’opera che si colloca senza dubbio ai vertici dell’arte ma spesso proprio in virtù della propria eccezionalità o paradossale imperfezione, che gli consente di staccarsi dalle fila degli oggetti prodotti in serie.

        Perché invece il film perfetto, oggetto di questo Speciale, da una parte sembra perseguire un ideale teleologico, nella misura in cui appartiene al dominio della produzione in serie, che scarta l’esemplare difettato affinché ogni oggetto corrisponda perfettamente al progetto; per altri versi, il film perfetto ambisce a un ideale teologico, a una perfezione divina in cui il bello e il bene arrivano a coincidere. Alla prima tendenza afferiscono, in termini sincronici, i discorsi sulla finalità del cinema e in termini diacronici quelli sulla cosiddetta “evoluzione” tecnologica del cinema; alla seconda quelli sul cinema come arte.

       Il cinema come dispositivo di riproduzione meccanica ha una storia che sembra procedere da un’origine caratterizzata dalle proprie carenze (muto, in bianco e nero, di breve durata, approssimativo nella riproduzione del movimento) lungo un cammino di conquiste che colmano le carenze man mano che si perfeziona, appunto, la tecnica: il suono, per esempio, nel percorso da monofonico a multicanale, pare giungere a ogni svolta materiale al suo climax estetico; ma anche la rivoluzione digitale dell’immagine ha introdotto nuove accelerazioni sull’autostrada della perfezione, che è disponibile sul mercato: più paghi, più perfezione hai.

Quale perfezione?

       Questa ideologia produce anzitutto il rutilante blockbuster, spesso accompagnato da un’ampia propaganda che celebra le nuove tecnologie, come nelle grandi esposizioni universali di fine '800; ma produce anche il mito del cineasta che domina la tecnologia (Kubrick dalla steadicam al Motion Control, ma anche James Cameron) opposto al mestierante che ne è dominato (Roland Emmerich, Michael Bay). La linea delle “invenzioni” è esplorata dal saggio di Mauro Antonini, quella del controllo totale dal saggio di Marcello Walter Bruno; ma questa spinta teleologica presenta anche la caratteristica inquietante, ben indagata dal saggio di Paolo Cherchi Usai sul restauro digitale, di essere contraddittoriamente retrospettiva: vale a dire che adatta le opere del passato agli standard del presente, come se in un’edizione attuale delle opere di Shakespeare un curatore decidesse di sostituire i vocaboli più desueti per “migliorare” (o perfezionare) le opere stesse. Fuor d’iperbole, la disciplina del restauro del cinema appare al momento assai poco disciplinata, e tanto distante dal quadro teorico (e normativo) del restauro conservativo dei beni culturali, costituendo di fatto un’anomalia preoccupante.

       L’impianto teologico invece prende in carico una perfezione che non è di questo mondo, nel senso che l’opera perfetta è quella che imita l’agire divino, e dunque il film perfetto è semplicemente una manifestazione sensibile di un’idea perfetta di cinema, un’idea posseduta a monte solo da alcuni soggetti, gli Autori, e riconosciuta a valle solo da alcune élites (storici del cinema, curatori di festival e rassegne, critici, cinéphiles). In alcuni di questi gruppi sociali si diffonde anche la fondatissima idea che, quando non c’è, un Autore lo si possa creare, presentandolo come tale, indicandolo al modo in cui nell’Artworld il critico e il gallerista indicano l’artista (e di conseguenza le opere d’arte).

       Di questi particolari itinerari si occupa il saggio di Enrico Terrone, che mette in circolo tra gli altri spunti anche quello del rapporto tra forma e funzione, cavallo di battaglia del dibattito architettonico novecentesco: se il film (l’edificio) è un congegno, un macchinario insomma (una fidanzata automatica direbbe Ferraris, e il Tornatore de La migliore offerta gli darebbe ragione), a lato della sua capacità di provocare emozioni, a lato dell’essere generato da un’intenzionalità artistica e di essere fruito da un pubblico opportunamente dotato di un atteggiamento artistico, non sarebbe opportuno interessarsi alla corrispondenza (possibilmente perfetta) tra la sua forma e la sua funzione?

 

 

  

 

SegnoSpeciale n. 193

Speciale 193

ESTETICA DELLO SMACCO 
Forme dell'incompiuto cinematografico
a cura di Nicola Dusi   

       In questo Speciale racconteremo di film mai realizzati, perché incompiuti o perché rimasti sulla carta e per questo, spesso, ignorati o dimenticati dalla storia del cinema. Si tratta, in primo luogo, di riflettere sulla "fragilità del cinema", come la chiama il produttore del film mancato di Terry Gilliam The Man Who Killed Don Quixote, quando si trovano costretti a rinunciare all'impresa, a riprese iniziate, a causa di una malattia sopraggiunta all’attore protagonista, unita a disastri atmosferici e altri imprevisti che rallentano la preparazione del film, aumentano i costi di produzione, anzi fanno letteralmente dissolvere il set. Nel documentario Lost in La Mancia (di Fulton e Pepe, 2002), che esce al posto del film di Gilliam, siamo costretti ad accontentarci di frammenti: poche scene di prova, la scelta dei costumi, il buffo storyboard disegnato da Gilliam, cioè le fasi preparatorie di un film mai realizzato, da cui immaginare ciò che avremmo potuto vedere. Gilliam ci riprova nel 2009 riacquistando i diritti della sua sceneggiatura, ma già un anno dopo la produzione collassa, poco prima dell'inizio delle riprese.      

        Frammenti e progetti incompiuti sono parte integrante anche del Don Quijote de Orson Welles col montaggio a cura di Jesús Franco (1955-1992), un tentativo di salvare l'enorme quantità di pellicola girata da Welles nell'arco di quindici anni per un film totalmente autoprodotto. Il film di Franco è un mash up, cioè un frullato di fonti eterogenee, e mescola le riprese documentarie fatte da Welles in Spagna per la Rai, durante gli anni Cinquanta e Sessanta, a spezzoni di un film (forse) mai girato del tutto fra il Messico e l’Italia, certo mai montato in modo univoco da Welles. Nella saga mediatica di Don Chisciotte riapre il gioco delle varianti (im)possibili L'erede di Don Chisciotte, un soggetto mai realizzato di Antonio Pietrangeli a cui collabora - tra il dopoguerra e i primi anni Cinquanta - Cesare Zavattini (assieme a A. Vergano, U. Barbaro, M. Bollero), per un film che doveva essere interpretato da Totò. Vi si legge di un tale Alonzo Chisciano messo alla gogna per tasse inevase dall’Inquisitore e da un “Notaio dei Malefizi”, che ottiene fortunosamente una proroga alla condanna del taglio della mano, s’imbatte nel corteo funebre di Don Chisciotte accompagnato da Sancho in lacrime, viene riconosciuto come l’erede designato, ma a patto di continuare le gesta dello zio. Un sequel, in chiave comico-cabarettistica, con il cavallo che si getta “per un inveterato automatismo” contro il primo mulino a vento incontrato, e una sfilza d’inganni e fughe improbabili come quella con un razzo dei fuochi di artificio…

       Le ricerche raccolte in questo Speciale trattano allora dello smacco di un film fallito o, più comunemente, di film scritti, e intravisti, fra il soggetto e la sceneggiatura. Progetti mai realizzati, che vogliamo rivalorizzare come parte di un’ampia e variegata "estetica dell'incompiuto" cinematografico. Da intendersi come le rovine (o le macerie) di un sogno, anche se ricordiamo Pasolini che si chiede, interpretando un allievo di Giotto alla fine del suo Il Decameron (1971): “Perché realizzare un’opera, quando è così bello sognarla soltanto?”. Oppure da ripensare come delle opere potenziali, che in qualche misura convivono, e nutrono, i film realizzati successivamente.

       Abbiamo privilegiato autori noti, giusto per sfoltire la lista, cioè registi e sceneggiatori che non sono riusciti, per ragioni spesso non solo economiche, ma anche socio-culturali e politiche, a portare a compimento un loro progetto di film ben definito. Sono “immagini perdute”, come le battezza amaramente Valerio Zurlini tornando con la memoria ai tanti film scritti e preparati senza risultato, ad esempio le sue tre “sceneggiature morte” (La zattera della Medusa, Verso Damasco e Il sole nero) raccolte nel libro-diario Gli anni delle immagini perdute, che ha ispirato il riuscito documentario di Adolfo Conti (Italia 2012). Tra paesaggi lagunari e una voce narrante che legge il diario di Zurlini, interviste e conversazioni d’archivio col regista, e le testimonianze di amici e collaboratori, Conti tenta di capire le cause del forzato silenzio produttivo di Zurlini, che in vent'anni (dopo il Leone d'Oro del 1962 per Cronaca familiare), riuscì a girare solo pochi, bellissimi, film.

Fondi e Archivi autoriali

       Una miniera, in parte inesplorata, d’immagini perdute è l’Archivio Cesare Zavattini conservato presso la Biblioteca Panizzi di Reggio Emilia, il cui fondo principale è diviso in più di milleseicento fascicoli (tra cui quelli dedicati al cinema, ai fumetti, al giornalismo, alla letteratura, alla pittura, oltre a radio, teatro, televisione), e in sette fondi autonomi che conservano, tra l’altro, lettere e lavori cinematografici anche del tutto inediti. Con documenti relativi a più di duecento film, tra i quali circa centosessanta soggetti mai realizzati. A puro titolo di esempio Karasciò - Un italiano in Russia (del 1971), un film che doveva essere interpretato da Alberto Sordi di cui esistono soggetto, scaletta, note di lavorazione, o La prospettiva, tratto da un racconto di Gogol’, con soggetto, scaletta e sceneggiatura quasi definitivi.

       L’Archivio Zavattini conserva anche progetti per documentari, per serie di cortometraggi comici, oppure per serie televisive come Le mille e una notte (in dodici episodi). Nonché innumerevoli variazioni, revisioni, note e appunti, visto che il metodo di lavoro di Zavattini consisteva nello scrivere, correggere e variare a oltranza, e nel concepire quasi quotidianamente nuove idee e progetti, spesso donati ad amici di passaggio nella sua casa romana. Tra i molti casi di sceneggiature di Zavattini mai realizzate, ci sono due film-inchiesta dei primi anni Sessanta ricordati in questo Speciale da Lorenza Di Francesco. La cavia, storia di Maurizio Arena, l’attore di Poveri ma belli di Risi (1956) subito famoso e poi fallito; e Tu, Maggiorani, sulla sorte, simile, subita dall’attore protagonista di Ladri di biciclette di De Sica (1948).

       Nel sottoinsieme degli adattamenti tratti da opere letterarie "ingovernabili”, ci soffermiamo sul “caso Proust”, a partire dai materiali del Fondo Visconti presso la Fondazione Istituto Gramsci di Roma. Anna Masecchia indaga le molte sceneggiature e i trattamenti a partire da La Recherche, mentre Mauro Giori si sofferma in particolare sullo scambio tra Ennio Flaiano e Luchino Visconti. Sono innumerevoli i soggetti cinematografici italiani scritti in forma definitiva, depositati alla SIAE, e mai realizzati. Tra quelli raccolti nell'Archivio della Fondazione Federico Fellini di Rimini - e nel fondo veneziano “Carlo della Corte” - c’è ad esempio Venezia, di cui parla qui, attraverso un divertente epistolario, Giulio Iacoli. A chiusura dello Speciale, Francesco di Chiara indaga i collage e le pratiche di scrittura di Michelangelo Antonioni, a partire dal suo “misterioso” Archivio di Ferrara.

Immagini perdute o, invece, potenziali?

       Pochi anni fa una selezione di soggetti di Fellini ha trovato nuova vita - grazie a Paolo Fabbri, allora direttore della Fondazione - in un laboratorio di sceneggiatura diretto a Bologna da Carlo Lucarelli e finanziato dalla Rai. Il caso più famoso, la sceneggiatura scritta da Fellini (con Dino Buzzati e Brunello Rondi) il Viaggio di G. Mastorna a partire dal 1966, è invece diventata, quasi trent’anni dopo, un fumetto di Milo Manara, Il viaggio di G. Mastorna, detto Fernet (1992). Per il fumetto, Fellini ha scelto Paolo Villaggio come protagonista, concordato lo stile grafico (l’acquatinta), e disegnato tutte le inquadrature da utilizzare. Come ricorda Ermanno Cavazzoni, curatore di una riedizione in forma di romanzo della sceneggiatura (Quodlibet, 2008), di questa esistono vari dattiloscritti, ognuno diverso - ce n’è anche uno in inglese depositato da Fellini alla SIAE - ma nessuna versione è definitiva considerati i molti ripensamenti, aggiustamenti, cancellazioni o aggiunte. Vincenzo Mollica (nell’introduzione al volume) racconta invece che della breve collaborazione con Buzzati rimane traccia nella figura immaginifica di un treno a più piani, ripreso poi da Buzzati nel suo coloratissimo Poema a fumetti (1969), nel quale il tema è simile: un viaggio nel mondo dei morti (in Buzzati riaprendo il mito di Orfeo).

       Grazie all’iniziale sostegno del produttore De Laurentiis, Fellini inizia a far costruire a Dinocittà, presso Roma, alcuni set per il film: facciate di palazzi e del duomo di Colonia, il relitto di un aereo di linea; e gira la scena di un rapido atterraggio di fortuna da cui tutti escono (apparentemente) illesi. S’intravede anche il musicista Mastorna, con la valigia in una mano e la custodia del violoncello nell’altra. La scena e il set sono presenti nel documentario realizzato da Fellini per la NBC americana, Block-Notes di un regista (1969), in cui Fellini spiega: “Avevo preparato tutto perché il mio personaggio si materializzasse… ecco, a volte avevo la sensazione di averlo veramente conosciuto Mastorna… ma poi tornava a sfuggirmi”. Alcune intuizioni della sceneggiatura torneranno, comunque, nei film successivi, come Prova d’orchestra (1978) e Ginger e Fred (1986). Tra i molti riusi di Fellini nel web, esiste anche un fake trailer, intestato “Le Gran Lux - Les Films D’Ameublement”, dal titolo Fellini G. Mastorna: è un confronto su split screen di immagini d’archivio documentarie e di finzione, tra cui anche dei (veri) provini.

       Iniziamo così a mappare un arcipelago di “fondi” e “archivi” autoriali di cinema e di letteratura faticosamente conservati, spesso poco noti, sempre male finanziati. Nell’epoca del web che tutto rimugina e tutto conserva, gli archivi che riusciranno a resistere, e a digitalizzarsi, diverranno fonti preziose per ricostruire reti di relazioni e contesti inediti. Con storie a volte commoventi, come i film incompiuti di cui parliamo in queste pagine.

 

 

  

 

SegnoSpeciale n. 192

Speciale 192

I 40 ANNI DI AMICI MIEI
La commedia all'italiana: miseria e crudeltà

a cura di Flavio De Bernardinis   

        1975-2015: Amici miei, l'ultimo atto della commedia all'italiana, assieme al successivo Un borghese piccolo piccolo, entrambi diretti da Mario Monicelli, compie 40 anni. Tra le possibili ricorrenze, ci è parsa una delle più urgenti da cogliere, e farne così materia di uno Speciale. Abbiamo pensato, infatti, che fosse l'occasione per ricordare uno dei maggiori successi del cinema comico italiano, e insieme riflettere su ciò che si dice la "commedia all'italiana", genere unico al mondo, così amato e così odiato, in cui la profonda miseria dell'Italia post bellica già incontrava la crudeltà di ciò che sarebbe stato il Paese, una volta ricostruito e lucidato.

        Miseria e crudeltà, un binomio che ancora forse, senza forse, tutti ci riguarda.

        Se la commedia all'italiana inizia con la morte, ne I soliti ignoti di Monicelli, anno 1958, Memmo Carotenuto che finisce sotto un tram, allora la medesima commedia all'italiana, sempre diretta da Monicelli, finisce con la morte, anno 1975, il decesso di Philippe Noiret, il giornalista Perozzi, nel finale di Amici miei. Scrive Carlo Goldoni, anno 1750, nella prefazione alla commedia I due gemelli veneziani: "Una cosa mi è certamente riuscita in questa Commedia, che non so a qual altro Comico Poeta sia mai riuscita. Per ben condurre al suo termine la mia azione, mi è convenuto far morire in scena uno de' due Gemelli, e la di lui morte, che difficilmente tollerata sarebbe in una Tragedia, non che in una Commedia, in questa mia non reca all'uditore tristezza alcuna, ma lo diverte per la sciocchezza ridicola, con cui va morendo il povero sventurato. Io non credo arrogante la mia franca asserzione, quando ricordomi delle risa da cui si smascellavano gli spettatori universalmente, sul momento delle sue agonie e de' suoi ultimi respiri".

        Dice Mario Monicelli*: "La morte è comica. Non ha quasi mai nulla di eroico. Dalla veglia funebre al funerale, con tutto quello che può accadere durante l'interramento, la morte fornisce materia comica straordinaria". I quattro amici superstiti, Tognazzi Moschin Celi e Del Prete, mentre il feretro del Perozzi/Noiret avanza, sghignazzano di gusto, sostenendo a stento le mascelle: il vanto di Goldoni è anche quello di Monicelli. L'arte della commedia italiana è proprio questa: la morte senza tristezza alcuna. Ne L'arte della commedia, anno 1964, Eduardo De Filippo fa morire in scena il personaggio del Farmacista, ma infine non si sa, o almeno il Prefetto, colui che rappresenta lo Stato, non riesce a capire se questa morte sia vera o una finzione recitata da un attore comico. Allo stesso modo, in Amici miei, il conte Mascetti, ossia Ugo Tognazzi, alla morte del Perozzi, esclama: "Ma è morto sul serio?".

[continuazione sulle pagine della rivista]

 

 

 

 

SegnoSpeciale n. 191

Speciale 191

BUON COMPLEANNO IMMAGINE-TEMPO
Quel che Deleuze ha ancora da dirci sul cinema contemporaneo

a cura di Enrico Terrone   

       Secondo Michel Foucault “un giorno, forse, il secolo sarà deleuziano”. Profezia probabilmente troppo generosa: a ben pensarci un secolo tutto quanto deleuziano (quale, poi?) pare un’esagerazione. Più modestamente si potrebbe dire che è stata deleuziana la fine del secolo, soprattutto per quanto concerne gli studi sul cinema. E sicuramente sarà deleuziano il 2015, se non altro perché vi cadono i novant’anni dalla nascita di Gilles Deleuze (18 gennaio 1925), i vent’anni dalla sua morte (4 novembre 1995) e i trent’anni dalla pubblicazione del suo influente testo filosofico sul cinema: L’immagine-tempo, uscito in Francia nel 1985 come volume conclusivo di un dittico cominciato nel 1983 da L’immagine-movimento.

       I riferimenti alla nozione deleuziana di immagine-tempo, nei testi di teoria e critica del cinema degli ultimi decenni, sono in quantità sterminata. Lo scopo di questo Speciale non è aggiungere una nuova manciata di citazioni alle tonnellate già esistenti: non se ne sente proprio il bisogno. Si tratta piuttosto di cercare di capire perché un testo come L’immagine-tempo abbia influito così tanto sulla teoria e sulla critica del cinema, in quale misura esso continui a influire, e quale sia la sua utilità effettiva per quanto riguarda la comprensione e la valutazione dei film, in particolare quelli nostri contemporanei.

       A questo scopo, sembra necessario stabilire, con un certo grado di chiarezza, in che cosa consista l’immagine-tempo: quali caratteristiche la contraddistinguano, quali film o scene di film la esemplifichino, quali periodi storici la vedano protagonista. Da una parte, sembra troppo limitativo stipulare che gli unici film a contare veramente come immagini-tempo sono quelli che Deleuze classifica lui stesso, esplicitamente, come tali. D’altra parte, la nozione di immagine-tempo non può ridursi a un’etichetta scintillante che il primo critico che passa di lì appiccica sul primo film che gli passa per la testa, in modo da ammantarlo (o ammantare la propria recensione) di una qualche rilevanza filosofica. Devono esserci delle caratteristiche peculiari, in base alle quali solo certi film, o certe parti di film, o certi modi di fare i film, o certe fasi della storia del cinema, possono contare come immagine-tempo.

       Se la nozione di immagine-tempo ha ancora qualcosa d'importante da dire sul cinema contemporaneo, dopo trent’anni di onorato servizio, allora ci deve essere modo di fare un po’ di chiarezza sulle sue caratteristiche distintive. È questa la principale sfida con cui i saggi di questo Speciale si cimentano.

 

 

 

SegnoSpeciale n. 190

 

LA GUERRA NEL MIRINO. Il cinema sul fronte della Prima Guerra Mondiale  
a cura di Micaela Veronesi  

“Sapevo che non sarei stato ucciso. Non in questa guerra. Non aveva niente a che fare con me. Non mi pareva che presentasse
per me più pericolo della guerra al cinematografo”.

Ernest Hemingway, Addio alle armi

Prima

        La Grande Guerra è prima per tanti fenomeni: dimensione planetaria, impiego di gas tossici, nuovi modelli di artiglieria fra cui le mitragliatrici, uso di aeroplani, effetti drammatici sulla salute dei combattenti e sulla loro psiche, presenza di cine-operatori sul fronte. Fu proprio attraverso le immagini che la giovane società di massa fece il suo ingresso mediatico nell'orrore. Un centenario è un anniversario importante: l'evento si allontana nel tempo, i testimoni diretti non ci sono più, eppure si sente il bisogno di ricordare, di recuperare narrazioni dell’evento passato, di trarre bilanci e insegnamenti. In questa prospettiva, il cinema si pone come una preziosa fonte di memoria: filmati d'epoca, instant movie, celebri colossal e film a loro volta dimenticati sono a nostra disposizione per raccontarci quella Storia.
       Ripercorriamo questo secolo interrogando le immagini e cercando in esse dei significati che vadano al di là del dispositivo che le ha generate. In che misura la guerra è fotogenica? Quanto la Prima Guerra Mondiale come matrice filmica delle successive si adatta al dispositivo cinematografico? Il realismo dell’immagine e il suo contestuale essere apparenza evidenziano alcuni limiti: la guerra - ci ha fatto notare Bazin - è molto più cruenta di qualsiasi sua ricostruzione[i], e la stessa ricostruzione basata unicamente sulle immagini è problematica. Per dirla ancora con Bazin, quando si ha a che fare con la guerra, l’ontologia dell’immagine filmica viene minata dal suo stesso realismo e non risulta possibile attenersi unicamente a quanto le immagini mettono in mostra[ii].  

L’immagine del caos

       I film sulla Prima Guerra Mondiale sono molti e assai diversi. Nel 1914 la giovane arte cinematografica era già sufficientemente matura per adattarsi alle esigenze della propaganda politica da un lato e a quelle più commerciali dall’altro, e fu sfruttata per la diffusione dei sentimenti nazionalisti e patriottici che affermavano l’indiscutibile necessità della guerra. Nella prima fase della guerra, per chi era lontano dal fronte, il dramma incombeva ma era poco più di un rumore di fondo. In Italia, per esempio, nel primo periodo delle ostilità il cinema abbonda di di melodrammi di finzione che avevano poco a che fare con la drammaticità del conflitto[iii]. Sulla cinematografia di guerra ci parla Sarah Pesenti Campagnoni nel suo studio sui film dal vero, svolto a partire dai materiali conservati negli archivi militari.
       Nel dopoguerra il cinema entra in un periodo di profonda crisi, l’atmosfera politica inoltre incide profondamente sull’immaginario collettivo, che tende a cercare nei film uno sfogo alle preoccupazioni più che un momento riflessivo. A parte film come J’accuse di Abel Gance (1919), per motivi diversi da Paese a Paese, si verifica una sorta di rimozione del conflitto, il quale riaffiora nel cinema verso gli anni '30 - non a caso quando ormai è subentrato il sonoro, componente essenziale per narrare questa guerra - con obiettivi ed esiti differenti e in gran parte sulla scia di grandi romanzi storici come Niente di nuovo sul fronte occidentale di Remarque, da cui è tratto un primo film dal regista Milestone nel 1930. Il film di Gance, poi rifatto dallo stesso regista nel 1938, è una dura accusa al conflitto e una chiara denuncia degli esiti traumatici che questo ha inflitto a chi vi ha partecipato. Con il suo lavoro Giuseppe Fidotta ci accompagna appunto su un terreno minato come quello dei film dedicati ai reduci di guerra e orienta la nostra attenzione su un altro nodo intricato della narrazione del conflitto: il ruolo degli Usa e la loro autorappresentazione attraverso i film.
       A partire dagli anni '60 il cinema intraprende un discorso di recupero della memoria e di denuncia della Prima Guerra Mondiale vero e proprio; tema su cui si focalizza il lavoro di Andrea Mariani, che si snoda intorno al tema del non vedere. In questa molteplicità di approcci, le immagini della Prima Guerra Mondiale costituiscono una sorta di babele di pellicola, dove la parte documentaristica e quella narrativa ora si fondono, ora si elidono. Lo hanno ben compreso e rappresentato Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi con il loro lavoro che, nella prassi del found footage e nella forma analitica caratteristica del loro cinema di avanguardia, hanno fatto rivivere uomini donne bambini e luoghi della Prima Guerra Mondiale attraverso le pellicole d’epoca trovate negli archivi e da loro rimontate nei film della trilogia Prigionieri della guerra 1914-1918 (1995), Su tutte le vette è pace (1998), Oh, uomo! (2004). I corpi di quelle persone immortalate nei filmati - che siano soldati di eserciti vari, bambini orfani, infermiere su un fronte qualsiasi - respirano, sorridono, pulsano di energia vitale, e diventano un unico solo corpo, annullando sullo schermo la valenza non solo di quella guerra ma di qualsiasi conflitto.
       Se l’ideologia critica verso ogni forma di imperialismo e di violenza di Ricci Lucchi e Gianikian è nota e ben evidente nel loro lavoro, più sottile e sfaccettata è la visione problematica della guerra presente nel film Umanità, prodotto nel 1919 da Elvira Giallanella. Questo film, da me riscoperto per caso nel 2007[iv], racconta in chiave fantastica le avventure di due bambini rimasti soli su una Terra distrutta da un’enorme catastrofe bellica. Accompagnati da uno gnomo e assistiti da Dio in persona, vagano per la terra desolata fra rovine, residuati bellici e scenari fantasmatici come quello di un esercito formato solo dagli stivali dei soldati. Loro malgrado si trovano invischiati fra i detriti della guerra che ha contaminato sia le terre sia i mari e finiscono per replicare nel loro piccolo quelle dinamiche di odio e sopraffazione che hanno portato l’umanità a distruggersi. Il film si conclude con un inno al lavoro e alla fratellanza come valori primari da cui ripartire per garantire la pace.
       Un altro film che racconta la contaminazione del mondo operata dalla guerra, realizzato in un’epoca del tutto diversa e lontana da quella di Giallanella, è I recuperanti di Olmi. Ma nel caso di Olmi - siamo nel 1970 - il lavoro non è più la soluzione: “fare 'ste cose per campare è quasi peggio che andare in guerra” dice il giovane protagonista alla fine del film, e il vecchio Du ribatte: “quando si è costretti a lavorare è sempre una guerra”.

 Grande

 “È una follia. Follia e fango, orrore e sangue”[v].

       Il cinema della Grande Guerra dunque, lo ha evidenziato Giaime Alonge[vi], si trova per primo ad affrontare un'enorme novità: non è più possibile rappresentare la guerra dal punto di vista del generale che osserva la battaglia dall’alto della sua postazione. Al contempo la guerra non è più un mestiere da manovali come poteva essere quella medievale narrata nell’arazzo di Bayeux (XI sec.) o quella di La resa di Breda di Velazquez (1634-35)[vii]. Ma le differenze, ritorno a citare Alonge, sono anche quantitative: “il sostantivo battaglia non indica il medesimo evento quando lo si attribuisce a Waterloo e alle Somme”: la prima battaglia durò meno di dodici ore su un fronte di circa cinque Km, mentre la seconda continuò per circa cinque mesi su un fronte di venti Km[viii]. La guerra non è più “un’attività razionale, un insieme di mosse e contromosse inserite in uno schema intelligibile”[ix], anzi, questa è la prima guerra dove l’irrazionalità della violenza prorompe sul palcoscenico mondiale nonostante i tentativi di occultamento dei potenti.
       In quanto spettacolo di massa, il cinema contribuisce alla diffusione dei sentimenti di contrarietà e di rifiuto della guerra che vanno aumentando in tutta Europa soprattutto a guerra finita e che si erano sviluppati a partire dal 1917 anche grazie alla formazione di un “fronte interno”, costituito dall’insieme dei non combattenti, il cui parere inizia a pesare soprattutto quando i morti, la fame e la paura si fanno più pesanti. Alcune pellicole prodotte negli anni del conflitto, come le italiane La paura degli aeromobili nemici (1915) e La guerra e il sogno di Momi (1917), enfatizzano i lati oscuri dell’evento pur restandone ancora dentro, e qualcosa di analogo fa anche Charlot soldato (1917). Lontani dall’individuare in questi film elementi di pacifismo come lo intendiamo oggi, vi possiamo isolare invece alcune costanti, sia a livello di topoi narrativi, sia a livello visivo. Non vi è quasi mai, per esempio, la rappresentazione dell’Altro come di un nemico. I nemici in questa guerra, da qualsiasi parte li si guardi, sono sempre rappresentati come degli sventurati alla stessa stregua dei protagonisti: di che reggimento siete fratelli? recita Ungaretti in un suo famoso verso.
       Subito dopo la fine della guerra, un po’ per l’instabilità della pace, un po’ perché le ferite sono ancora dolorose, molti registi sentono il bisogno di raccontare quello che hanno vissuto, a volte in prima persona (è il caso per esempio dello stesso Milestone). Nascono così degli instant movie interessanti perché ci restituiscono ancora oggi il senso dell’afflizione di quegli anni ma anche le angosce e le speranze soprattutto di chi non era sul fronte e aspettava, spesso invano, i ritorni. Oltre al già citato adattamento del romanzo di Remarque, vanno ricordati The Big Parade di King Vidor (1925), Les croix de bois di Raymond Bernard (1931), Westfront di Pabst (1930), La grande illusione di Jean Renoir (1937), film nei quali, come sempre, la guerra e la situazione di militari e civili è vista come doloroso patimento imposto da un potere più alto.
       Fra gli aggettivi attribuiti alla prima guerra mondiale, “grande” è dunque quello che ricorre maggiormente anche nei titoli. E grande questa guerra rimane, con tutti i suoi record drammatici, le ferite ancora doloranti e i traumi mai risolti.  

Prendere la mira

       Esiste una sola Prima Guerra Mondiale? O ce ne sono varie a seconda delle narrazioni? In questo Speciale cerchiamo d'individuare alcuni punti di vista e di mettere a fuoco alcune varianti con cui il cinema racconta l’evento. Tuttavia restano molte altre questioni e spunti di analisi. Come è cambiato il modo di vedere - e di intendere - la guerra dal 1914 a oggi? E cosa ci dicono su questa guerra le cinematografie meno note? Per costituzione più centrato sulla condizione dei proletari il punto di vista russo ha prodotto negli anni ’30 film come La fine di San Pietroburgo di Pudovkin, (1927) o I sobborghi di Boris Barnet (1933), non a caso usciti dopo il decennale della rivoluzione di ottobre e in cui prevale la dimensione della lotta di classe anche sulle linee del fronte.
       In tutti questi film, pur con le differenze sostanziali di stile che li caratterizza e anche in epoche molto distanti fra loro, sono le sequenze di morte quelle che maggiormente lasciano il segno: i soldati escono dalle trincee russe di Barnet come da quelle francesi di Bernard o dalle italiane di Uomini contro di Rosi (1970) e sono trucidati dalle mitragliatrici. Dovessimo montare una dopo l’altra tutte le sequenze di trincea girate ci ritroveremmo ad assistere a uno spaventoso spettacolo dell’orrore fatto di sangue e corpi dilaniati. Si pensi anche al finale di Gallipoli di Peter Weir (1981): il film, che racconta la guerra combattuta dall’esercito australiano sul fronte turco, si conclude con una delle tante immani carneficine in cui periscono i due giovani protagonisti. Non è un caso se un’altra costante che accomuna molti dei film su questa guerra è il finale tragico, con la morte di tutti, o quasi tutti, i protagonisti, o pessimistico, dove prevale un senso di smarrimento e di desolazione.
       Fra i tanti, quello che mi pare simbolicamente il più potente è il finale di All’ovest niente di nuovo, in entrambe le varianti: in Milestone il protagonista è colpito da un cecchino mentre si è sporto dalla trincea cercando di prendere una farfalla; nella versione del 1979 muore perché si distrae a disegnare un uccellino. Il lutto ricopre il mondo come un immane tsunami e il cinema lo interpreta anche attraverso una certa geografia dei luoghi. Si tratta spesso di luoghi svuotati, terre di nessuno, paesaggi devastati, o macabri come il cimitero di Verdun inscenato da Gance, da cui si alza un esercito di fantasmi ignoti pronti a vagare per l’Europa.
       In questa mappa sfaccettata della Prima Guerra Mondiale è più difficile individuare il ruolo delle donne. Qualora compaiano, sono quasi sempre figure di supporto agli uomini, addette alla loro cura come crocerossine o come cameriere o come prostitute. Oppure sono solo evocate come le tante sorelle mogli e madri che compaiono in foto o nei sogni. Al di fuori di questo coro di donne più o meno anonime troviamo il personaggio interpretato da Clara Bow in Ali di Wellman, che è sì infermiera volontaria al fronte ma incarna anche il tipo di donna nuova tipico di quegli anni: intraprendente e single per scelta. All’opposto ma con esiti altrettanto originali si collocano i personaggi femminili di Guai ai vinti di Matarazzo (1955), dove le protagoniste sono due vittime della crudeltà della guerra, violentate dai soldati tedeschi e poi costrette ad affrontare la vergogna e l’incomprensione a causa della conseguente gravidanza indesiderata[x].  

Finire così

       I romanzi e i film ci raccontano la storia di un annientamento: una generazione che “venne distrutta dalla guerra”. Le immagini tuttavia rimangono e ci invitano a guardarle. In questi mesi di commemorazioni si moltiplicano le iniziative e le occasioni per recuperare qualche film meno noto e rivederne altri. Sia in Italia sia altrove sono stati realizzati anche nuovi documentari che recuperano la memoria dell’evento attraverso materiali d’archivio e resoconti storici. Dal lavoro di Paolo Rumiz, notevole per come è articolato e per validità dei contenuti ad alcuni documentari di produzione indipendente, basati su tesi storiografiche originali, come Blood and Oil. Middle East in World War I di Marty Callaghan (2006) che individua un incessante filo rosso tra la Grande Guerra e le guerre contemporanee nel Medio Oriente. In rete è inoltre possibile consultare materiali e approfondire l’analisi delle cinematografie meno note e dei filmati d’epoca attraverso siti che aggregano contenuti di archivi storici e cineteche come il portale European Film Gateway[xi].
       Questo lungo discorso cinematografico sulla Grande Guerra non si può concludere qui. Per ragioni di stampa, usciamo senza aver potuto ancora vedere il nuovo film di Olmi, Torneranno i prati, dedicato alla Prima Guerra Mondiale e girato sull’altipiano di Asiago. Il film, che al momento in cui scriviamo non è stato ancora mostrato in nessuna anteprima, racconta la vita di trincea e si basa su fatti realmente accaduti. Apparentemente niente di nuovo, se non che da quei fatti sono passati, appunto, cento anni. 


NOTE

[i] André Bazin, Che cosa è il cinema?, Milano, Garzanti, 1986, p. 21.
[ii] “Lungi dal far fare alle scienze storiche un progresso verso l’oggettività, il cinema dà loro, per il suo stesso realismo, un potere d’illusione supplementare”. Ibid., p. 27.
[iii] Cfr. Alessandro Faccioli, Il cinema italiano e la Grande Guerra: rovine, eroi, fantasmi, in A. Faccioli, A. Scandola, A fuoco l’obiettivo! Il cinema e la fotografia raccontano la Grande Guerra, Bologna, Persiani, 2014, p. 19.
[iv] M. Veronesi, Una donna vuol “rifare il mondo”. Umanità di Elvira Giallanella, in M. Dall’Asta (a cura di), Non solo dive. Pioniere del cinema italiano, Cineteca di Bologna, 2008; M. Veronesi, Uno sguardo femminile sulla Grande Guerra, in Laura Guidi, Maria Rosaria Pellizzari (a cura di), Nuove frontiere per la Storia di genere, vol. III, Università di Salerno e Libreriauniversitaria, 2013.
[v] Antonia S. Byatt, Il libro dei bambini, Torino, Einaudi, 2010, p. 681.
[vi] G. Alonge, Cinema e guerra, Torino, Utet, 2001, p. 4.
[vii] Ringrazio qui Fabio Scibetta che mi ha fatto conoscere la prima opera e mi ha aiutata a entrare nei nei dettagli della seconda.
[viii] G. Alonge, op. cit., p. 43.
[ix] Ibid., p. 4.
[x] Tratto da un testo di Annie Vivanti: scritto per il teatro nel 1915 e poi divenuto romanzo nel 1917. Su Guai ai vinti si consiglia il saggio di Lucia Cardone,“Guai ai vinti” e la disfatta del corpo materno, in “Bianco e Nero”, n. 574, 2012, pp. 35-47.
[xi] Il sito del progetto, al quale collaborano anche le principali cineteche italiane è http://www.europeanfilmgateway.eu/it

 

  


 

SegnoSpeciale n. 189

TUTTI I FILM DELL'ANNO 2013-2014

Leggi il pdf

Che strano chiamarsi Federico

 

 

 

SegnoSpeciale n. 188

Il mondo di Arthur Newmann di Dante Ariola

IO NON LO CONOSCEVO BENE. Viaggio nel cinema ignorato d'oggi
a cura di Roy Menarini   

       Nell’epoca dello streaming e della cinefilia 2.0, del peer-to-peer e degli archivi multimediali, della post-ideologia del gusto cinematografico, del trionfo delle nicchie, esiste ancora un cinema anestetico? Un cinema che non valga la pena giudicare o che i critici non pensano di dover giudicare? Un cinema medio e dunque indifferenziato al punto di finire nel punto cieco del sistema a strati di oggi? Né mainstream, né autoriale, né pop né glocal, né blockbuster né d’essai, né da multiplex né da saletta urbana, né indipendente né underground, non indirizzabile in alcuna traiettoria sensibile dei discorsi intorno al cinema? Qual è oggi il cinema negletto, il cinema di cui non si parla, che si libera di ogni mediazione per rispondere solo a un rapporto distribuzione/esercizio? In un’epoca che - prima grazie alla spinta delle rivalutazioni cultuali e poi con il web - sembra aver riscattato il cinema delegittimato culturalmente, oggi tocca a nuovi prodotti finire nell’indistinto e nell’ignorato.

       È da queste domande, tuttora inevase, che siamo partiti per costruire questo Speciale. In effetti, sebbene non manchino luoghi del mondo i cui film - a dispetto della retorica globalista - non conosciamo affatto (il celebre caso di Nollywood, industria nigeriana), era ad altro approdo che volevamo giungere. Ci sembra molto più interessante - almeno su queste pagine - lavorare sugli anfratti dell’immaginario, sulle squadre-materasso del campionato cinematografico, sulle zone morte del palinsesto o dell’agenda cultura dell’appassionato di film piuttosto che imbastire il pur degno lavoro sul cinema sconosciuto. 

Il grande lago del cinema "medio"

       Curiosamente (o forse nemmeno tanto), i film di cui poco o niente si parla sono i film “medi”. Anche se talvolta la critica richiama i bei tempi del “cinema medio”, poi difficilmente è disposta a sancirlo, e anzi tende a negare questo statuto proprio alle pellicole, ad es. in Italia, che sono “medie” a tutti gli effetti. Solo quest’anno Fuga di cervelli, Smetto quando voglio, Tutta colpa di Freud, e così via sono apparsi esempi di questo tipo, posizionandosi peraltro in una fascia d'incasso molto brillante, a metà tra il film d’autore e il grande incasso. Ma, ancor più, si sta facendo strada una produzione americana e internazionale su cui è difficile raccogliere altro che recensioni di massima, e quasi mai suscitano l’attenzione degli spettatori che si esprimono su social network, o danno vita ad accese discussioni sui forum.

       Film innocui? Privi di discorsività? Esempi recenti: Il violinista del diavolo, Storia d’inverno, Alla ricerca di Jane, Questione di tempo, Disconnect, Snitch, Una fragile armonia, Il mondo di Arthur Newman... Sono tantissimi, e spesso vengono rubricati come riempi-listino. I dizionari, gli annuari, le enciclopedie et similia devono forzatamente valutarli e collocarli in un ambito di consumo condiviso, così come in futuro le guide sempre più affollate ai film in Tv dovranno poi attribuire pallini e stellette. Tuttavia, non fanno parte di una dimensione comune, sfuggono alle tendenze, sono unici, spesso "senza autore”, vivono l’anonimato della sala 8 o 9 di un multiplex al pomeriggio, il sapore strano del pubblico sparuto e poco identificabile, segmenti incerti dei generi d’antan e mass market della profilatura spettatoriale (cinema d’azione per maschi, cinema sentimentale per amiche, cinema giallo per anziani, ma sarà ancora vero?).

       Se questo è l’unico cinema ancora “senza discorso”, o quanto meno grigio quel tanto che basta per non generare un rilievo estetico, una presa di posizione critica, l’inserimento in un sentimento produttivo, esistono però altri prodotti che in questa era dell’abbondanza appaiono anch’essi esempi acefali d'indistinzione critica. Il discorso, infatti, si potrebbe poi allargare ai prodotti di animazione e per famiglie. Se si fa eccezione per i titoli più gettonati, che provengono dalla Pixar, dalla DreamWorks o dalla Universal, chi segue ormai tutto il pulviscolo di film che escono ogni settimana, e che spesso si accontentano di stare sotto al milione di euro di incasso, dalla Scuola più pazza del mondo ad African Safari, da Free Birds a Titeuf e così via?

       Inoltre, segno di ribaltamento di gusto, proprio il cinema scorretto e negletto di un tempo, diventa oggi cinema ignorato una volta che è entrato nella legittimazione critica. Judd Apatow ha conquistato i recensori, ma in Italia è finito nel cono d’ombra. Ed è nota la fatica che fanno, anche solo ad essere distribuiti, i film con Seth Rogen, Jonah Hill, Melissa McCarthy, o quelli del gruppo storico di Adam Sandler, Chris Rock e così via: una lontananza culturale che ha a che fare anche con la sovrabbondanza ormai esorbitante del vedibile, con la cultura YouTube della cultura americana sottotitolata (il caso Louis C.K., star sul web), con la saturazione del gusto. 

Il grande mare della multiprogrammazione

       Per comodità, elenchiamo gli altri soliti ignoti del gusto all’epoca della multiprogrammazione:

  • Il cinema per famiglie, sottoprodotto per eccellenza, che occupa zone ampie dei palinsesti satellitari, e viene distribuito a fatica, senza vera e propria soluzione di continuità tra sala e home: film con animali domestici, film su vacanze in famiglia, film su imprese sportive infantili, e così via.
  • Molto interesse può suscitare anche il cinema medio europeo: da Dany Boon a John Madden, da Philippe Le Guay a Sandra Nettelbeck, i prodotti da esportazione interni all’Unione Europea sono più disponibili alla valutazione estetica, non fosse altro che per l’area midcult che intendono ricoprire. In questo caso, non esiste un discorso critico che li inquadri tutti insieme, all’interno di un’analisi del prodotto medio europeo in grado di esplorarne caratteristiche comuni e coerenza comunicativa.
  • Il para-cinema. Si tratta in questo caso del vero e proprio buco nero della programmazione contemporanea, che si svolge nel totale silenzio degli organi critici, persino in anni - questi - dove su web si recensisce praticamente tutto. Pensiamo a concerti, balletti, documentari, musica live e così via, ma anche il teatro inglese con sottotitoli, film come Justin Bieber, Imagine - Una vita al limite, McConkey, Amazzonia 3D , media event come quelli su Violetta o Peppa Pig, e molto altro ancora.
  • Che cosa succede fuori dalle sale? Si è parlato in questi anni di tramonto dell’inedito a noleggio, inteso come straight-to-video. E in effetti stiamo attraversando un periodo di riassetto del consumo casalingo dove convivono l’ultima coda del videonoleggio (le riconversioni di negozi precedentemente appartenenti alla catena Blockbuster, per esempio), l’esplosione del digitale terrestre con acquisto di film non usciti in sala, ovviamente la pay Tv, lo streaming con i suoi inediti spesso indecifrabili, e così via. Il plateau di prodotti che potremmo definire straight-home è comunque molto ampio, e tutto questo al di là della brillante situazione del collezionismo Dvd e Blu-Ray (almeno per la storia del cinema).

       Quest’ultimo universo pare particolarmente poroso, e tuttavia difficile da colmare persino per le redazioni e i recensori. Che film sono Horse Boy di Michael O. Scott (2009), The Whistleblower di Larysa Kondracki (2011), Erwin Wurm di Laurin Merz (2012), My Name is Janez Jansa di Janez Jansa, Davide Grassi, Ziga (2012), The Robber di Benjamin Heisenberg (2010), Il mondo di Mad di Anna Di Francisca, Zoltan Horvat (2012), Botte di fortuna di Ramaa Mosley (2012), solo per fare un esempio dalle offerte dello streaming di MyMovies Live? O Body Killer di Lee Demarbre, The Assassination - Al centro del complotto di Brett Simon, La battaglia dei dannati di Christopher Hatton, Midnight Chronicles di Christian T. Petersen, The Deadly Game di George Isaac, A.C.O.D. di Stu Zichermann, per citare alla rinfusa gli straigh-to-video di questi mesi? O L’assassina dagli occhi blu di Stepehn Kay (2012), La rivincita di Klara di A. Moberg (2010), Mandie e il tunnel segreto di Joy Chapman e Owen Smith (2009), Lou di Belinda Chayko (2010), Indovina perché ti odio di Sean Anders (2012), per pescare dalla programmazione dei canali cinema di Sky mentre scriviamo queste righe? 

 

 

 

SegnoSpeciale n. 187

Trois places pour le 26 di Jacques Demy

L’AUTORE ALLO SPECCHIO. Percorsi nel cinema autobiografico
a cura di Valerio Carando 

        L’autobiografismo rappresenta senz’altro un tratto distintivo del cinema moderno: in tale contesto il gesto autoriale si nutre di costanti rinvii, più o meno mascherati, alle inquietudini culturali del cineasta, ai suoi ricordi personali, alle sue ossessioni iconiche, ibridando (secondo occasione e occorrenza) realtà e finzione, pubblico e privato, storia collettiva e storie individuali. La Nouvelle Vague, seguita a ruota dalle principali cinematografie dei '60 e '70, ha contribuito a legittimare un tòpos che ancora oggi nutre e attesta il concetto di autorialità. Quella di autobiografia è una nozione allargata, in direzione della quale convergono i caratteri e le sensibilità più eterogenee: da Vadim/Godard/Bertolucci, le cui inconfondibili silhouette si riverberano sui corpi delle rispettive compagne/dive (Brigitte Bardot, Anna Karina, Adriana Asti), a Wenders/Allen/Moretti, che violano le tradizionali gerarchie penetrando concretamente lo spazio dell’inquadratura, passando per i rapsodi del "tempo perduto" (il Truffaut di Les quatre cents coups, l’Eustache di Mes petites amoureuses, il Fellini di Amarcord, il Demy di Trois places pour le 26), i poeti maledetti (Genet, Pasolini, Garrel, Fassbinder, Collard, Delbono), i teorici dell’immaginario (Melville, Leone, Tarantino).

        I saggi raccolti all’interno di questo Speciale - che naturalmente punta ad alimentare la questione senza agognare un’improbabile esaustività - si approssimano con brillante competenza a tale fenomeno, contenendo la riflessione, almeno in larga parte, nei confini del vecchio continente. L’intento è quello di sviscerare l’autobiografismo in quanto marca stilistica concreta e pregnante: Alessandro Baratti e Giulio Sangiorgio tracciano un itinerario alternativo nella storia del cinema francese, lavorando sull’idea secondo cui è impossibile far rivivere l’esperienza passata se non in forme scopertamente fittizie (ogni intento di rievocazione è fondamentalmente un inno alla morte); Roberto Chiesi focalizza l’attenzione su alcuni cruciali momenti nell’opera di Fellini e Pasolini; Toni D’Angela, infine, prende le mosse dal dittico wendersiano Nick’s Movie/Tokyo-Ga per dischiudere un duplice varco, geografico e analitico, in direzione di Stati Uniti ed estremo oriente.

        L’esigenza di trarre bilanci, mettersi in gioco (e quindi in scena), meditare sul vissuto individuale e sulla memoria implicita (prendendo coscienza della propria - ma anche dell’altrui - finitezza), viene esplicitamente rilanciata, si è detto, dalle nuove cinematografie degli anni Sessanta. È tuttavia innegabile che tale tendenza abbia iniziato a prendere forma prima del 1959 (anno d’esordio di Truffaut con Les quatre cents coups) nell’ambito di filmografie tradizionalmente poco frequentate, quando non colpevolmente rimosse, dalla storiografia istituzionale. Marcel Pagnol, ad esempio, è stato un sottile precursore del cinema autobiografico (si pensi all’entità dello sguardo che questi getta sul microcosmo marsigliese nel “trittico di Fanny”), così come, a suo modo, Jean-Pierre Melville (il più contraddittorio fra i padri spirituali dei jeunes turcs, che a partire da Bob le flambeur avvia una labirintica e complessa rivisitazione, in chiave rigorosamente metacritica, della propria storia spettatoriale).

        Per non parlare del catalano Llorenç Llobet-Gràcia, filmmaker sopraffino, riscoperto in patria agli inizi degli anni Ottanta grazie al provvidenziale intervento dello storico Ferran Alberich e da noi tuttora pacificamente ignorato. A suggello della presente introduzione è proprio a Vida en sombras (1948) di Llobet-Gràcia[i] che vogliamo dedicare un breve approfondimento. Il cinema d’autore europeo, del resto, non può non rintracciare in questo piccolo film uno dei suoi più complessi e rivoluzionari prototipi. 


NOTE

[i] Il film è stato omaggiato nell’ambito della rassegna bolognese “Il Cinema Ritrovato” (2003) e a Venezia 2008. Ciò nonostante, il suo passaggio in Italia non pare aver stimolato particolari dibattiti.   

 

 

 

SegnoSpeciale n. 186

Shining di Stanley Kubrick

ESTETICA DELLA FABULA. La narrazione filmica tra forma e contenuto  
a cura di Luca Bandirali  

        La narrazione, in un film, fa parte della forma o del contenuto? Si può dire che una storia sia bella, non nel senso di "gradita", ma proprio come di un dato esteticamente rilevante? E la posizione subordinata della storia è dovuta alla sua "funzionalità"?

        Ad ogni classe di opere d'arte corrisponde uno specifico atto di fruizione che le "attiva", le mette in funzione d'uso in quanto opere: un quadro si guarda, un brano musicale si ascolta, un film si guarda e si ascolta. Nel visivo (la cosiddetta immagine in movimento) c'è il tratto distintivo del cinema, pertanto su questo tratto distintivo si è costruita la sua estetica. Con due operazioni correlate: la subordinazione del campo sonoro e la rimozione del campo narrativo. Di questa rimozione abbiamo chiesto conto agli autori di questo Speciale, certi che si possa fare qualche passo avanti dall'attuale esilità metodologica nella direzione di una maggiore consapevolezza teorica.

        Si parte dal riconoscimento del racconto come elemento strutturale, non pretestuoso, del film e si procede verso un concetto estetico di narrazione filmica; in questo senso il saggio di Marcello Walter Bruno ci porta all'interno dei procedimenti di valutazione di un'architettura narrativa (soffermandosi anche su un interessante caso di studio, il recente Il capitale umano di Paolo Virzì), con la preziosa avvertenza che gli strumenti di analisi vanno aggiornati a ogni turning point della storia della narrazione per immagini, per cui la serialità non può essere affrontata con i criteri del cinema classico.         

        La tesi di Flavio De Bernardins, anch'essa legata allo sviluppo diacronico del linguaggio cinematografico, è che l'attuale centralità della sceneggiatura nel processo realizzativo dei film abbia rovesciato il paradigma del cinema come opera il cui senso più profondo si determina sul set. Infine presentiamo un caso di "critica drammaturgica" di Blue Jasmine di Woody Allen, analizzato e valutato da Ilaria Franciotti sulla base di uno schema abbastanza nuovo, quello del "viaggio dell'eroina" di Maureen Murdock che aggiorna il modello maschile fissato nel secolo scorso da Joseph Campbell. 

 

 

 

SegnoSpeciale n. 185

A.I. - Intelligenza artificiale di Steven Spielberg

IL CINEMA FINISCE QUI? Il dispositivo filmico al tempo del digitale
a cura di Mario Calderale   

        Dal 2014, in tutta Europa, i film saranno distribuiti nelle sale esclusivamente in digitale. Bye bye pellicola. “Film” è ormai una parola che non corrisponde più alla sua etimologia. Il cinema cambia ufficialmente formato. Ma a cambiare è solo il formato di distribuzione dei film oppure l’identità del cinema stesso? "Segnocinema" affronta questo interrogativo con uno Speciale che si apre con un saggio a quattro mani di André Gaudreault e Philippe Marion sulla digitalizzazione dei film. I due studiosi presentano l’avvento del digitale come una vera e propria rivoluzione che produce un cambiamento radicale non solo nella storia ma anche nella natura del cinema.

        Nella seconda parte dello Speciale, le tesi di Gaudreault e Marion sono discusse dai redattori di "Segnocinema" Andrea Bellavita, Flavio De Bernardinis ed Enrico Terrone. Bellavita riconduce la rivoluzione digitale a un “cambio di paradigma”, e analizza tre paradossi che ne scaturiscono. De Bernardinis concepisce il digitale come una “figura dell'immaginario”, che porta in sé qualcosa di angosciante: “il sentimento della fine del cinema, e della fine del mondo di cui il cinema è stato testimone diretto”. Terrone mette in dubbio che il passaggio del cinema dall’analogico al digitale sia davvero una rivoluzione sconvolgente, sostenendo che si tratta piuttosto di un “cambiamento continuo e graduale”.

        Che si tratti o non si tratti di vera rivoluzione, il digitale resta comunque un aspetto cruciale del cinema contemporaneo. Ispirandosi al quadro “Angelus Novus” di Paul Klee, Walter Benjamin scriveva che l’angelo della storia ha il viso rivolto al passato, ma una tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro. Questo vale anche per il cinema, e vale anche per una rivista come "Segnocinema" che cerca di comprendere il cinema in presa diretta, nel suo divenire storico. 

 

 

 

SegnoSpeciale n. 184

Springsteen & I di Baillie Walsh

BORN IN THE USA. La popular music nel cinema americano  
a cura di Luca Bandirali         

        L'intersezione fra vari generi della popular music e il cinema negli Usa è il tema di questo Speciale certamente molto "orecchiabile", ma anche molto visivo, proprio per il carattere peculiare dell'iconografia musicale statunitense e per la centralità della popular music nel sistema culturale di quel Paese, tale da costituire una relativa mitografia. A questa mitografia il cinema si è letteralmente abbeverato, sia nell'ambito del lungometraggio di finzione, con una quantità di film tratti direttamente dalle storie dei musicisti (i biopic, da Elvis a Bird), o ad esse ispirato (da Honkytonk Man a Quasi famosi); sia nell'ambito del documentario, che ha trovato un filone inesauribile, il rockumentary in tutte le sue ramificazioni: difficile immaginare qualcosa di più icasticamente americano di Woodstock. In questa direzione, facendosi "spettacolo di spettacolo", spesso il cinema ha amplificato, esteso, e talvolta persino superato l'evento musicale stesso: come ricordano Bordwell e Thompson nella loro Storia del cinema e dei film, "nel periodo in cui Jonathan Demme realizzò Stop Making Sense, il concerto era diventato un evento secondario rispetto al film che ne derivava."

        Oltre alle storie da raccontare e alle immagini da mostrare, il cinema americano ha trovato nell'ambiente musicale pop delle straordinarie professionalità: per esempio attori di valore assoluto come Frank Sinatra e Will Smith, ma anche registi "in trasferta" come Bob Dylan e Frank Zappa, o in servizio permanente come Rob Zombie; e soprattutto compositori di musica per film (da Randy Newman a Cliff Martinez) che sono stati puntualmente molto più originali e innovativi rispetto ai colleghi di estrazione eurocolta.

        C'è poi un particolare tipo di compositore di cui ci occupiamo in questo Speciale, il songwriter che entra nel processo di significazione del film, contribuendo all'intenzione tematica e allo sviluppo narrativo, sia nel caso che la sua opera preesista al film (il cinema americano in tal senso è un jukebox che non si spegne mai, da Easy Rider a Spring Breakers), sia nel caso in cui la canzone sia scritta appositamente per la storia sullo schermo: basti pensare a un classico come Mrs. Robinson di Simon & Garfunkel per Il laureato, o alle canzoni di Eddie Vedder che punteggiano il campo sonoro di Into the Wild. L'idea è che si possa osservare una cinematografia a partire dalle sue componenti culturali più profonde, per comprenderla meglio, e apprezzarla ancora più intensamente: buona visione, e buon ascolto. 

 



 

SegnoSpeciale n. 183

La migliore offerta di Giuseppe Tornatore

TUTTI I FILM DELL'ANNO 2012-13

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SegnoSpeciale n. 182

Le grand bleu di Luc Besson

FIGURE DELL'ACQUA. Viaggio immersivo nella superficie profonda del cinema
a cura di Adriano D'Aloia

        Nella primavera del 1997 usciva su questa rivista (il n. 84) uno Speciale a cura di Nicola Dusi sulle Figure del Fuoco. A oltre quindici anni di distanza ecco il secondo capitolo di quella che ora potrebbe diventare una serie sugli elementi naturali e il cinema: le Figure dell’Acqua. Come allora, anche oggi l’ispirazione proviene dalla suggestione dell’opera del filosofo francese Gaston Bachelard, che proprio ai quattro elementi ha dedicato i suoi studi sulla rêverie e la letteratura: un sogno a occhi aperti nelle forme e nei simboli dell’immaginazione poetica. Nella sua Psicanalisi delle acque (1942) Bachelard ha già segnalato la molteplicità dei significati e degli usi dell’acqua a cui attinge la letteratura. La poesia per prima ha scaturito dal sogno acque tanto placide e trasparenti quanto torbide e tumultuose, così che l’acqua è simbolo di bellezza e generatrice di vita almeno quanto sostanza fatale e gorgo mortale.

        Nell’immaginazione cinematografica la relazione con le immagini, i suoni e l’acqua è persino più intima e di reciproca e profonda implicazione: una relazione simbiotica e osmotica, perché lo scorrere delle immagini sulla superficie dello schermo e il propagarsi dei suoni nella profondità dello spazio sono eventi dalle proprietà intrinsecamente acquatiche. A cavallo fra metafore del linguaggio e materialità dell’esperienza, il rapporto simbiotico fra cinema e acqua si realizza quando l’estetica del film cerca di offrire allo spettatore un’esperienza immersiva, di totale avvolgimento e coinvolgimento. Se a livello basilare il film offre una tempesta di stimoli e un bagno di sensazioni, sul piano percettivo è un inarrestabile flusso di immagini e suoni, e così a livello affettivo è un’inesauribile sorgente di emozioni, sino a divenire, a un piano più elevato, una riflessione sulla natura e sulla vita umana.

        L’immersività è divenuta oggi un tratto distintivo dell’esperienza filmica, obbligata a ricorrere a soluzioni intensificate per fronteggiare il processo di frammentazione e dislocazione delle occasioni di fruizione filmica all’esterno della sala (nel salotto di casa, nei luoghi di transito e sui mezzi di trasporto, sul computer di casa o in movimento, persino ormai sui tablet e gli smartphone). Il cinema così come lo conoscevamo prima della digitalizzazione e della convergenza ha reagito a questa nuova insidia intensificando la propria proposta di coinvolgimento, ridefinendo al rialzo i propri effetti speciali e puntando dunque ancor più su un’esperienza in grado di dare allo spettatore l’impressione di essere assorbito dallo spazio della rappresentazione e immerso nelle immagini e nei suoni.

Etoil de mer di Man Ray

Annegamenti (e riemersioni)

        Ciò che gli articoli dello Speciale vogliono mostrare è che questo assorbimento e questa immersività non rimangono un progetto metaforico, ma si concretizzano sfruttando appieno ed esplicitamente le potenzialità estetiche e drammaturgiche dell’acqua. È interessante notare per esempio come il cinema contemporaneo usi spesso l’ambiente acquatico - oceani, fiumi, piscine - come scenografia e location. Anche se dobbiamo dire subito che l’acqua non è affatto solo l’ambiente fisico in cui agiscono (e sono costretti a lottare) i personaggi, ma anche un modo per dare consistenza visiva e auditiva ai sogni e ai desideri più reconditi: l’acqua è una sostanza che annega e riporta a galla. Nel finale di The Hours (Stephen Daldry, 2004), per esempio, Virginia Woolf riempie le proprie tasche di sassi e si lascia affogare nel fiume. In The Truman Show (Peter Weir, 1998), per evitare che Truman scopra l’inganno del reality show, la produzione instilla in lui la paura dell’acqua (suo padre era morto annegato durante una gita in barca). La separazione del figlio dal padre è rappresentata nelle sporche acque delle fogne in Ratatouille (Brad Bird, 2007), o in una piscina pubblica in Minority Report (Steven Spielberg, 2002). Nello stesso film l’acqua è un motivo ricorrente - vi sono immersi, come in un liquido amniotico, i “precogs”. E in piscina emerge definitivamente il dramma del “mecha” David in A. I. - Intelligenza artificiale (Steven Spielberg, 2001).

        In Ray (Taylor Hackford, 2004) l’acqua compare nelle allucinazioni e negli incubi legati al trauma dell’annegamento del fratello bambino del protagonista. Ancora, in Titanic (James Cameron, 1997) Jack Dawson, assiderato, viene inghiottito nell’acqua ghiacciata dell’Atlantico. In The Prestige (Christopher Nolan, 2006) i cloni di Robert Angier vengono annegati dopo ogni telecinesi. Ne Le verità nascoste (Robert Zemeckis, 2000) l’acqua nasconde e riporta a galla le tracce del crimine e la paura. La paura corre sul fiume in Cape Fear (Martin Scorsese, 1991), Il fiume della paura (Curtis Hanson, 1994), o Insomnia (Christopher Nolan, 2002). L’acqua divora l’umano in film sci-fi come Sphere (Barry Levinson, 1998) o in film catastrofici come Deep Impact (Mimi Leder, 1998), La tempesta perfetta (Wolfgang Petersen, 2000) e 2012 (Roland Emmerich, 2009). L’acqua isola l’uomo come in Cast Away (Robert Zemeckis, 2000) o ancora in The Truman Show. Genera nuovi Ulisse, nuove sirene, nuovi Giona e nuovi Noé, come in Waterworld (Kevin Reynolds, USA, 1995), o è nascondiglio e dimora di creature misteriose come in Lady in the Water (M. Night Shyamalan, 2006) e Big Fish (Tim Burton, 2003).

        Gli esempi potrebbero continuare a centinaia, a riprova che l’acqua è un elemento dall’efficace finzionalità scenografica e drammaturgica, in modo particolare quando si tratta di dare concreta rappresentazione all’inconscio e al trauma, al nascondimento e alla rivelazione, alla purificazione dal peccato e alla sua riemersione. L’acqua del resto è portatrice di un’imponente simbologia. Fin dall’antichità rappresenta la “grande madre”, l’origine di ogni principio vitale (Talete), ed è strettamente legata all’atto della visione (Aristotele). Le figure di Poseidone/Nettuno, Afrodite/Venere, Narciso e Ulisse testimoniano il suo ruolo cruciale nella mitologia greca e nella tradizione latina. Sino alla fortissima valenza mistica che l’acqua assume nella liturgia ebraica e cristiana come mezzo di purificazione e rinascita.

        Per venire alla contemporaneità e all’inconscio, nella psicoanalisi freudiana la presenza dell’acqua nei sogni è un rimando alla condizione pre-uterina e al momento della nascita, oltre a costituire, nel suo movimento e nei suoi riflessi, un motivo di distorsione delle immagini e dunque della realtà. Per Carl Jung la presenza dell’acqua - del mare in particolare - nel sogno è il simbolo stesso dell’inconscio. Questa simbologia si dispiega ogni qual volta l’acqua appare sullo schermo: è proiezione esteriore e percepibile di una condizione interiore, o persino una sostanza in cui lo spazio della rappresentazione e lo spazio mentale si mischiano fra loro.

The Truman Show di Peter Weir

Immersioni (e riemersioni)

        Nel suo essere sostanza scenografica, propellente drammaturgico e rimando simbolico, l’acqua nel cinema è anche uno strumento chiave nella costituzione di un’esperienza immersiva. A essere bagnato, trasportato, trascinato, inondato, annegato non è solo il personaggio, ma anche lo spettatore, soggetto di un’esperienza liquida. Se volessimo risalire la corrente sino alle sorgenti, diremmo che l’avvio del progetto d'immersione dello spettatore corrisponde alle origini stesse del cinematografo, quando il moto dei corsi d’acqua - penso alle vedute degli operatori lumièriani - era usato come mezzo di movimentazione della macchina da presa per produrre quelle che poi avremmo chiamato carrellate. Ma già in origine il cinema mirava sia a offrire allo spettatore la fluida resa della realtà, sia a stupirlo colpendo i suoi sensi. Realismo e attrazione seguono da sempre lo stesso corso d’acqua.

        Le onde spumose del mare sono un elemento rilevante nei primi film britannici, come Rough Sea at Dover (Birt Acres, 1895), Dover Pier in a Storm (Cecil M. Hepworth, 1900) e Breaking Waves (Cecil M. Hepworth, 1900). Guardando American Falls from Above, American side (Thomas Edison, 1896), allo spettatore pare di percepire il fragore delle cascate anche se l’inquadratura è una, statica, muta. In Panorama of Gorge Railway (Thomas Edison, 1900) il flusso impetuoso di un fiume è combinato con il movimento della macchina da presa, posizionata sulla locomotiva di un treno, in direzione opposta. Il conflitto fra il moto dell’acqua, quello della macchina da presa e la massa di spruzzi e di schiuma che giungono quasi a bagnare l’obiettivo enfatizza l’impressione del movimento.

        E poi corpi in acqua. Nel cartellone dei dieci film della mitica serata alla Salon indien du Grand Café di Parigi, il 28 dicembre 1895, compare anche La mer dei fratelli Lumière, quaranta secondi di tuffi in mare. L’anno successivo allo stesso Cafè viene proiettato anche I bagni di Diana, film italiano girato a Milano dall’operatore Lumière Giuseppe Filippi, in cui i tuffi stavolta sono in piscina. In Sutro Baths, Sutro Baths, No. 1 e Lurline Baths (Thomas Edison, 1897), serie di cortometraggi girati in due piscine di San Francisco, la discesa dei bagnanti dagli scivoli crea schizzi d’acqua nella direzione della macchina da presa. La natura meccanica della fluidità cinematografica emerge in Bathers (Cecil M. Hepworth, 1900), dove attraverso il reverse motion, i corpi umani si tuffano nell’acqua e ne fuoriescono.

        Lungo l’evoluzione del cinema l’acqua è divenuta ben più che mero mezzo di movimentazione, ambiente scenografico o espediente attrattivo, al punto da permeare lo stesso linguaggio delle immagini in movimento. Si pensi ai fluttuanti titoli d’apertura di Emak Bakia (Man Ray, 1926) o alle immagini dissolventi in Étoile de mer (Man Ray, 1928), per citare due esempi tratti dalla stagione delle Avanguardie. Ma saranno soprattutto agli autori francesi degli anni Venti e Trenta (L’Herbier, Epstein, Vigo) a fare ampio uso della ricchezza visiva e narrativa dell’acqua creando soluzioni stilistiche ispirate alle sue proprietà. Come ci spiega Deleuze ne L’immagine-movimento, il flou, la sovraimpressione, i filtri, il fuori-fuoco marcano «il passaggio da una meccanica di solidi a una meccanica di fluidi». Quelle tecniche primitive si sono evolute ma sono ancora le proprietà dell’acqua a descrivere meglio la qualità di mezzi moderni come la steadicam, che s'insinua nello spazio con fluidità, o certi burrascosi movimenti di macchina, fino alle sempre più frequenti riprese subacquee.

        Nella realizzazione di questo progetto hanno un ruolo essenziale non solo gli strumenti espressivi, estetici e drammaturgici, ma anche gli aspetti sonori e architettonici dell’esperienza filmica. Si pensi al ruolo chiave del suono nell’immersività: la natura delocalizzata della stimolazione e della percezione acustica ha fatto sì che si sviluppassero progressivamente soluzioni tecniche di registrazione e riproduzione del suono sempre più definite e distribuite nello spazio della sala cinematografica. Il suono di fatto circonda e immerge lo spettatore con un impatto determinante - persino più efficace dell’immagine - sul senso d’immersività. Anche gli spazi di visione, con progressivi mutamenti nell’architettura della sala e nella forma degli schermi (si pensi all’IMAX), tendono a trasformare lo spazio di visione in un ambiente sempre più immersivo. La sala a questo punto non è soltanto un meraviglioso acquario che chiede di essere contemplato dall’esterno, ma piuttosto un immenso oceano da esplorare, un fiume in piena da percorrere, una limpida baia in cui nuotare, una melmosa palude in cui essere inghiottiti, una minacciosa tempesta da attraversare, una cascata da cui tuffarsi, un gorgo di emozioni in cui essere risucchiati.

        Da sempre dunque il cinema usa l’acqua e le sue caratteristiche per suscitare determinati effetti sensibili sullo spettatore, cioè generare modalità di esperienza riconducibili non tanto alla contemplazione a distanza, quanto piuttosto al coinvolgimento diretto, immediato e intenso dei sensi e della mente. Pur con sfumature e intenti differenti, ciò è vero lungo tutto l’arco della storia del cinema e, trasversalmente, in tipologie diverse di film (dal documentario al film narrativo), nel cinema sperimentale come nel cinema mainstream, nel cinema-cinema come in tutte le esperienze più generalmente audiovisive, come la videoarte.

        Ecco allora che in un’epoca in cui la parola immersività sembra essere esclusivo appannaggio dell’intelligenza artificiale, dei nuovi media e degli ambienti virtuali - detti appunto “immersivi” poiché offrono all’utente sensazioni e possibilità d’azione e interazione simili a quelle della vita reale - l’immersività cinematografica può riemergere come un tratto caratteristico dell’esperienza filmica contemporanea e ritornare ad affermarne la centralità. Si tratti di cavalcare la cresta dell’onda o di inabissarsi nelle più cupe profondità del film.

 

 


 

SegnoSpeciale n. 181

Anna Karenina di Joe Wright (set)

TUTTO IN UNA SCENA. Di cosa parliamo quando ripensiamo ai film
a cura di Luca Bandirali

        La definizione di scena è il pendolo della teoria del cinema, oscillante fra spazialità e temporalità. La scena è spazialmente il luogo dell'azione, allo stesso modo che nel teatro. Ma la scena è anche, temporalmente, il segmento di racconto che contiene un'azione unitaria, che inizia e finisce - un evento. Tanto che in quel progetto del film da fare che è la sceneggiatura, la scena rappresenta proprio l'unità di misura, per cui misurando un film si può dire senz'altro che ha una durata di tot minuti, e che è composto da un certo quantitativo di scene (negli Usa dicono circa 70-100). Questa caratterizzazione sintagmatica è strutturale sia quando il film lo si scrive, pensandolo per scene; sia quando lo si guarda, perché la suddivisione in scene è piuttosto visibile; in rarissimi casi, nell'unità di luogo e di tempo (esempio classico è Nodo alla gola di Hitchcock), la suddivisione è irreperibile; in altri casi il cambio di scena è fortemente enfatizzato, come nel recente Anna Karenina di Joe Wright, richiamando un altro concetto importantissimo per il cinema, quello di messa in scena, che nell'accezione più stretta e teatrale racchiude il senso originario della regìa come gestione di ciò che è in scena (di questo parlano gli interventi di Enrico Terrone, Franco Marineo e Giancarlo Mancini), senza dimenticare che questa gestione ha un polo dialettico fortissimo, quello dell'attore (come ci dice Adelina Preziosi).

Revolutionary Road di Sam Mendes

        Quello che ci colpisce, a vari livelli, è che dopo oltre un secolo di storia, scena sia rimasta la parola-chiave del cinema; non soltanto per scriverlo o per vederlo, ma anche la password per accedere alla sua memoria. All'atto del ricordare ciò che si è visto, si è dedicato uno Speciale ("La memoria del film" a cura di Paolo Cherchi Usai, Segnocinema n. 76, 1995), di cui in fondo questo rappresenta uno spin off tematico: spettatori e critici, analisti e accademici, fanno riferimento nelle loro pratiche culturali ai film; ma ciò di cui hanno memoria è spesso costituito da una o più scene. Non tutte le scene sono uguali, certamente: c'è la scena di servizio e la scena-madre, c'è la scena finale, la scena d'amore, quella di sesso, la sparatoria, e chi più ne ha più ne metta (sulla scena di genere si sofferma l'intervento di Adriano De Grandis). Così come, consultando la manualistica per sceneggiatori, si scopre che le scene svolgono funzioni diverse: in particolare, ci sono scene topiche, che più di altre devono affermare il tema del film; a volte questo tema è proprio esposto dai personaggi (per esempio nella scena della morte simbolica del padrone in Novecento), altre volte è contenuto in un'azione (De Niro risparmia il cervo nel finale de Il cacciatore).

Il Cacciatore di Michael Cimino

Analizzare la scena

        Non tutte le scene sono uguali, appunto: ci sono le scene iniziali, la scena dell'incidente scatenante che mette in moto il racconto, le scene di svolta di solito a un terzo e a due terzi del film, le scene di servizio, la scena di crisi a metà, la scena del climax e ovviamente la scena finale (su cui si sofferma l'intervento di Micaela Veronesi). È indubbio che esistano film più costruiti sulla dimensione della scena lunga e articolata al suo interno (dall'ovvio Il Padrino fino a Revolutionary Roaddi Sam Mendes) e altri dal passo più svelto, con scene più brevi che contengono un'azione meno elaborata, come nel primo Woody Allen; ne deve tenere conto l'analisi del film, che è anche analisi di scena, come ci mostra Lorenza Di Francesco che si misura con un segmento di Amabili resti. La lente sulla scena ci restituisce un paesaggio impensabile, che somiglia tanto a quello più vasto dell'opera: anche la scena è spesso suddivisa in tre parti, come anche se la sua articolazione interna in beat, principio di azione e reazione (che ci spiega uno dei suoi teorici, Franco Fraternale) che è una delle molteplici figure della causalità.

        Analizzare la scena poi vuol dire anche ascoltarla, con strumenti nuovi che necessitano di una riflessione attenta e condivisa, come il campo sonoro; ma anche limitandosi allo strumento antico della memoria, è indiscutibile che molte scene (se ne trova qualche esempio celebre nell'intervento di Valerio Sbravatti e del sottoscritto) ce le ricordiamo come fossero oggetti sonori e risonanti, come quando Marlon Brando grida "Stella!" o quando Nureyev balla il "Bolero". Quando questi oggetti ci tornano in mente con forza irresistibile, quella di certi versi di certi gesti pittorici, ci rendiamo conto che il cinema è, in fondo, tutto in una scena.

Novecento di Bernardo Bertolucci 

 

  


 

SegnoSpeciale n. 180

Posti in piedi in Paradiso di Carlo Verdone

BELLO ADDORMENTATO. Processo alla macchina del cinema italiano
a cura di Flavio De Bernardinis        

Piccola premessa hollywoodiana

        Anche a Hollywood se ne accorgono: il cinema non è più fattore di traino per le persone in cerca di spettacolo. E il discorso cade subito sul rapporto fra la qualità del film e il suo sfruttamento commerciale. Michael Cieply, sul "New York Times", in prima pagina, alla fine del 2012, invocava la possibilità, smarrita, "che un film possa radicarsi nella consapevolezza storica e culturale del pubblico americano, così come avvenne con Via col vento e Il padrino". Persino Hollywood, la Mecca del cinema, il luogo infame dove regna il denaro, pone il problema della "consapevolezza storico-culturale" del pubblico.

        Cosa accade in Italia? Che la coscienza storica e culturale del pubblico, con il consenso di tutti, è stata affidata alla Televisione. La Tv esercita un discorso i cui effetti sono potenti. Il più importante è l'effetto della complicità. Di fronte all'estenuante tele talk show 24 ore su 24, gli ospiti in studio o altrove, lo spettatore deve scegliere di chi essere complice. Con chi accordarsi. E basta. Senza scoprire un lato inedito delle cose, sorprendersi di una prospettiva inaspettata, ribaltare un punto di vista assodato. 

La resa incondizionata

        Al cinema, invece, non è richiesta alcuna complicità. Al cinema, si prova a scandagliare l'imprevedibile terreno del reale, tentare la scoperta di un'invisibile falda di significato, fiutare una sorgente inaspettata di senso. Ma la cultura televisiva ha disabituato a simili entusiasmi. Tanto che il cinema si è arreso. Senza condizioni. Gli effetti della resa? Detto in rapida sintesi, il cinema ha accettato di raccontare quel mondo la cui formulazione linguistica avviene altrove. Questo è il problema. Il cinema italiano ha smesso di scrivere la realtà. Cessando di scrivere la realtà, si è fatto scappare il mondo. Ridotto a ripetere una realtà già scritta, si è fatto sfuggire il linguaggio.

        Il cinema italiano, allora, non scrive. Ri-scrive. Un linguaggio elaborato altrove. Un mondo narrato altrove. 

La linea generale

        L'eredità del neorealismo potrebbe aiutare. Il neorealismo, in fondo, è stata una stupefacente iconoclastia. Una liquidazione, uno scrollo, una dismissione di immagini e immaginette confezionate negli anni. Il cinema italiano nemmeno ci prova. Insegue cose, figure e discorsi confezionati in altre sedi. Lo ripeto. Il cinema italiano non scrive. Ri-scrive. Il pubblico, certamente, si allinea. Educato alla Tv, il pubblico non legge. Ri-legge. Perde il contatto con il cinema. Riconosce un linguaggio e un mondo la cui formulazione linguistica è già avvenuta altrove. E in tal modo si rassicura. E piano piano si sfila, diserta le sale, rientra in quell'altrove da cui tutto proviene. Questa è la linea generale.

        Per finire, scendiamo nel particolare. Non mancano eccezioni. Non mancano gli iconoclasti. Che evidentemente m'interessano molto. Tre esempi, soltanto. Anzi, due. Perché di Giuseppe Tornatore, e de La migliore offerta, parlo in altra sezione, la sezione SegnoFilm. 

La strega

        Il primo esempio è Bella addormentata di Marco Bellocchio. La figura di Eluana Englaro. L'iniziale e l'ultima inquadratura del film, entrambe, sul primo piano di Maya Sansa. Che è Eluana. Quando le campane annunciano la morte della ragazza attaccata alle macchine, lo sguardo di Maya Sansa apre gli occhi. Eluana è viva. Eluana è un'entità fisica che attraversa i corpi. Questa è l'iconoclastia. Le immagini cambiano. La sensualità continua. Come già accaduto con il personaggio di Maruschka Detmers in Diavolo in corpo, Eluana è una strega. Che sconvolge l'equilibrio strategico degli italiani, persone comuni e uomini politici.

        Eluana non è figura formulata linguisticamente altrove, che il cinema giudiziosamente ri-scrive. Strega, Eluana è l'Altrove. Eluana è linguaggio, il grado zero della scrittura, il cui sguardo non si può evitare o distogliere. Eluana è mondo, il grado zero del reale, qualcosa che l'inconscio collettivo degli italiani deve scegliere se affrontare o esorcizzare.

Bella Addormentata di Marco Bellocchio

Il santo

        Non lo ha detto la critica, non l'ho scritto personalmente. Lo dice un regista, Marco Risi, in questo stesso Speciale: il protagonista di Reality, il mio secondo esempio, è un santo. È vero. La Via Crucis al Colosseo. Rito sacro, ma piombato d'indifferenza. Tutti guardano, nessuno vede. Luciano si sfila, indisturbato. Scende giù per una ripida, scoscesa struttura, come Dante e Virgilio, in groppa a Gerione, picchiano negli abissi di Malebolge. Arriva così nel luogo infame del reality. I protagonisti del Grande Fratello, pur non guardando in direzione del protagonista, tuttavia sembrano dargli il benvenuto. Forse persino lo vedono. Non c'è l'unisono della religione tradizionale, le formule recitate a una sola voce dall'assemblea, ma uno spazio disarticolato che gorgoglia, dove l'uomo torna il pesce che fu all'inizio della vita sulla Terra.

        Questa è l'iconoclastia. Il grado zero del reale. Il santo compie la propria ascesi. Al contrario, certamente: verso il profondo rosa contemporaneo, il reality, virtuale e mistica sfera, sola mèta caritatevole nella spietata Italia di oggi. Matteo Garrone, in un suo precedente film, aveva posto l'imbalsamazione come grado zero della psiche collettiva degli italiani. Nel segno cupo della colpa e della morte. Il reality è il suo rovescio: il grado zero nel segno lieto della vita originaria, tra le vitree superfici, liquide materne, della casa. A cui il santo accede nella sua incontrovertibile innocenza

Reality di Matteo Garrone

Iconoclastia

        Eluana, la strega, e Luciano, il santo, sono radicali figure dell'iconoclastia. Lo sguardo scatenante della strega. Lo sguardo beato del santo. La visione del sabba di un Paese addormentato. La visione celeste di un Paese ipnotizzato. In entrambi i casi, il cinema non ri-scrive, ma scrive. Entrambe, Eluana e Luciano, sono radicali figure dell'innocenza. In Tv, a prescindere dalla realtà dell'innocenza, tutti sono visibilmente innocenti. È il regno dell'iconofilia. Nel cinema, pur accedendo alla figura dell'innocenza, nessuno fa la figura dell'innocente. Può essere lo spazio dell'iconoclastia.

        La strada è aperta. L'iconoclastia è questa libertà dalle mille, milioni di immagini del nostro quotidiano audiovisivo. Al posto delle immagini, le figure, che il cinema italiano, volendo, sa cogliere come e meglio di quello americano. Le immagini sono eccedenti, sono molte. Le figure sono eccessive, sono molto. Si tratta di quell'eccesso individuato da Maurice Merleau Ponty, in una celebre conferenza, tenuta nello stesso 1945 di Roma città aperta: "Mai nel reale la forma percepita è perfetta, c'è sempre del mosso, delle sbavature e come un eccesso di materia. Il dramma cinematografico ha, per così dire, una trama più serrata dei drammi della vita reale e si svolge in un mondo più esatto del mondo reale".

        Il mondo tivu-visivo mira alla "forma percepita perfetta", a quelle immagini in cui il mondo e il linguaggio, stabiliti altrove, si fondono e coincidono. Nel segno dell'iconofilia. Il cinema invece è iconoclasta, scansa le "forme percepite perfette", le immagini, per intercettare il "mosso", l'"eccesso di materia": quella la "sbavatura" che chiede di andare oltre l'immagine. Verso la figura. L'immagine è confezionata altrove, la figura si produce sullo schermo. L'immagine è pre-scritta, la figura si fa scrivendo. Il pubblico, ci vuole un poco di impegno certamente, deve leggere: non ri-leggere. L'immagine è la realtà, la figura è il reale. L'immagine è perfetta, la figura è esatta.

        Il cinema italiano deve scegliere tra la perfezione della realtà, e l'esattezza del reale. Tra l'immagine e la figura. Tra l'iconofilia e l'iconoclastia. Il santo e la strega sono figure mosse, guizzanti, l'eccesso di materia che il cinema italiano, volendo, sa scrivere senza mediazioni. Certo, ci vogliono cultura e talento. La strada è aperta. Che si tratti, negli esempi citati, di registi di due generazioni diverse, 1939 e 1968, è evidentemente un buon segno.

 

  


 

SegnoSpeciale n. 179

America, America - Il Ribelle dell'Anatolia di Elia Kazan

“E da Genova / In Sirio partivano / Per l’America varcare / Varcare i confin” (Il tragico naufragio della nave Sirio, di E. Esposito e M.L. Straniero)

La nave dolce di Daniele Vicari

TERREMOBILI. Scenari di cinema migrante
a cura di Mario Molinari

Un fenomeno globale

        Pochi fenomeni sociali rivelano, come invece fa l’emigrazione, le magagne, le contraddizioni, le ipocrisie dell’attuale epoca globalizzata. Accettazione/rifiuto, integrazione/emarginazione, solidarietà/porte in faccia, aiuti umanitari/violenza (non solo verbale)... L’elenco delle reazioni possibili all’arrivo (i cui modi cambiano a seconda dei luoghi: da noi per lo più tramite sbarco sulle nostre coste, lunghissime e incontrollabili) dei migranti e al loro insediamento nel Paese scelto (anche casualmente) potrebbe continuare, seguito dai ragionamenti sulla loro utilizzazione, sulla necessità della loro presenza per sopperire a certe mancanze (certe scelte) della popolazione “indigena”, che rifiuta determinate attività lavorative, scarta parecchie mansioni, ritenute avvilenti (oltreché/più che poco remunerative), e sull’utilità d’intavolare trattative (quando possibili) coi governi dei Paesi di provenienza (quando identificabili). Ma queste cose rientrano nella realpolitik degli Stati.
Lo straniero alle porte di casa ci pone in realtà di fronte a un dilemma, tanto più gravoso per un popolo che, ancora nel secolo scorso, e persino oggi, con la fuga di massa dei cervelli all’estero, alla ricerca di maggiori soddisfazioni professionali e di condizioni economiche migliori, ha alimentato il fenomeno migratorio in misura considerevole: chi può affermare di non avere in famiglia almeno un parente, magari alla lontana, che si è trasferito (o ha cercato di farlo) in America (Nord o Sud), in Africa, in Australia? Come porsi dunque di fronte a questa gente sradicata, costretta a vivere in luoghi ove le persone parlano, si vestono, mangiano, dormono, financo pregano in maniere diverse da quelle a cui si era abituati, che hanno una storia, delle credenze, delle convinzioni (delle convenzioni) radicalmente differenti da quelle dei nuovi arrivati? La lontananza da casa, il mancato inserimento, la morte dei sogni ben presto generano rimpianti, nostalgia, desiderio di un nuovo viaggio, all’inverso, propositi (non sempre realizzabili) di ritorno.

Così ridevano di Gianni Amelio

Il sogno che non c’era

        Eppure l’emigrazione, che è incarnata da un viaggio di gente disperata, in condizioni spesso sub-umane, è pur sempre un’opportunità per cambiare, per comprendere, per imparare, per ricordare. E lo è nei due sensi, per chi dà ospitalità e per chi la riceve, come nel misconosciuto Mar Nero di Federico Bondi, in cui la “serva” rumena di un vecchia toscana burbera e borbottona ne diviene amica, compagna in un viaggio a ritroso nello spazio (dall’Arno al Danubio) e nel tempo (i carretti trainati da cavalli, da noi ormai rari come il Gronchi rosa) in cui le due donne si scoprono sempre più affini, sempre più simili, quasi fossero (diventate) madre e figlia.
Di questo flusso che ha assunto da tempo dimensioni globali il cinema ha fornito ritratti toccanti nel loro realismo (Lamerica di Gianni Amelio), ha colto le motivazioni profonde che spingono (che spingevano) delle persone lontano dalla patria, dalla famiglia, dagli odori, dai sapori, dalla stessa visione della propria terra (America America di Elia Kazan, modello narrativo paradigmatico per molti film sull’emigrazione, sostanzialmente ripreso ad esempio da Emanuele Crialese in Nuovomondo) sulle tracce di un sogno che sovente, una volta arrivati alla meta, si rivela illusorio, mendace e che, a tratti, rasenta addirittura l’incubo (In America di Jim Sheridan).
E, a volte, “il sogno che non c’era” (questo il sottotitolo italiano del film dell’irlandese Sheridan) si rivela tale (inesistente o comunque intangibile) persino in casa propria, senza bisogno di varcare l’Oceano, a quei terroni (così doveva intitolarsi in origine Il cammino della speranza di Pietro Germi) che negli anni del boom partono dal Meridione con valige di cartone, l’olio e i formaggi per approdare tra le nebbie lombarde (o torinesi: Così ridevano, ancora di Amelio), in case di fortuna, a patire il freddo e la fame, e a finire, in certi casi, in brutti giri, ai margini o fuori dai confini della legge (Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti).

Terraferma di Emanuele Crialese

La Legge (del più forte)

        Quello della legalità è uno dei temi portanti del cinema sull’emigrazione sin dalle modalità d’ingresso dei migranti nel Paese in cui intendono recarsi (o che devono attraversare per raggiungere il loro obiettivo finale). Le carrette del mare viste in Tv quasi in diretta tornano nella “finzione” di Amelio (il citato Lamerica) o di Marco Tullio Giordana (Quando sei nato non puoi più nasconderti) o nel recentissimo documentario di Daniele Vicari La nave dolce, intensa rievocazione (ricavata attingendo anche a fonti albanesi) dello sbarco a Bari di circa 20.000 clandestini provenienti da Durazzo. Vent’anni circa prima di Lampedusa (l’arrivo della nave Vlora risale all’agosto 1991) i governanti italiani mostravano la stessa incomprensione del fenomeno migratorio, la medesima impreparazione logistica (e culturale...), l’identica assenza di un piano serio di risoluzione del problema che non fosse la struzzesca negazione della sua esistenza, la cacciata indietro (la rimozione?) del flusso.
Quest’avventura (come la definisce uno dei testimoni/protagonisti di allora) finì male (ed era solo l’inizio...): all’entusiasmo incosciente della partenza subentrò presto il disincanto, l’impatto durissimo con una realtà ben diversa da quella che appariva nelle immagini delle trasmissioni televisive italiane captate in Albania, una realtà da incubo, in cui poliziotti e soldati contenevano la massa, arrestavano gli assetati fuggiaschi in mutande, rispedivano (quasi) tutti a casa. E dire che gli antenati di questi inflessibili cerberi avevano tentato, molti anni prima (sullo schermo e nella realtà), di varcare di nascosto la frontiera in cerca di un’esistenza migliore: il senso di umanità dei gendarmi francesi (i quali, all’opposto, in una radicalmente mutata situazione socio-economica, si riveleranno ai nostri giorni segugi spietati a Calais coi forestieri celati nel doppiofondo di alcuni Tir: cfr. Welcome di Philippe Lioret) lascia passare la sparuta pattuglia di sopravvissuti alla drammatica risalita dello Stivale ne Il cammino della speranza di Germi.
Non sono davvero tempi di pietà, i nostri: sull’altro lato dell’Atlantico disperasti chicanos si affidano a/sono manipolati da organizzazioni criminali (ad esempio in Frontiera del britannico Tony Richardson) per superare i muri ed entrare nel “sogno americano” (salvo poi risvegliarsi nelle pietose condizioni dei braccianti stagionali di A muso duro di Richard Fleischer, che troveranno protezione solamente nel loro datore di lavoro, il sempre vindice giustiziere Vince Majestyk/Charles Bronson).

Nuovomondo di Emanuele Crialese

L’apporto del cinema di genere

        Anche il cinema di genere dunque dà il suo contributo a ingrossare le fila delle opere attinenti all’emigrazione, la quale poteva, anche in Italia, essere stagionale (o precaria, come si dice adesso): si pensi alle mondine dei melodrammi Riso amaro di Giuseppe De Santis o La risaia di Raffaello Matarazzo, ma, soprattutto, alle innumerevoli cameriere venete, meridionali o “burine” calate in città (per lo più a Roma, o a Milano) in numerosissime commedie italiane (da Siamo tutti inquilini di Mario Mattoli, con Maria Pia Casilio specializzata in tali ruoli, a I soliti ignoti di Mario Monicelli, che fa rivestire il ruolo di colf a una giovanissima Carla Gravina).
Nei gangster-movies degli anni ’30, ’40 e ’50 la figura del malavitoso di origini italiane impazza sugli schermi d’Oltreoceano, sulla scia di esempi concreti, in carne e ossa come Al Capone,
partendo da Piccolo Cesare di Mervyn LeRoy, per arrivare poi alla maniera, allo stereotipo di moltissimi b-movies polizieschi, o ai quadri scorsesiani, di ben diverso spessore, ricchi come sono di verità, di realismo: si pensi anche soltanto a Quei bravi ragazzi studiati entomologicamente, come in un documentario, ma in cui la distanziazione coabita quasi coll’attrazione che quell’umanità brutale, sanguigna e fuori dal coro sapeva esercitare sui ragazzini che crescevano sulle strade di Brooklyn alla metà degli anni Cinquanta.
        Forestieri in Paesi inospitali, che pongono ostacoli d’ogni sorta a chi vorrebbe soltanto lavorare in pace e rifarsi una vita, i nostri connazionali emigrati in America passano spesso sull’altro lato della barricata, come Gene Kelly in La Mano Nera (1950, di Richard Thorpe) - che poi, nel finale, comunque si redime... - che il doppiaggio nostrano, per motivi di assurda censura nazionalistica, tramuta da italo-americani in malavitosi cubani (procedimento speculare, esattamente opposto alla trasformazione del Toni Camonte di Scarface di Howard Hawks, ispirato direttamente alla figura di Al Capone, nel Tony Montana, rifugiato cubano a Miami nello straordinario remake di Brian De Palma).
Persino il cinema di fantascienza (non solo americana: si pensi al difettoso, ma interessante nel suo porsi fuori dagli schemi L’ultimo terrestre, esordio un po’ stralunato del fumettista Gipi alias Gian Alfonso Pacinotti) confeziona ottime metafore sulle diverse reazioni suscitate dall’arrivo degli alieni (= emigranti) sul nostro pianeta (Ultimatum alla Terra di Robert Wise, E.T. - L’Extra-Terrestre di Steven Spielberg) e al loro “inserimento” nel tessuto sociale (dall’Invasione degli ultracorpi di Don Siegel all’apologo forse più graffiante e terrorizzante in materia, Essi vivono... di John Carpenter). E, come già ricordato, pure la commedia all’italiana si è occupata del fenomeno, col malinconico Bello onesto emigrato Australia sposerebbe compaesana illibata di Luigi Zampa, una delle interpretazioni più toccanti dell’intera carriera di Alberto Sordi e, in toni più grotteschi, con Pane e cioccolata di Franco Brusati, la cui opera complessiva andrebbe sicuramente riscoperta.
A quanto sinora ricordato va infine aggiunto il cosiddetto cinema politico. Generalmente cacciati senza colpa (ma non sempre: in Noi credevamo di Mario Martone l’eterno esule Giuseppe Mazzini trama rivolte e attentati, spesso velleitari, concepiti semplicisticamente, a tavolino, contro i Savoia e i loro potenti alleati), i rifugiati per motivi politici trovano talora un po’ di spazio sugli schermi. Da noi il fascismo mette al bando i suoi più naturali nemici, i comunisti, che in esilio subiscono continue infiltrazioni di spie o si dividono settariamente al proprio interno, polemizzando tra di loro più che con gli avversari (Il sospetto di Francesco Maselli), o rivaleggiano pesantemente con altri gruppi antifascisti. Così la longa manus del regime può eliminare facilmente, tra quanti hanno trovato asilo oltralpe, gli elementi che ritiene particolarmente pericolosi per la dittatura mussoliniana (Il conformista di Bernardo Bertolucci). Qualche decennio più tardi, militanti iberici fanno la spola tra la Francia e la Spagna franchista in nome di una rivoluzione sempre sognata, ma costantemente lontana, irraggiungibile (La guerra è finita di Alain Resnais).
Di molte di queste cose e di altre ancora trattano gli interventi, svolti con passione e competenza, di questo Speciale, che ambisce, se non a colmare un vuoto (non totale, ma rilevante), almeno ad aprire le porte a una ricerca su un tema che la critica italiana ha trattato assai poco e solo superficialmente. Di qui dunque l’attenzione privilegiata prestata al nostro Paese, protagonista attivo e passivo del fenomeno migratorio.

 

  


 

SegnoSpeciale n. 178

Erland Josephson e Ingmar Bergman sul set di Fanny e Alexander

IN DUE. Creatività e ambivalenze del lavoro di coppia nel cinema  
a cura di Micaela Veronesi 

Il mare delle idee

       Chi inventa i film? Da dove viene e come nasce l’idea di un film? Come avviene per qualsiasi progetto, un film può essere il frutto dell’immaginazione di un solo individuo, che in solitario trae ispirazione dal proprio contesto esperienziale, dalle proprie curiosità o desideri, dalla propria voglia di raccontare una storia; ma è facile che accada che le idee vengano in luoghi e momenti inaspettati, ispirate da ciò che ci circonda, paesaggi e persone, come per esempio una chiacchierata con amici o un viaggio. Senza nulla togliere ai principi che regolano la proprietà intellettuale e il diritto d’autore, immaginiamo il mondo delle idee come un mare aperto, ricco di fermento, da cui tutti possiamo attingere per creare nuove storie da raccontare. Ma non si entra uno per volta in questo mare, che è al contempo un crocevia di rotte e un catalizzatore di esperienze.

       E allora è facile immaginare la nascita delle idee come una sorta di processo chimico in cui convergono, da più parti, tanti elementi diversi, soggetti a innumerevoli variabili, e combinabili in infinite possibilità. La realizzazione di un film ricorda proprio questo fermento naturale, e il set potrebbe essere associato a un laboratorio scientifico. Tuttavia l’idea che “un film sia un’opera realizzata da una pluralità di soggetti”, come suggerisce con molta chiarezza Enrico Terrone in uno dei saggi che seguono, non è da tutti condivisa e accettata. In questo Speciale cercheremo dunque di ragionare su come si sviluppa la creatività volta alla realizzazione di un film nell’ottica del confronto intellettuale fra più individui, che s'incontrano, comunicano, discutono, condividono le loro idee. 

In principio era la coppia

       Fin dalle origini del cinema, il lavoro in coppia è stato espressione di una fecondità produttiva e creativa, sintesi di due individualità capaci d'interagire prima durante e dopo il lavoro del set. Sia che si tratti di coppie legate da una parentela (dai fratelli Lumière in avanti), sia che si tratti di sodalizi intellettuali o di coppie effettive, legate anche da una relazione sentimentale, i film nascono spesso da idee condivise e sono il frutto di un confronto vivace e produttivo ancora poco indagato dalla critica e quasi mai rimarcato dalla storiografia. Proveremo qui, dunque, a individuare l’eventuale valore aggiunto del lavorare in due.

       Il celebre attore comico del muto André Deed, noto in Italia con lo pseudonimo di Cretinetti, interpretò numerosi film al fianco della moglie, l’attrice Valentina Frascaroli. Entrambi attori professionisti, s'incontrarono per lavoro e incrociarono le loro carriere e le loro vite. Difficile pensare che i due non si siano confrontati durante la lavorazione dei film che li vedono protagonisti e di cui Deed è quasi sempre anche regista. Ciò che colpisce, al di là di tutte le supposizioni, è la straordinaria affinità con cui i due collaborano sul set, la complicità con cui recitano le parti più comiche del loro cinema, e il puro e genuino divertimento che dimostrano di condividere nel lavorare insieme e che traspare da ogni loro inquadratura.

       Un altro attore del muto, Mario Guaita, in arte Ausonia, famoso in quanto forzuto esponente del genere dei film “alla Maciste”, recita in circa una quindicina di film sceneggiati dalla compagna, Renée Deliot. Anche in questo caso la professionalità s'intreccia, e si annoda, con la vita di coppia. Lei scrive per lui e lui recita quello che ha scritto lei. Impossibile pensare che i loro film non nascano, anche, da un confronto intellettuale in parte vissuto, forse, perché no? nella quotidianità della loro relazione, nel tempo passato in cucina o nella camera da letto.

       La dimensione della condivisione di spazi, tempi, luoghi e idee all’interno della coppia, di un ritmo che si sintonizza sui desideri, sui sogni, sulle esperienze di entrambi e che da lì riparte per farsi vita, trova una rappresentazione in qualche modo estrema ma proprio per questo esemplare nella sequenza finale di Eyes Wide Shut. Kubrick, regista per altro noto per avere sempre dimostrato il cosiddetto “controllo totale” sui suoi film, mette in scena una coppia che è anche - in quel periodo - coppia nella vita. Il fatto dunque che Kidman/Cruise stiano rappresentando, a partire dal testo di Schnitzler, la ricomposizione di una coppia aumenta, e consolida, il valore della rappresentazione. Il dialogo rispecchia fedelmente, fino alla battuta finale, il testo di Doppio sogno, ma il contesto, la scelta di ambientare la scena in un grande magazzino di giocattoli, la presenza anche se marginale della figlioletta, e proprio la battuta finale contribuiscono a trasformare il tutto in un metadiscorso: una coppia che recita la parte di una coppia e che nel farlo parla di e a tutte le coppie del mondo.

       La storia del cinema, italiana e internazionale, è piena di coppie - possiamo quasi dire che sia stata fatta dalle coppie - è sufficiente fermarsi a pensare e ne vengono in mente decine, di tutte le epoche e nazionalità, etero e omosessuali. Vere e proprie coppie che firmano insieme i loro lavori; attrici e attori che impongono la loro creatività davanti e dietro la macchina da presa; compagne, amanti o mogli che ispirano messe in scena e narrazioni; registi che dirigono volutamente coppie famose (come il già citato Kubrick); collaborazioni professionali in ambiti diversi della produzione di un film, come musiche, montaggio ecc. Lo Speciale si focalizza su alcune di queste esperienze.

       Il saggio di Alberto Anile e M. Gabriella Giannice si sofferma, per esempio, su un caso esemplare di “doppia coppia”, quella formata da Magnani e Rossellini prima, e da Rossellini e Ingrid Bergman poi. Le loro storie sono interessanti per il nostro discorso non solo per come le due attrici abbiano intrecciato la loro vita e la loro arte con quelle del regista, ma anche per come da questi incontri tumultuosi si siano determinate le scelte registiche, e stilistiche, dello stesso Rossellini. Anile e Giannice si muovono con disinvoltura su questo terreno, ricercando tra carte, filmati d’epoca e testimonianze, e avendone tratto una monografia, La guerra dei vulcani. Rossellini, Magnani, Bergman. Storia di cinema e d'amore, edita da Le Mani nel 2000.

       Roberto Pugliese si è cimentato invece in un’intervista a Pino Donaggio, in cui il compositore ci parla della sua trentennale amicizia e collaborazione con Brian De Palma, proprio nei giorni in cui entrambi erano a Venezia per presentare Passion, frutto del loro ultimo sodalizio, alla Mostra del Cinema. 

Simbiosi creative

       Non si può prescindere dalla specificità del cinema come sistema laboratoriale, dove il prodotto finale è il frutto di una condivisione e di una molteplicità di contributi, e dove la coppia è da intendersi in termini dialettici in quanto sistema che non annulla le singole individualità ma le valorizza. Cosa sarebbe L’eclisse di Antonioni se non vi avesse partecipato Monica Vitti? E Vincere di Bellocchio non sarebbe forse un film diverso se il montaggio non fosse stato fatto da Francesca Calvelli? Che cosa c’è di Straub e cosa di Huillet nei film firmati dalla coppia?

       Non esiste la casualità dell’incontro. Due individui si trovano a lavorare o vivere insieme per affinità, per empatia, perché si riconoscono a vicenda delle qualità, una sensibilità comune, guardano lo stesso orizzonte. Penso, per esempio, alle numerose foto, reperibili anche in rete, che ritraggono Jean-Marie Straub e Danielle Huillet affiancati mentre lavorano e guardano nella stessa direzione. Si potrebbe immaginare il lavoro di coppia come una fucina intellettuale, dove uomini e donne compagni di vita e di lavoro, o registi che lavorano sempre con lo stesso team dando vita a grandi sodalizi lavorativi senza implicazioni amorose, e fratelli e sorelle che lavorano insieme intuiscono, discutono, elaborano e realizzano progetti che diventano narrazioni, immagini, opere d’arte.

       Fra i molteplici esempi di questa creatività condivisa, il sodalizio artistico fra Zavattini e De Sica affiora e si realizza in un contesto totalmente scollegato da quello sentimentale. Non abbiamo qui lo spazio per ripercorrere come merita la complessità del loro rapporto e del lavoro che hanno condiviso attraverso film come Ladri di biciclette o Sciuscià, tuttavia proprio dalla ben nota difficoltà nell’attribuire meriti e competenze all’uno o all’altro si può dedurre una sorta di tesi che interpreti tutte le esperienze di lavoro di coppia non come una somma ma come un amalgama composito, non teorizzabile, e pertanto irreversibile.

       Chiunque abbia vissuto l’esperienza di lavorare in complicità con qualcun altro sa cosa significhi questo amalgama e come sia difficile, a posteriori, ricostruire il processo creativo e attribuire a ciascuno un proprio ambito definito. Nei saggi che seguono leggeremo di come alcuni registi abbiano legato il loro estro inventivo alle compagne, decidendo con loro, o grazie a loro, percorsi narrativi e registici. Emma Gobbato indaga il rapporto lavorativo fra Francesco Maselli e Goliarda Sapienza, sua compagna per diciotto anni, attrice in alcuni suoi film, ma soprattutto scrittrice di talento. Nonostante il suo apporto alle sceneggiature di Maselli nel periodo trascorso insieme non sia mai stato attestato, da molti indizi e dichiarazioni che i due hanno lasciato attraverso, soprattutto, la loro corrispondenza è possibile ipotizzare che Maselli non avrebbe fatto le stesse scelte narrativo-stilistiche per un film come Gli sbandati se non avesse avuto al suo fianco Sapienza.

       Anche il rapporto fra Jean Epstein e sua sorella Marie, studiato da Chiara Tognolotti, ha avuto la capacità di determinare alcuni risultati della creazione artistica del regista dell’avanguardia francese degli anni Venti. Eppure, anche in questo caso, nessun riconoscimento all’apporto della donna, che per prima si è sempre ritratta da ogni possibile attribuzione di merito. Più sincero, o forse solo maturato in un contesto differente, appare il rapporto fra Robert Guédiguian e Ariane Ascaride, di cui scrive Mariapaola Pierini. In questo caso il regista francese non nasconde i meriti della sua compagna e attrice di tutti i suoi film, forse anche perché più propenso a lavorare sempre con lo stesso team e a condividerne anche gli aspetti creativi. 

Singolare o plurale?

       Ciò che emerge da questi discorsi è l’indiscutibile superiorità del collettivo sull’individuale. In una società come quella in cui siamo immersi, dove tutto, dall’ambito sociale a quello lavorativo per sfociare persino in quello familiare, è incentrato sull’espressione individuale, ragionare invece in termini dialogici può diventare una sfida straordinaria. Certo il riconoscimento del valore effettivo di questo processo di osmosi creativa è ancora lontano dall’essere validato, e sono soprattutto certe impostazioni di tipo gerarchico a rendere difficile questo cambiamento: il regista al di sopra di tutti, il soggetto maschile al di sopra di quello femminile, il vecchio sul giovane e così via. Ma mai come oggi, in epoca di reti e di scambi globali, è evidente quanto “il soggetto non può più definirsi univocamente come padrone della natura e costruttore di mondi” in quanto “si trova confrontato con la necessaria strutturazione razionale delle relazioni con l’altro” (cfr. Luce Irigaray, In tutto il mondo siamo sempre in due, Baldini e Castoldi, 2006, p. 139).

       Ecco allora che, attraverso le epoche, anche se con lentezza, emergono testimonianze oggettive di queste relazioni. Donne e uomini che lavorano insieme facendo diventare grande il loro progetto, Jean Epstein che collabora con la sorella Marie, spingendola a diventare una delle sceneggiatrici più originali del periodo; Citto Maselli che riconosce quanto la compagna Goliarda fosse per lui una guida nel dargli consigli e nell’aiutarlo a prendere decisioni; Ascaride che ama definirsi una complice del marito nella vita come nel lavoro, sottolineando la natura paritaria del rapporto che li unisce; Donaggio che con semplicità dichiara di saper capire quello che De Palma vuole dal suo lavoro di compositore senza bisogno di parlarsi.

       Anche se i casi da approfondire sarebbero moltissimi e necessiterebbero di uno spazio più ampio di quello che questo Speciale consente, speriamo di suscitare con le nostre riflessioni un dibattito che ripensi, e perché no, rimodelli, lo statuto con cui si è soliti leggere e interpretare i film, passando da un sistema di analisi che vede i film come il risultato di un monologo fra un autore regista che detiene lo scettro assoluto della creazione a un campo dialogico in cui due o più individualità s'incontrano e producono il film attraverso lo scambio di esperienze. In effetti, il confronto intellettuale è comunque sempre quello più prolifico ai fini della creazione artistica, e non solo rispetto alla responsabilità della scelta (se fai tutto da solo con chi dividi i dubbi?), ma anche per quanto concerne la ricchezza degli immaginari.

       Mesi fa, parlando dell’idea di partenza di questo Speciale con un gruppo di amiche, mi sono trovata a discutere con una cineasta che sosteneva che solo il regista è l’autore e come tale ha il controllo totale dell’opera. Ciò che mi sorprese da quel discorso fu che la mia interlocutrice non cogliesse nella mia opinione un tentativo dialettico di restituire anche a chi, come lei, di un regista è stata compagna e collaboratrice, il giusto spazio nel campo della creazione artistico-intellettuale di un film. I saggi che seguono ci possono aiutare a fare chiarezza su questo snodo importante, sia attraverso l’analisi di casi singoli (Sapienza e Maselli, gli Epstein, Ascaride e Guédiguian) e di esperienze particolari (Rossellini, Magnani, Bergman), sia attraverso l’approccio teorico con cui chiudiamo lo Speciale: Terrone infatti, prendendo il discorso un po’ alla larga, aggiustando qualche conto personale e giocando sul campo di una materia che ben conosce, come la filosofia, ribadisce quanto il lavoro creativo sia frutto di una pluralità che collaborando a uno stesso progetto, pensa, agisce e crea collettivamente.

       Il regista non perde in questo caso il suo ruolo di direttore, anche creativo, anzi si arricchisce di una capacità straordinaria: quella di cogliere gli aspetti migliori, i consigli più fecondi, le idee più brillanti da tutti i suoi collaboratori.