SegnoFilm

SegnoFilm n. 240

Babylon
(Babylon)

Regìa: Damien Chazelle                            Orig.: U.S.A., 2022

Sogg. e Sc.: Damien Chazelle. Fotogr.: Linus Sandgren. Musica: Justin Hurwitz. Mont.: Tom Cross. Scenogr.: Florencia Martin. Costumi: Mary Zophres. Suono: Ai-Ling Lee. Eff. Vis.: Industrial Light & Magic, Whiskytree, Outback Post, Onyx Forge. Interpr.: Diego Calva (Manny Torres), Margot Robbie (Nellie LaRoy), Brad Pitt (Jack Conrad), Shane Powers (Dale), Phoebe Tonkin (Jane Thornton), Troy Metcalf (Orville Pickwick), Jovan Adepo (Sidney Palmer), Hansford Prince (Joe Holiday), Telvin Griffin (Reggie), Jean Smart (Elinor St. John), Cutty Cuthbert (Jimmy), Flea (Bob Levine), Olivia Wilde (Ina Conrad), E.E. Bell (Wilbur), Joe Dallesandro (Charlie), Lukas Haas (George Munn), Li Jun Li (Lady Fay Zhu), Patrick Fugit (agente Elwood), Eric Roberts (Robert Roy), Cici Lau (Gho Zhu), David Lau (Sam Wong Zhu), Rory Scovel (il Conte), Olivia Hamilton (Ruth Adler), Max Minghella (Irving Thalberg), Samara Weaving (Constance Moore), Jeff Garlin (Don Wallach), Spike Jonze (Otto). Prod.: Olivia Hamilton, Marc Platt, Matthew Plouffe per Paramount Pictures/C2 Motion Picture Group/Marc Platt Productions/Material Pictures/Organism Pictures/Wild Chickens Productions. Distr.: Eagle Pictures. Durata: 189 min. 

       Hollywood, 1926-1927. Dove si incrociano il trionfo e il declino di Nellie LaRoy, stellina procace e sguaiata, e di Jack Conrad, gaudente divo del muto, terremotati come altri dall’avvento del sonoro, ma anche da tossiche dipendenze. Una ruggente Babilonia di lussuria e jazz filtrata dalla precaria ascesa dell’immigrato messicano Manuel Torres, factotum e aspirante cineasta.  

Babylon 

         The Dark Side of the Moon. Babylon, prodotto fuorviante nella filmografia coesa seppur eterogenea di Damien Chazelle, si imparenta per speculare rovesciamento con il pluripremiato La La Land, componendo, più che un dittico bifronte e sfrontato su Los Angeles come chimera di promesse e sogni, l’esplorazione del versante oscuro e invisibile di una Mecca dove bellezza e dolore convivono e permeano, come alla scoperta della Luna, già soggetto del film precedente First Man (dedicato a Neil Armstrong) e, grazie al Voyage di Georges Méliès (inserito in Babylon), icona capostipite dello schermo più immaginifico. Chazelle certifica ancora l’identità del suo cinema della soglia, con il crinale insidioso tra integrità morale e solipsistica dedizione artistica, con il confine crudele tra anelito creativo di eternità e fatale angoscia per l’oblio, nella caducità di un’irrisolta giovinezza; ma è anche cinema del paradosso stilistico, dove virtuosistici piani sequenza, sontuosi dolly e panoramiche a schiaffo (frustate, whiplash in inglese, come l’omonimo secondo lungometraggio del regista) possono infondere aggraziata fluidità, febbricitante immersione visiva, studiate simmetrie, convulso dinamismo tra personaggi, nella rotta di una salda presa narrativa.

         Babylon, nel suo affresco di una Hollywood sul precipizio tra muto e sonoro, incrina nel disincanto più livido quel doloroso adattamento dell’artista nel mondo (già declinato con ritmi serrati e tinte fosche in Whiplash e con risvolti malinconici e dolceamari dai chiarori tenui in La La Land), approdando a un raffronto sulla natura inafferrabile del Male che serpeggia (letteralmente in una scena sulla spiaggia e nella fotografia che si tinge di rosso sangue) nelle logiche produttive e competitive della fabbrica dei sogni. Babylon si apre con una strada da percorrere, irta e polverosa, filmata però senza la continuità della carrellata iniziale lungo un corridoio in Whiplash e del piano sequenza nel traffico “danzante” di La La Land, né si conclude con la consueta complicità silenziosa di due sguardi eloquenti, ma con un primo piano senza un equivalente controcampo; del resto la meta iniziale, un piccolo maniero nelle lande del nulla, è una Shangri-La capovolta di frenesia peccaminosa che sbiadisce il profluvio di lacrime, sudore e sangue del batterista di Whiplash.

         Baccanali faraonici e febbricitanti, feste promiscue e perverse, reboanti e incendiari set del muto, star disinibite e viziose, ma anche dipendenze, morti accidentali e suicidio: al suo campionario iperbolico degli anni Venti Chazelle imprime in sottotraccia l’imprescindibile ispirazione del libro-scandalo Hollywood Babilonia di Kenneth Anger, trattenendo però la depravazione e lo squallore di quella fondata e sarcastica cronaca di delitti e maldicenze. Nella sua commedia umana di corruzione d’animo sotto il sole californiano, punita dall’imminente diluvio del sonoro (con tanto di bestiario allegorico e un’arca di Noè), Chazelle, come Anger, elude qualsivoglia moralismo e capta quel decadente e carnevalesco grandeur nell’impalcatura di altra letteratura, da Il giorno della locusta di Nathanael West ai saggi The Parade’s Gone di Kevin Bronwlow e La formula perfetta di David Thomson, senza tuttavia riuscire ad eleggere Los Angeles come indiscussa protagonista, come invece in La La Land e nel diversamente delirante pastiche pynchoniano Under the Silver Lake di David Robert Mitchell.

         In quella che si configura come una carrellata su una fase di cesura più che un’epopea di una nazione alla svolta (al cospetto molto distanziato, se non impraticabile, de La dolce vita di Fellini), Babylon insegue all’inizio il barocchismo esotico e sensuale de I misteri di Shanghai di Josef von Sternberg e tenta di clonare il divismo di Marocco, inscena una ballroom di pirotecnica inventiva audiovisiva à la Baz Luhrmann, allestisce un pionierismo da gag come in Vecchia America di Peter Bogdanovich, evoca con due piscine Viale del tramonto e Boogie Nights, convoca i fantasmi di miti recisi (John Gilbert e Clara Bow), geniali e contestati innovatori (Erich von Stroheim nelle vesti di D. W. Griffith), ma anche meteore come Billie Dove, glorie trascurate quali Dorothy Arzner, fino al primato fin troppo didascalico di Cantando sotto la pioggia. L’epitome del citazionismo di Chazelle, meno onnivoro e filologico di quello di Tarantino (di cui si omaggiano Bastardi senza gloria e C’era una volta a … Hollywood), si incastona in una sequenza visionaria e disturbante, svettante per compattezza drammaturgica e pura percezione cinematografica, una catabasi tra i gironi più corrotti, laidi e luciferini della Los Angeles degli anni Trenta, nella forza espressiva dell’incubo a occhi aperti, in una babele estetica di echi distorti, cupi bagliori, tenebre del circo felliniano, del Satyricon, di Freaks, The Elephant Man e Strade perdute, forse anche della pellicola muta italiana Maciste all’Inferno.

         E in questo sottobosco di perdizione ed empietà, dove si equiparano industria culturale e criminalità organizzata (un intreccio già esplorato da Chazelle in due episodi della miniserie Netflix The Eddy), Chazelle inquadra l’ennesimo tonfo dell’American Dream (con portavoce Tobey Maguire, ex Nick Carraway ne Il grande Gatsby di Luhrmann), intercetta gli ultimi fuochi, già radiografati da Fitzgerald, di un sistema ormai meccanizzato, stantio, intransigente e consegna Babylon alle tensioni interrogative sul futuro prossimo del cinema. Perché forse Babylon, con i costumi modernizzati di Mary Zophres, il taglio recitativo anacronistico di Pitt e Robbie, le partiture ibride e selvagge di Justin Hurwitz, scavalca gli anni Venti per essere un film sull’oggi, nello stallo di un altro bivio per la civiltà mediale, come fu per C’era una volta a … Hollywood. Nuove riproducibilità con l’avanzamento tecnico, asilo politico della sala nella Streaming Age, imprevedibile erranza del pubblico nella congerie dei dispositivi di fruizione, ma anche lo spettro di un nuovo puritanesimo statunitense che elegge ancora Hollywood come sua roccaforte. Sbilanciato nella scansione narrativa, affollato da personaggi sovente involutivi, scritto con goliardica empatia ma anche zoppicante in retoriche vacuità melodrammatiche, verace, impavido, dispendioso e sincero, Babylon nella sua dissacrante ambizione si interroga sull’ontologia dell’immagine cinematografica (come Nope, Blonde, The Fabelmans) e ne preserva l’autonomia con un trattamento figurativo e stilistico a tratti immersivo e ipnotico.

         Il finale, con il protagonista Manny Torres seduto in sala, segna la distanza e l’addio a quella scintilla consolatoria che Woody Allen aveva instillato nella struggente chiusura de La rosa purpurea del Cairo con Mia Farrow spettatrice, come qui, di un musical. Insufficiente ora l’euforia di Gene Kelly, subentra un compendio storico extradiegetico all’insegna della poetica di Chazelle (con il motivo del limitare, della scissione, dell’abisso, dell’ossimoro audiovisivo) che ambisce a conciliare lo splendore dell’arte con il martirio della vocazione artistica, come il monologo di Nina ne Il gabbiano di Čechov. Ma ombreggia in questo presunto giardino delle delizie una ieraticità da catalogo museale, una necrofilia per le immagini, un improprio affondo nella sentenza di Cocteau del cinema come “morte al lavoro”. Mentre ronza la quaestio di un citato epitaffio godardiano: fin de cinéma? (Martina Volpato)

 


SegnoFilm n. 239

The Fabelmans
(The Fabelmans)

Regìa: Steven Spielberg                            Orig.: U.S.A./India, 2022

Sogg. e Scenegg.: Steven Spielberg, Tony Kushner. Fotogr.: Janusz Kaminski. Musica: John Williams. Mont.: Sarah Broshar, Michael Kahn. Scenogr.: Rick Carter. Costumi: Mark Bridges. Suono: Ron Judkins. Eff. Vis.: Industrial Light & Magic, SDFX Studio. Interpr.: Michelle Williams (Mitzi Fabelman), Gabriel LaBelle (Sammy Fabelman), Paul Dano (Burt Fabelman), Judd Hirsch (zio Boris), Seth Rogen (Bennie Loewy), Mateo Zoryan (Sammy Fabelman più giovane), Keeley Karsten (Natalie Fabelman), Alina Brace (Natalie Fabelman più giovane), Julia Butters (Reggie Fabelman), Birdie Borria (Reggie Fabelman più giovane), Sophia Kopera (Lia Fabelman), Jeannie Berlin (Hadassah Fabelman), Robin Bartlett (Tina Schildkraut), Sam Rechner (Logan Hall), Oakes Fegley (Chad Thomas), Chloe East (Monica Sherwood), Isabelle Kusman (Claudia Denning), Chandler Lovelle (Renee). Prod.: Steven Spielberg, Tony Kushner e Kristie Macosko Krieger, per Universal Pictures/Amblin Entert./Amblin Partners/Reliance Entert. Distr.: 01 Distribution. Durata: 151 min. 

Si scrive Sam Fabelman, si legge Steven Spielberg. Con un approccio semiautobiografico il regista ripercorre la sua giovinezza dal 1952 tra New Jersey, Arizona e California, con la passione per il cinema, i corti amatoriali, le dinamiche familiari dei Fabelman, ora dolci ora convulse. E proprio tra le mura domestiche si consuma per il suo alter ego Sam l’inimmaginabile, con complicate ripercussioni sulle sue aspirazioni artistiche.

The Fabelmans 

         È scritto nel VII libro della Repubblica di Platone, interpretando il mito della caverna: “una persona assennata si ricorderebbe che gli occhi sono soggetti a due specie di perturbazioni, quando passano dalla luce alla tenebra e dalla tenebra alla luce”. E un impalpabile riverbero ancestrale e archetipico ammanta il Bildungsroman del giovane e insicuro aspirante picture maker Sam in The Fabelmans, dove i giochi di ombre cinesi, le proiezioni di fotogrammi sul palmo della mano e un cavernoso e amniotico armadio che funge da saletta di visione guardano al precinema, fin dagli uomini incatenati di Platone (fabelman si potrebbe tradurre con “l’uomo delle favole”). Come nel mito filosofico, si ripercorre la maturazione del protagonista in una poetica visiva di oscurità e ambigui bagliori, nella calibrata fotografia di morbide tonalità scure e chiarori più carezzevoli ad opera di Janusz Kaminski, metafore di un approccio al cinema non retorico e non conciliante, perché The Fabelmans è un film sulla difficoltà degli amori incondizionati, sull’asperità dei sogni (premonitori, di celluloide), sull’oblio dello statuto dell’arte, ma anche sulla possibilità di riscatto nel raccontare storie, grazie alla cognizione del dolore.

         Quindi la paura per il buio della sala si esorcizza con le riprese nell’ombrosa cantina; il turbamento della prima, irrisolta esperienza al cinema sconfina in un incubo notturno di un verde spettrale e abbagliante che già perforava i sogni e le allucinazioni del detective Scott in Vertigo di Hitchcock; ancora, la propria dimora senza luci natalizie ad Hanukkah, l’incauta attrazione per i fulmini della madre Mitzi che non è altro che un istinto di morte, i fari dell’automobile adibiti a proiettori di luce per la danza della donna, fatata e troppo seducente, che Spielberg ricalca su Annabelle Serpentine Dance, cortometraggio del 1895 realizzato per il kinetoscopio di Thomas Edison, con uno sguardo sempre rivolto agli albori del dispositivo filmico, in una bolla onirica e atavica rimarcata dai contorni fiabeschi e primitivi del bosco del campeggio.

         The Fabelmans iscrive nel suo impianto formale una dialettica di polarizzazioni, tensioni, conflitti (scienza/arte, luce/oscurità, ebraismo/cattolicesimo/antisemitismo, divorzio/proposta di nozze, percosse in famiglia, partite di pallavolo, scontri ferroviari, battaglie belliche, rapine western), armonizzata tuttavia da una partitura narrativa di rime interne, chiasmi, bilanciamenti simmetrici, nonché stemprata dalla canonica classicità della cinepresa di Spielberg, fluidamente invisibile quanto semanticamente accorta nel rifinire un autoritratto senza compiacimento, nell’ispirare nello spettatore, nonostante un microcosmo casalingo di animata ma ordinaria coralità, una spontanea adesione emotiva ai suoi vividi personaggi, un intatto senso di partecipe attesa per il loro destino.

         Senza scene-madri né soffi di magniloquenza spettacolare, distillando il coming of age tra melodramma familiare, commedia sentimentale e persino comicità slapstick, fra tenerezza e disincanto, Spielberg amplifica nella semiautobiografica scansione drammaturgica quel principio di rottura e lacerazione proprio del fare cinema più volte ribadito nel film, riecheggiando, quasi in una nota di metacinema, quel paradigma dialettico del linguaggio hollywoodiano da sempre alle fondamenta anche dello stile di Spielberg. Si erge dunque il secolare binomio vita/cinema, qui oltre il rischio di stucchevolezza, nella mistura di incanto infantile e tardiva, sofferta consapevolezza del mondo, nell’equilibrio di incastri, ritorni, risoluzioni che scorrono carsici in sussurrata polifonia: dal battesimo iniziale in sala con Cecil B. DeMille a quello finale d’esordio con John Ford, dal problematico filmato amatoriale del campeggio a quello della “marinata” scolastica fonte di confessioni e saggezza, dallo scontro acceso con la madre al suo monologo di perdono.

         Ma in The Fabelmans, al di là delle cadenze del viaggio, anche fisico, di formazione (dove il cinema viene assurto a lente di svelamento del reale, artificio di falsità, potenza dell’immaginario, alterità di sguardo, soglia dell’inconscio), scorre anche un’altra storia meno intimistica e privata; a differenza dei lontanamente imparentati Armageddon Time di James Gray e soprattutto di Marx può aspettare di Bellocchio, qui il contesto storico-politico a sorpresa quasi si dissolve. Quella rievocata da Spielberg è un’altra storia, quella del cinema e dei suoi stili in alcune fasi e personalità significative per il regista, in cui filtra il rimpianto per la perduta magia artigianale della tecnica analogica, con una misurata nostalgia per il passato che distanza The Fabelmans da un altro sincero omaggio alla settima arte che è Hugo Cabret di Scorsese. L’inserto di Il più grande spettacolo del mondo di DeMille (antesignano produttivo per Spielberg) cita a sua volta il treno a La Ciotat dei Lumière; il particolare del filmino familiare in Super8, che diventa l’indizio di un traumatico segreto, attiva il ricordo di Blow-Up di Antonioni che con la sua modernità suggerì nuove sperimentazioni a Coppola e De Palma, fino all’approdo al poliedrico innovatore David Lynch (qui presente in un’indimenticabile sequenza, scelto anche in quanto pittore), passando per il torvo e illuminante John Ford (già laureato a mentore in E.T. con il calco della scena del bacio di Un uomo tranquillo).

         In questo catalogo di suggestioni di un sognatore, mélange di passioni cinefile, sublimazione del particolare nell’universale, allo spettatore più adulto è riservato il piacere struggente della rievocazione della mitologia spielberghiana che riaffiora qua e là in questo ultimo spaccato di un’adolescenza all’ombra di Peter Pan, con la cabina-armadio di E.T., lo scoutismo di Indiana Jones, il ballo studentesco di Ritorno al futuro (prodotto da Spielberg), le frizioni tra padre e figlio che costellano la sua filmografia e che qui trovano un inedito riscatto, con la rilettura della figura materna interpretata da Michelle Williams, che senza manierismi in una manifesta gaiezza fanciullesca sa tracciare l’invisibilità di un cupo abisso.

         E il finale riserva l’ultimo e più recondito ammiccamento, una camminata dritta e fiduciosa tra gli studios, verso l’orizzonte, modulata su quella del soldato del mediometraggio Escape to Nowhere (girato da Spielberg nel 1961), che Sam, ammaliato e commosso, aveva filmato nella continuità di un long take. Qui però la fuga non è verso il nulla: dopo una piroetta di pura euforia hollywoodiana à la Gene Kelly in Cantando sotto la pioggia, su una strada finalmente solo umida dopo tante intemperie personali, come sul rettilineo soleggiato che fu di Charlie Chaplin, si schiuderanno per il regista imminenti tempi moderni che prenderanno il nome di “New Hollywood”. (Martina Volpato)

Cinque concetti di cinema 

  1. “Non sono reali, vero?” chiede il bambino Sammy Fabelman al momento di entrare in sala a seguire le rocambolesche vicende del Più grande spettacolo del mondo. “Sono come sogni... I film sono sogni che non dimenticherai mai” gli risponde la madre. È il concetto hollywoodiano di cinema: la fabbrica dei sogni e delle favole, la grande macchina della finzione e della narrazione per immagini. Sarà questo concetto a guidare Sammy nei suoi primi cortometraggi che s'inseriscono nei generi dell’horror, del western e del war movie. Ed è questo il concetto indelebilmente associato al cinema di Steven Spielberg, la persona cui rimanda il personaggio di Sammy (il cui cognome suona come “uomo delle fiabe”).
  2. Ritorniamo all’ingresso del Più grande spettacolo del mondo. Alla madre che afferma “i film sono sogni”, il padre replica “i film sono 24 fotogrammi al secondo”. È il concetto del cinema come tecnica. Il padre di Sammy è un ingegnere che vede la realtà attraverso gli schemi della matematica e delle scienze, portando così l’attenzione sul meccanismo che sta dietro al sogno, sull’ingranaggio che rende possibile l’incantesimo. Un ingranaggio che egli stesso, con le sue pionieristiche ricerche sui computer, contribuirà a trasformare in qualcosa di diverso: il cinema digitale.
  3. Il padre è anche il personaggio che spinge Sammy a esplorare una funzione più basilare del cinema: non la creazione di finzioni ma la traccia della realtà. Nel rivedere alla moviola le riprese del campeggio, Sammy scopre che la cinepresa ha registrato di propria iniziativa qualcosa che era sfuggito alla sua intenzionalità di cineoperatore. È il concetto baziniano di cinema che ne attraversa la storia, dal Cameraman di Keaton (al quale rimanda, chissà se volutamente, la scimmia) a Blow-Up di Antonioni, e di cui Spielberg stesso fornisce una variante fantascientifica in Minority Report.
  4. Ritorniamo alla madre, una pianista che avrebbe voluto consacrare la sua vita all’arte ma ha finito per sacrificarla alla famiglia. Continua però a suonare il pianoforte le cui note si attaccano come per incanto alle immagini che Sammy sta montando. Il cinema non è soltanto una fiaba, una tecnica e una traccia della realtà. È anche un’arte, e come la musica è un’arte del tempo, che articola la durata temporale in una forma confacente alla nostra esperienza. Sammy si avvale di questa lezione quando crea un videoclip ante litteram per celebrare una festa scolastica sulla spiaggia.
  5. Il cinema è arte del tempo come la musica ma anche arte dello spazio come la pittura. Come in pittura, non conta soltanto che cosa si rappresenta, ma soprattutto come lo si rappresenta, cioè come lo si dispone nello spazio. È la lezione che The Fabelmans affida a un maestro in cui, con un fenomenale cortocircuito, si fondono i tratti di John Ford e di David Lynch, ossia i campioni del cinema come arte visiva nell’era classica e in quella postmoderna rispettivamente. (Enrico Terrone)

 


SegnoFilm n. 238

Blonde
(Blonde)

Regìa: Andrew Dominik                            Orig.: U.S.A., 2022

Sogg.: basato sul romanzo omonimo di Joyce Carol Oates. Scenegg.: AndrewDominik. Fotogr.: Chayse Irvin. Musica: Nick Cave, Warren Ellis. Mont.: Adam Robinson. Scenogr.: Florencia Martin. Costumi: Jennifer Johnson. Suono: Lisa Pinero. Eff. Vis.: Temprimental Films. Interpr.: Ana de Armas (Norma Jeane), Lily Fisher (Norma Jeane giovane), Hulianne Nicholson (Gladys), Tygh Runyan (padre di Norma Jeane), Michael Drayer (Will Bonnie), Sara Paxton (Miss Flynn), Ryan Vincent (zio Clive), Patrick Brennan (Joe), Rob Brownstein (istruttore di recitazione), Evan Williams (Eddy Robinson Jr.), Xavier Samuel (Cass Chaplin), Dan Butler (I.E. Shinn), David Warshofsky (Mr. Z), Rebecca Wisocky (Yvet), Ethan Cohn (assistente del regista), Sonny Valicenti (direttore del casting). Prod.: Tracey Landon, Brad Pitt, Dede Gardner, Jeremy Kleiner e Scott Robertson, per Plan B Entertainment. Distr.: VoD in streaming [Netflix]. Durata: 167 min. 

La breve vita infelice di Norma Jeane Baker, al secolo Marilyn Monroe; nata da madre schizofrenica e padre ignoto, orfana, modella magnetica, attrice dotata e inquieta, abusata dai produttori, percossa dal secondo marito (“l’Ex Atleta”) e incompresa dal terzo (“il Drammaturgo”), sfruttata dall’amante (“il “Presidente”) e destinata a una fine precoce tra depressione e dipendenze.

Blonde 

Non so come lo fece, fuoco
scuoteva tutt´intorno. Ore
ci vollero per truccarsi tutta.
Ma lo fece. Le ciglia finte,
persino. Ordinò gin, con triplo
lime. Poi una limousine. Tutti
sapevano che era un’eroina
del Blonde on Blonde.
 Non è giusto
Non è giusto
(Patti Smith)

         “Una sonnambula in pieno sogno”, così il fotografo inglese Cecil Beaton definì Marilyn Monroe, rievocando, per il suo candore infantile e la sua aura immateriale, l’Alice di Lewis Carroll e l’Ondine di Giraudoux. E nella cifra espressiva onirica Andrew Dominik iscrive Blonde (tratto dall’omonimo, magistrale romanzo di Joyce Carol Oates edito nel 2000), dove il sogno non è la scalata divistica alla mecca del cinema, né la fluttuazione del primo piano dell’attrice nell’inconscio eterno e condiviso del mondo che si nutre dei suoi riverberi in una costellazione mercificata di immagini. In Blonde l’unico sogno dominante nella sua protagonista è la scissione annosa, confusa e da incubo tra il prodotto sexy dello studio system (Marilyn) e la definizione di un’io autentico e contorto (Norma Jeane Baker), senza che il regista australiano esplori le dinamiche e i contrasti transmediali dello status da star, né il ruolo dell’icona al cospetto della Storia (anche del cinema), come hanno indagato di recente Olivier Assayas e Pablo Larraín.

         Per Andrew Dominik il conflitto è una duplicità intimistica e psichica che intacca il regime narrativo e le strategie di messinscena, contaminate da una singola scheggia di una biografia femminile caleidoscopica e misteriosa, quella che la Oates nella sua fluviale scrittura di fiction aveva scandagliato con documentata interpretazione romanzesca tra tenerezza e tragedia e che questo adattamento rivive in una distorsione estetica più cruda e disturbante. C’è una dirompenza di molteplicità di forme in Blonde, un moto ondivago e magmatico di soluzioni discontinue, un’adozione rapsodica di approcci più che di stili, di tagli visivi più che di generi, all’insegna di una reductio ad unum dell’anima di Norma Jeane, con il suo volto più tormentato e fatale, ma paradossalmente anche più amplificato, chiacchierato, mitizzabile: senza logica apparente si alternano quattro formati di schermo (1.00:1, 1.37:1, 1.85:1, 2.39:1), i colori del Technicolor e quelli sbiaditi e disadorni del quotidiano, uno stilizzato e appiattito bianco e nero d’epoca, calchi da scatti di scena e da una ritrattistica d’autore, piani fissi e introspettivi e movimenti di macchina convulsi e schizofrenici, soluzioni ottiche nitide o sfocate, fino a inserti uterini e vaginali di indubbio trionfo Kitsch.

         Come in una foresta intricata di sentieri che mai si biforcano per incanalare la confusione esistenziale e la fragilità insondabile di una donna, non di una diva, incastrata dagli ingranaggi della finzione e della celebrità, dai fantasmi di un’infanzia travagliata e di una maternità negata. Qual è dunque il soggetto in cui s'inabissa Blonde, che, pur non disdegnando la cittadinanza nel biopic, omette l’immagine pubblica e privata che la stessa Marilyn aveva voluto costruire tra rielaborazioni fantasiose e sussurri di verità, che lambisce solo con gli appurati pregiudizi di sfruttamento quella Hollywood aurea che pure incarnò per Norma Jeane, abbandonata e disadattata, desideri esauditi di emancipazione e di riscatto sociale, che inquadra in un taglio minuziosamente filologico e con sguardo bieco i suoi successi di attrice, la sua stella nei capolavori della commedia americana, il suo talento acerbo e poliedrico dosato da lei stessa tra ambizione, autoironia e bisogno di una guida?

         Ne fuoriesce un ingorgo di sequenze di curata rifinitura registica e di intraprendente disponibilità performativa da parte di Ana de Armas (rispettosa sensibilità e scomodo accento cubano) che si erge a seduta psicoanalitica unilaterale e fuorviante, a un j’accuse di presunta carica femminista (decretata dalla stessa Oates) su un personaggio scolpito invece come remissivo, inerte e arrendevole, in controcorrente con interviste, testimonianze e biografie che attestano la sua modernità sui costumi, la sua anticonvenzionalità ante litteram. Eppure Blonde nella sua materia informe, viscerale ed eccessiva, nella sua andatura narrativa greve e scabrosa, nella sua disperazione urlata ma poco costruttiva come critica a un sistema, riesce a imbastire anche strategie ragionate sul cinema come ipnotica e nociva macchina del desiderio, sul consumismo massificato dell’audiovisivo, sulle proiezioni inconsce dello sguardo, sulle venature di morte del voyeurismo.

         All’anteprima hollywoodiana di Gli uomini preferiscono le bionde Marilyn assiste con delusione e senso di colpa alla sua iconica performance canora in abito fucsia; Dominik la inquadra in mezza figura fino a retrocedere con uno zoom per includerla tra un pubblico in estasi, che i riflessi dei colori saturi dello schermo tingono di rosso sangue, citando la carrellata finale di La folla (1928) di King Vidor, uno dei primi affondi di celluloide dell’american dream, racconto di un uomo sfortunato e reietto in una New York senza speranza, a un passo dal suicidio e destinato all’omologazione collettiva. L’ambiguità del divismo e della sua seduzione oculare denuncia la sua centralità nella sequenza della nota ripresa sulla grata in esterno notte sul set di Quando la moglie è in vacanza, dove Dominik ricorre alle formule della reiterazione (il sollevamento della gonna) e del ralenti per filmare la folla di fotografi e fan deliranti per la loro “magnifica preda”, componendo un universo solipsistico di godimento maschile, dal bianco e nero astratto, bidimensionale e iperreale con il bombardamento di flash abbaglianti, dalla sonorità distillata e lugubre di Nick Cave e Warren Ellis e dai primi piani grotteschi e famelici del pubblico (che il regista prenderà in rassegna nella sua lucida follia alla première di A qualcuno piace caldo, con una carrellata laterale in semisoggettiva memore della petulanza verso Marcello Mastroianni in 8 ½ di Fellini).

         Il regista non sottrae inoltre la sua protagonista alla profanazione del corpo in un’ennesima coincidenza con il cinema stesso, quando la discussa inquadratura di una fellatio al presidente Kennedy collima, complice un movimento di macchina a ritroso, con lo schermo di un’immaginaria sala gremita, suggerendo come l’adozione alternata di formati più ristretti in Blonde voglia evidenziare, in un effetto di quadro nel quadro, la spettacolarizzazione morbosa dei media per il tormentato vissuto di Marilyn. Imprevedibilmente però in questo affondo sulle storture scopiche del dispositivo filmico e sul vampirismo mortale del desiderio Blonde riesce a intercettare con più matura presa espressiva le paure, le ombre, la sordità alla vita nelle sequenze prossime alla morte della star, dove Dominik sfoggia un armamentario cinematografico quanto mai funzionale a captare le ellissi, le frizioni e le accelerazioni di una coscienza disperata e narcotizzata.

         Sporche ed errabonde riprese di camera a mano, lividi contrasti chiaroscurali, soggettive irreali, sfocature informi, un montaggio discontinuo di frammenti, intermittenze e lampi, una tessitura sonora ancora più torbida: tutto concorre a un’incastonata pregnanza stilistica onirica, allucinata e inquietante di fosca attrazione che molto si appella al cinema di David Lynch, con il misfatto nella villa che è una trasferta in Mulholland Drive e una scatola che, aperta, riavvolge da capo uno dei traumi di Norma Jeane (Lynch ideò Twin Peaks sulle ceneri di un progetto sulla morte sospetta di Marilyn e alcuni anni fa s'interessò alla trasposizione di Blonde). E forse in questo perturbante archetipo di mistero su una bellezza in pericolo Dominik avrebbe potuto percorrere altre suggestioni, altre possibilità, non intaccate dal pessimismo monocromatico e da un ridondante maledettismo, sulle sotterranee lost highways di un’“orchidea bionda” che Hollywood e la politica ridussero a ennesima dalia nera. (Martina Volpato)

 


SegnoFilm n. 236

Nostalgia

Regìa: Mario Martone                            Orig.: Italia/Francia, 2022

Sogg.: Dal romanzo di Ermanno Rea. Scenegg.: Mario Martone, Ippolita Di Majo. Fotogr.: Paolo Carnera. Musica: motivi vari. Mont.: Jacopo Quadri. Scenogr.: Carmine Guarini. Costumi: Ursula Patzak. Suono: Silvia Moraes. Interpr.: Pierfrancesco Favino (Felice), Francesco Di Leva (don Luigi Rega), Tommaso Ragno (Oreste), Aurora Quattrocchi (Teresa, madre di Felice), Sofia Essaïdi (moglie di Felice), Nello Mascia (Domenico), Emanuele Palumbo (Felice giovane), Artem Tkachuk (Oreste giovane), Salvatore Striano (don Giuseppe), Virginia Apicella (Elena), Margherita Mazzucco (Nina). Prod.: Luciano Stella, Roberto Sessa, Carlo Stella e Maria Carolina Terzi, per Picomedia/Mad Entert./Rosebud Entert. Pictures. Distr.: Medusa Film. Durata: 117 min. 

Dal Cairo, dove è felicemente sposato ed è capo di un'impresa edilizia, Felice Lasco ritorna a Napoli spinto dal desiderio di rivedere la vecchia madre. Aveva lasciato la città quarant’anni prima perché invischiato in un delitto commesso da Oreste, suo amico fraterno. Inizialmente si sente uno straniero, ma via via si riappropria delle sue radici, accudisce la madre che muore poco dopo e confida il suo passato a don Luigi Rega, forte oppositore della camorra di cui Oreste, o’Malommo, è diventato il più temibile boss. Temendo che l’antico delitto possa venire alla luce, Oreste ordina a Felice di sparire, ma l’uomo decide di restare anche a costo di essere ucciso.

Nostalgia 

"Finalmente, dirai, due parole di quel ragazzo che fuggì
di notte... così pronto di cuore lo uccideranno un giorno
in qualche luogo... Ma ora ti ringrazio... quel sorriso
m'ha salvato da pianti e dolori. O morte di pietà,
morte di pudore. Addio, cara, addio, mia dolcissima mater."

Salvatore Quasimodo, Lettera alla madre.

 

         In Madre e figlio di Sokurov un uomo si prende amorevolmente cura della madre morente. In un ribaltamento dei ruoli, in una sorta di Pietà rovesciata, la prende in braccio proprio come in una delle scene più intense di Nostalgia. Lontano dalla tessitura pittorica ricercata da Sokurov persino con l’uso di filtri e lenti anamorfiche, il cinema di Martone rifugge da formalismi estetizzanti per perseguire, mosso da un’istanza etica, semplicità e concretezza. Come per i protagonisti di Morte di un matematico napoletano e di L’amore molesto, quello di Felice è un volgersi indietro per confrontarsi con esperienze e aspetti di sé rinnegati e irrisolti. Lo scenario di quest’erranza della mente è ancora una volta Napoli e in particolare il Rione Sanità che con la sua labirintica topografia ne diviene il simbolico riflesso.

         Nella stanza d’albergo Felice toglie uno specchio per appendervi al suo posto una mappa della città e ne circoscrive le zone del Rione come a significare che in quelle dovrà riflettersi per riconoscere il suo vero volto. L’uomo si toglie l’orologio come ad annunciare una sorta di distensio animi, un entrare nel tempo della coscienza che non ha categorie di misurazione, ma è un flusso senza soluzione di continuità fra il presente, il passato e la progettualità futura. Classici flashback desaturati in un formato di pellicola ridotto rendono fluidi i passaggi visivi dal presente al passato. I ricordi si materializzano e Felice si rivede ragazzo mentre con l’amico Oreste, in sella a una moto, percorre i vicoli stretti e tortuosi o mentre raggiunge il mare in una lunga sequenza che, complici i ritmi rock psichedelici di Lady Greengrass, rende palpabile l’incontenibile vitalità della loro giovinezza.

         Rispetto al romanzo di Rea, il film edulcora i ricordi di quell'amicizia omettendo il turbamento vissuto dal giovane Felice che, pur amando l’amico, aveva sempre tentato di opporsi alle sue scelte malavitose finendo con l’assecondarle senza convinzione, in balia di una rassegnazione fitta di sensi di colpa. Nel romanzo risulta ancora più motivata la necessità, intrisa dal bisogno di espiare gli errori del passato, di opporsi alle minacce di Oreste e la sua scelta diventa emblematica di quella di un’intera comunità che trova il coraggio di sottrarsi a ogni “vile prudenza” (come la definisce Leopardi, alias Il giovane favoloso), a ogni forma di sopruso e, consapevole del valore eversivo della solidarietà, aderisce a concrete proposte di vita alternative alla criminalità. E il film, al pari del romanzo, è anche un omaggio alla comunità di don Antonio Loffredo (impersonato da don Luigi Rega) artefice del lavoro di riqualificazione del Rione Sanità che ha tolto decine di ragazzi dalla strada e dalle grinfie della camorra.

         Edulcorato è anche il rapporto di Felice con la moglie: non è lei a suggerirgli di tornare a Napoli, anzi, la donna lo mette in guardia dalle insidie di quel ritorno troppo a lungo ripudiato. Le loro telefonate non sono sdolcinate dichiarazioni d’amore, la donna piange per quel suo attardarsi e non prende un aereo per raggiungerlo. Riceverà invece una lettera nella quale Felice, pochi giorni prima del suo assassinio, le scrive che tornerà al Cairo proponendole di tornare insieme a Napoli successivamente e di restarci solo se sarà anche lei a volerlo. Il discostamento della sceneggiatura dal romanzo rende la scelta di Felice più plateale e c’è da chiedersi perché la moglie avrebbe dovuto rinunciare al suo paese d’origine dove sembra trovarsi a suo agio: ha una bella casa, un lavoro come medico in un ospedale.

         Anche lo sradicamento iniziale di Felice è ancora più radicale rispetto a quello descritto nel libro: non solo ha quasi dimenticato la lingua materna - il suo italiano è “dolorante e lesionato” - ma ha persino cambiato religione: fa una sorta di abluzione pronunciando Bismillah, non beve vino, non si fa il segno della croce al funerale della madre. È come se il regista avesse voluto rimarcare la potenza risucchiante del passato - una nostalgia al limite della nostomanìa - che via via riporta Felice a pronunciare parole dimenticate, a esprimersi in dialetto, a bere il vino, a praticare rituali propri della pietas popolare come la cura di una delle “capuzzelle” affastellate nel Cimitero delle Fontanelle; finché il suo volto cupo - come quello di Delia in L’amore molesto - si apre al sorriso e il suo corpo rigido, trattenuto, si scioglie nelle movenze di una danza.

         Il Rione Sanità è l’anima pulsante del film. “Napule è mille culure, Napule è mille paure” sono le parole di una canzone di Pino Daniele che si leggono sfocate su una vetrata. Il regista offre un affresco sinestetico di suoni e colori, di forme e rumori. Rifuggendo da una stereotipata rappresentazione della napoletanità, indugia sui volti della gente non per cogliere quella rozzezza sovente esibita con spudorato orgoglio, ma per cercare le tracce di umane verità. Il Rione è mostrato nel suo degrado - palazzi fatiscenti, intonaci sbrecciati, muri imbrattati, citofoni rotti, anfratti bui - ma anche nella sua bellezza. Non tanto quella ben nota (Felice passa da Palazzo dello Spagnolo ma la macchina da presa non si sofferma, come in Il sindaco del Rione Sanità, sulla sua spettacolare scala aperta ad ali di falco) quanto quella più sommessa di un giardino con un albero di limoni che la madre di Felice accarezza per poi toccarsi il volto e sentirne il profumo.

         La bellezza dei luoghi è sempre connessa all’operato dei ragazzi di don Luigi: quella delle catacombe di San Gennaro (restaurate dai ragazzi di don Loffredo) che Felice visita accompagnato da una ragazza, estasiandosi davanti all’affresco della Cerula; o quella del magnifico altare a S. Maria della Sanità posto al di sopra di una scenografica scala a doppia rampa che funge da sfondo ai ragazzi dell’orchestra (il Sanitansamble) che suonano prima del tragico epilogo. Il Rione Sanità con la sua assenza di netti confini fra opposte realtà, tra gli interni e gli esterni delle case, fra il buio dei vicoli e l’azzurro del cielo, fra il caos delle strade e il silenzio delle catacombe, diventa teatro ideale della perpetua lotta fra il bene il male. Inquadrature dall’alto verso il basso - Felice si sente scrutato da figuri affacciati alle finestre - traducono l’incombere di una minaccia nascosta. Anche l’entrata in scena di Malommo è calibrata, lo si vede per pochi secondi di spalle o coperto da un cappuccio e, anche all’inizio dell’incontro con Felice, ha il volto nascosto dalle sue stesse mani.

         Oreste è Caino e uccide l’amico fraterno. Lo uccide non solo perché teme che il suo delitto possa venire alla luce, ma soprattutto perché come Caino è roso dall’invidia. Da ragazzo viveva in un basso e invidiava la casa di Felice a un ultimo piano con vista su Capodimonte; una casa in cui Felice è certo di ritrovare la madre, invece scopre che con un raggiro Oreste ha indotto la donna a venderla e a stabilirsi in un tugurio al pianterreno. Oreste si è sentito abbandonato, ripudiato da Felice e continua a invidiarlo perché si è rifatto una vita altrove, ha avuto successo nel lavoro, ha una donna che lo ama e, una volta tornato a Napoli, ha preferito contare sull’affetto e il sostegno di don Luigi e dei suoi ragazzi. Oreste invidia la vita viva di Felice, la vita che lui non ha, costretto com’è a vivere braccato in una casa dove si aggirano solo ceffi o la prostituta di turno; una vita sterile, come sterili, avvizzite sono le piante sul balcone dal quale si affaccia in solitudine.

         Felice, che ha attraversato il dramma della violenza e a questa ha rinunciato, vorrebbe ristabilire una fratellanza attraverso la parola, ma Oreste lo uccide a sangue freddo. Una tale spietatezza non suscita solo una netta ripulsa come quella provocata da personaggi feroci quali Anton Chigurth/Javier Bardem in No Country for Old Men dei fratelli Coen. Martone, uomo anche di teatro, fa sì che ad essa si aggiunga quello sconcerto che si prova di fronte a figure tragiche travolte da una sorte rovinosa. Oreste - un nome carico di echi nefasti - si commuove, sia pure  per pochi istanti, durante il colloquio con Felice: il suo è un odio impastato di amore, di fascinazione per un uomo che non ha avuto una “famiglia di merda” come la sua. Oreste ha avuto una vita mancante, irrimediabilmente impossibilitata ad essere diversa. Non prova nostalgia, non ha una madre da cui ritornare.

         L’incontro fra Felice e la madre descritto nel romanzo, acquista nel film un decuplicato impatto emozionale. Felice attende solo sull’uscio, a entrare nell’inquadratura sono prima le mani della donna che si protendono per accarezzargli il volto. Le mani, le cure di una madre, leniscono l’evento traumatico della nascita costituito dall’abbandono di un corpo con il quale si era un tutt’uno. La tinozza tonda nella quale Felice immerge la madre per lavarla, è come un utero che l’accoglie e, la scena, in un ribaltamento dei ruoli, è potente immagine del legame viscerale fra madre e figlio e di quella nostalgia rintanata nei meandri della psiche, la nostalgia del corpo materno: un luogo remoto, non ricordabile, non verbalizzabile eppure iscritto nella nostra carne. (Eliana Elia)

 


SegnoFilm n. 235

Licorice Pizza
(Licorice Pizza)

Regìa: Paul Thomas Anderson                            Orig.: U.S.A./Canada, 2021

Sogg. e Scenegg.: Paul Thomas Anderson. Fotogr.: Paul Thomas Anderson, Michael Bauman. Musica: Jonny Greenwood. Mont.: Andy Jurgensen. Scenogr.: Florencia Martin. Costumi: Mark Bridges. Suono: David Acord, Christopher Scarabosio. Eff. Vis.: Crafty Apes. Interpr.: Alana Haim (Alana Kane), Cooper Hoffman (Gary Valentine), Sean Penn (Jack Holden), Tom Waits (Rex Blau), Bradley Cooper (Jon Peters), Benny Safdie (Joel Wachs), Skyler Gisondo (Lance), Maya Rudolph (Gale), Mary Elizabeth Ellis (Anita), John C. Reilly (Fred Gwynne), Emma Dumont (Brenda), Joseph Cross (Matthew), John Michael Higgins (Jerry Frick), George DiCaprio (Mr. Jack). Prod.: Paul Thomas Anderson, Sara Murphy e Adam Somner, per Metro-Goldwyn-Mayer/Focus Features/Bron Pictures/Ghoulardi Film Company. Distr.: Eagle Pictures. Durata: 133 min. 

Gary e Alana s'incontrano, per caso, e non riescono più a stare lontano uno dall’altra. Attraversano Encino a piedi, in macchina, in camion (anche a marcia indietro), corrono spesso per cercarsi dopo essersi persi. Intorno a loro cambia la Storia (non c’è più petrolio), cambia la musica e il cinema, arrivano invenzioni improbabili ma fortunatissime (i materrassi ad acqua), si riprendono abitudini proibite (il flipper). Alla fine si abbracciano e si baciano.

Licorice Pizza 

         C’è la San Fernando Valley degli anni ’70, quella di Boogie Nights e di Magnolia, e ha una data precisa, il 1973, anno della crisi petrolifera: un luogo che PTA conosce bene e un tempo, puntuale, che non ha fatto in tempo a conoscere (lui che è nato nel 1970), ma che si confonde con le memorie dell’infanzia, a partire dalla catena di negozi di dischi che dà il nome al film. C’è un quindicenne, Gary Valentine, attore bambino, che ha recitato in una pellicola con altri sette fratellini e sorelline, insieme alla diva Lucy Doolittle, e ha avviato progetti commerciali con i materassi ad acqua e i flipper: è Gary Goetzman, che gira Appuntamento sotto il letto con Henry Fonda e Lucille (Lucy) Ball e fa anche tutto il resto, prima di diventare produttore, tra gli altri, di Jonathan Demme. C’è Alana, 25 anni, che ha due sorelle ed è Alana Haim, membro del gruppo delle Haim (con le sorelle) di cui PTA ha diretto i videoclip. C’è l’attore Jack Holden interpretato da Sean Penn, che con il regista Rex Blau (Tom Waits) ha recitato in The Bridges of Tokio-San con Grace Kelly: sono William Holden e Mark Robson, e il film si chiamava The Bridges of Tokio-Ri. C’è Jon Peters (Bradley Cooper), futuro produttore di Rain Man e compagno di Barbara Streisand: si chiama proprio così, ma nella vita forse era un po’ meno sessuomane.

         In questa teoria di rifrazioni, spostamenti, imperfezioni e giochi meta-cinematografici c’è, soprattutto, il senso di questo film, che è il racconto di una storia d’amore adolescenziale e di un passaggio in mezzo e intorno al cinema, e quindi di una storia d’amore adolescenziale per il cinema. Tutto, tra Gary, Alana e il cinema, è fuori sincrono, fuori tempo, fuori posto. Gary è troppo giovane, e forse ha già perso “il tocco”, non farà altri film, ma insieme è già un uomo (d’affari) maturo, riesce a intravedere le opportunità commerciali dettate dalla contingenza: da queste propensioni opposte (l’esaurimento attoriali e l’opportunismo economico) derivano i materassi e i flipper. Alana è troppo vecchia, ma forse ha una predisposizione naturale per fare cinema, o forse è solo attratta fisicamente da uomini più vecchi (Holden e Peters), da cui rimane sempre, naturalmente “scaricata” (dalla moto di Holden, con il camion da Peters). Gary e Alana s'incontrano per caso nella sequenza iniziale, divisa in due piani sequenza con la mdp a seguire, scanditi dalla battuta You’re looking at Tony, in cui lui dichiara la sua identità attraverso il proprio alter ego di finzione (il nome del suo personaggio nei film), e corrono insieme in quella finale, quando lei lo riconosce, finalmente, per quello che è (Hi. I love you, Gary), cioè il suo oggetto d’amore.

         In mezzo, succede tutto e anche nulla. Si attraggono, si respingono, si inseguono, si distanziano, si sfiorano (senza mai toccarsi davvero: non c’è sesso fra di loro), potrebbero tradirsi reciprocamente (ma non lo fanno mai fino in fondo: non ci può essere sesso con altri), si corteggiano, si insultano, litigano su chi tra i due è più cool, soprattutto si ricordano vicendevolmente di essere “troppo giovane” e “troppo vecchia”. Non possono stare insieme, se non nella stessa inquadratura, ma non possono stare lontani (sempre nella stessa inquadratura). Inseguono sogni e aspirazioni: Gary sempre in avanti e per il profitto (diventare business man, insomma: produttore), Alana sempre indietro e per l’ideale (“tornare” a fare la volontaria per il candidato sindaco trentenne Joel Wachs). E sempre destinati allo scacco: manca il petrolio per il vinile dei materassi, e Wachs è un cavallo sbagliato, sia politicamente (non ce la farà...) che sentimentalmente (è gay).

         Intorno a loro, come fate e folletti di un Sogno di una notte di mezza estate californiano, ci sono ragazzi e ragazze, bambini, fratellini, sorellone, adolescenti, tutti uguali e tutti diversi, un’umanità giovane fremente, acerba, ancora non compiutamente sessualizzata, che li seguono, li spingono, li assecondano e li aiutano come un’unica entità vitalistica. Una colonna sonora vivente e dinamica, che sembra rispecchiare quella sonora, con Nina Simone e David Bowie, Sonny & Cher e Paul McCartney and Wings, The Doors e Chris Norman & Suzi Quatro, Bing Crosby e Chuck Berry. In mezzo e intorno a loro, c’è prima di tutto il cinema. Licorice Pizza, nel darsi come una scia di mollichine aneddotiche per arrivare dal primo all’ultimo incontro amoroso, è soltanto un’esibizione del cinema (di PTA) nel suo farsi ed esibirsi davanti allo spettatore. È puro cinema, che è un concetto che non significa nulla, e che viene spesso abusato, ma che rimane l’unico per esprimere la capacità del suo regista di mostrare la meraviglia creativa delle immagini, della predisposizione dell’inquadratura, dei debiti del fuori campo al quadro, dell’uscita a destra, a sinistra, avanti e indietro, della luce, del movimento di macchina e del montaggio.

         Si rimane affascinati, nostalgicamente stupefatti dalla possibilità di creare immagini, che non sono pittoriche, ma esclusivamente cinematografiche. In questo è letteralmente un film gemello di Once Upon a Time in... Hollywood, a cui lo unisce (ma è solo un feticcio di chi scrive) l’attraversamento millimetrico nella storia (e nella Storia) di Lucille Ball. Un piccolo sfasamento nel tempo (Cielo Drive è del 1969) e nello spazio (tra Los Angeles ed Encino ci sono una trentina di chilometri), ma lo stesso desiderio di raccontare quel pezzo di realtà e di mostrare come il cinema possa insieme rappresentare e trasformare la realtà. (Andrea Bellavita)

 


SegnoFilm n. 234

West Side Story
(West Side Story)

Regìa: Steven Spielberg                            Orig.: U.S.A., 2021

Sogg.: basato sul musical di Arthur Laurents. Scenegg.: Tony Kushner. Fotogr.: Janusz Kaminski. Musica: Leonard Bernstein. Mont.: Sarah Broshar, Michael Kahm. Scenogr.: Adam Stockhausen. Costumi: Paul Tazewell. Suono: Gary Rydstrom. Eff. Vis.: Digital Domain, Lola Visual Effects, Moving Picture Company, Mr. X. Interpr.: Ansel Elgort (Tony), Rachel Zegler (María), Ariana DeBose (Anita), David Alvarez (Bernardo), Rita Moreno (Valentina), Brian d'Arcy James (agente Krupke), Corey Stoll (ten. Schrank), Mike Faist (Riff), Josh Andrés Rivera (Chino), Iris Menas (Anybodys), David Aviles Morales (Anibal), Sebastian Serra (Braulio), Ricardo Zayas (Chago), Carlos E. Gonzalez (Chucho), Ricky Ubeda (Flaco), Andrei Chagas (Jochi), Adriel Flete (Julito), Jacob Guzman (Junior). Prod.: Steven Spielberg, Kevin McCollum e Kristie Macosko Krieger, per Amblin Entert./Amblin Partners/20th Century Studios/TSG Entert. Distr.: The Walt Disney Company Italia. Durata: 156 min.

L’amore assoluto tra gli adolescenti Tony e Maria è contrastato da due gang in lotta per l’occupazione di un quartiere popolare nel West Side di Manhattan. Quando Riff, leader dei Jets, si accorda con il capo degli Sharks, Bernando, per una resa dei conti definitiva, Tony, ex fondatore ravveduto dei Jets, dietro l’incitamento di Maria interverrà, vanamente, per scongiurare l’irrimediabile. 

West Side Story 

 I cipressi dicono che per Giulietta,
Che per Romeo, una lacrima da un pianeta
Cade, e nelle tombe discende;
Ma la gente dice, e dice accortamente,
Che non sono lacrime, ma pietre,
E che nessuno le attende! (Cyprian Norwid) 

         In apertura un dolly sorvola una wasteland di cenere e rovine; poi una guerriglia tra bande rivali per le strade newyorkesi; un amore splendido, tragicamente shakespeariano; un appuntamento da mezzanotte di fuoco; infine, un bacio e una pistola. Tra gli scorci apocalittici di un film bellico, la fotografia livida e tagliente di un gangster movie che modella la fisicità torva e acerba di angry young men, il candore di un mélo giovanilistico non melenso, i guizzi di un western urbano, le fumosità del destino ineluttabile di un noir notturno, il West Side Story di Steven Spielberg si radica nel paradigma di una ricchezza formale (di codici, di tematiche, di modelli) che si congiunge alla compattezza drammaturgica e all’equilibrio ritmico, senza frenetiche misture tardo-postmoderniste, senza artifici né inganni.

         Dispiegando una profusione di generi nell’orchestrazione del musical che tutto tiene e armonizza (e che dona nuova linfa a un genere in cagionevole salute nell’attuale cinema statunitense), Spielberg, nella sua poetica inossidabile, si allega con coraggio all’ininterrotto successo mondiale dell’omonimo musical di Broadway del 1957 (libretto di Arthur Laurents, parole di Stephen Sondheim e musiche di Leonard Bernstein) e al pluripremiato adattamento cinematografico di Jerome Robbins e Robert Wise del 1961. E in punta di piedi di fronte alla matrice teatrale e al precedente filmico (omaggiato con il personaggio inedito di Valentina/Rita Moreno), ma soprattutto in una svecchiante inversione innovativa, Spielberg spreme l’anima di un racconto popolare nell’eccezionalità di una poliedrica incursione storiografica, politica, interculturale, generazionale nella contemporaneità, con una macchina da presa dinamica e magistralmente invisibile, con lo spirito epico del grande spettacolo, con il nitore e la padronanza stilistica di un classico.

         Dalla romantica scorza pop di un Romeo e Giulietta ambientato a Manhattan nei tardi Fifties Spielberg trascende un affresco sugli orrori del XX secolo e del loro complicato retaggio nelle emergenze sociali dell’oggi, che costituisce l’affrancamento più liberatorio dal manierato film del 1961, insieme ai trascinanti nuovi arrangiamenti musicali di David Newman e Gustavo Dudamel. Se nella prima trasposizione per lo schermo la relazione contrastata di Tony e Maria nell’Upper West Side eludeva la ristrutturazione urbana dell’area di San Juan Hill, qui la demolizione edilizia, che darà spazio al complesso del Lincoln Center a danno della working class, è la miccia incendiaria degli scontri tra Jets e Sharks. Nell’investitura metaforica della messinscena spielberghiana le macerie cantieristiche, i frammenti di architetture fatiscenti, gli imminenti sfratti, i territori rivendicati, i murales divisori si aprono ai traumi bellici novecenteschi e ai loro postumi: il West Side è la Berlino della seconda guerra mondiale e della guerra fredda (nelle stesse marche visive di Il ponte delle spie), è la striscia di Gaza; ma è anche l’Europa delle ondate migratorie, è l’America della Grande recessione, del collasso immobiliare, delle stragi civili da armi da fuoco, della politica antimessicana di Trump. E la sequenza dello scontro, inaugurata da un gioco di ombre affilate e agghiaccianti come se fossimo nella notte tedesca dei “lunghi coltelli”, sancisce, nel suo sfondo ancestrale, nell’aggregazione tribale e nella socialità ferina, una retrocessione dei progressi dell’umanità che è di fatto la sconfitta della Storia.

         Il disagio interiore e comunitario di giovani che si inquietano, fantasticano e arrancano nella precarietà e nei conflitti ereditati dai genitori è filtrato dalla comfort zone del cinema popolare attraverso cui Spielberg suole rileggere il passato e le sue storture, dove sull’asse portante del West Side Story originale si affacciano però anche altri miti, altri linguaggi, altre tendenze, in un corredo eclettico e integrato di palpabile fascinazione immaginifica, nella poesia del sogno di celluloide tanto cara al regista: la baldanza battagliera cita Sfida all’O.K. Corral, Gioventù bruciata, I guerrieri della notte, Rusty il selvaggio; gli slanci ludici di morte sul precipizio della Storia rievocano Giochi proibiti di René Clément; le venature neorealistiche della fauna pugilistica di Bernando richiamano Rocco e i suoi fratelli di Visconti; la finale corsa disperata di Tony tra gli isolati in rovina dialoga con l’ultima passeggiata del bambino di Germania anno zero di Rossellini e si carica simbolicamente di tanta filmografia spielberghiana, con i suoi improvvisati eroi in solitaria e avventurosa lotta con eventi non ordinari.

         Su Maria, Tony, Anita, Bernardo, Riff e gli altri, su questi ragazzi abbandonati e sperduti, affini all’orfana e variopinta brigata di Hook, imparentati, più dei kennediani personaggi del 1961, con i ribelli senza padri e senza causa di James Dean, Spielberg imprime la lezione sull’adolescenza appresa da Truffaut, nella loro caratterizzazione biografica più autentica, nell’umoristica tenerezza della loro irriverenza anarchica (“Gee, Officer Krupke”), nella struggente leggiadria dei loro sentimenti (“One Hand, One Heart”), nella rivendicata intraprendenza delle figure femminili, nella fresca vitalità di attori quasi tutti esordienti non doppiati nel canto, con una cinepresa comprimaria danzante che ingloba nella sua sintassi hollywoodiana una dirompente dischiusura e ariosità on the road, in consonanza con i soffi di rinnovamento artistico di quegli anni prediletti da Spielberg.

         E nella consapevolezza registica delle secolari incrinature dell’american dream, utopia e inquietudine, contemplazione e malinconia, riscatto e rimpianto concorrono e si compenetrano anche nella stessa sequenza, attraverso la pastosa dimensione fotografica di teatrali cromatismi e gelidi bagliori firmata dal fedele Janusz Kaminski. Come nella scena al balcone di “Tonight”, modulata, a differenza del musical di Robert Wise, sulla tensione della vertigine, sulla rottura figurativa dell’inquadratura, sui controcampi molto angolari, ma anche infiammata da quello sguardo in alto di Tony verso un fuori campo di incanto (Maria) che è la composizione più iconica del cinema spielberghiano.

         Se nel 1982 (E.T.) l’inclusione della diversità si compiva attraverso l’amicizia tra un bambino e un alieno, qui scorre, contro i pregiudizi etnici, nell’amore tra un polacco e una portoricana, relegato, però, nella controluce opaca di un ingarbugliato presente di integralismo e razzismo, alle quinte di una festa studentesca, al buio di una sera d’estate, al sottosuolo della metropolitana, alla cripta di una cattedrale. Un dolly finale, in simmetria con l’incipit, si eleva lungo una scala antincendio, che omaggia quella di Tony per congiungersi con Maria e che addita, su un fondale funereo, un percorso di accettazione e tolleranza ora ancora in salita. (Martina Volpato)

 


SegnoFilm n. 233

Il potere del cane
(The Power of the Dog)

Regìa: Jane Campion                            Orig.: UK/Can./Austral./N. Zel./USA, 2021

Sogg.: basato sul romanzo di Thomas Savage. Scenegg.: Jane Campion. Fotogr.: Ari Wegner. Musica: Jonny Greenwood. Mont.: Peter Sciberras. Scenogr.: Grant Major. Costumi: Kirsty Cameron. Suono: Dave Whitehead. Interpr.: Benedict Cumberbatch (Phil Burbank), Kirsten Dunst (Rose Gordon), Jesse Plemons (George Burbank), Kodi Smit-McPhee (Peter Gordon), Geneviève Lemon (Mrs. Lewis), Kenneth Radley (il barista), Sean Keenan (Sven), George Mason (Cricket), Ramontay McConnell (Theo), David Denis (Angelo), Cohen Holloway (Bobby), Max Mata (Juan), Josh Owen (Lee), Alistair Sewell (Jock), Eddie Campbell (Stan), Alice Englert (Buster), Jacque Drew (Jeanie). Prod.: Jane Campion, Iain Canning, Roger Frappier, Tanya Seghatchian e Emile Sherman, per See-Saw Films/Brightstar/BBC Films/Cross City Films/Max Films Intl./New Zealand Film Commission. Distr.: Lucky Red. Durata: 126 min.

Montana, 1925. Due giovani fratelli molto diversi, il timido e misurato George e il rozzo e vigoroso Phil, amministrano un grande ranch in una routine immobile, fino a quando nella tenuta giunge Rose, la neosposa di George. La bella vedova con il figlio Peter costituisce un affronto agli occhi dell’invidioso Phil, che perpetuerà nei confronti dei nuovi inquilini una lenta e usurante rivalsa.

Il potere del cane 

         “Se non riesci a vederlo non c’è”, spiega Phil a un mandriano che gli chiede cosa abbia scorto nel gioco chiaroscurale delle increspature rocciose di un rilievo collinare ipnotico e inquietante. Una sentenza lapidaria con cui il protagonista si trincera nel suo inscalfibile carisma di mentore e padrone per custodire il frammento di un vissuto sofferto e segreto e che è anche un tassello di una politica di visione su cui Jane Campion ha orchestrato la sua pellicola statuaria e controcorrente. Il potere del cane, tratto dall’omonimo romanzo di Thomas Savage del 1967, coniuga la scienza e la pratica del saper vedere con una sensualità tattile trascendente l’immagine filmica e con la sofisticatezza psicologica di finissime e sussultanti sonorità, in una compenetrazione di sensi che diventa matrice di senso, in fedele adesione alla filmografia precedente della regista.

         Se Phil, il rude e glaciale tenutario del ranch, cela un laurea a Yale in lettere classiche che è un sintomo dell’opacità della superficie dell’esistente, il giovane Peter con i suoi studi di anatomia diventa non solo interprete di una lucidità di sguardo che gli permette d'individuare l’ombra del cane fra i pendii, ma anche di tessere la verità nascosta sotto l’invisibile, nell’emblema della fatale corda che sta preparando per un finale pragmatico, amaro, non riconciliante. E proprio su una violenza sottratta ai clamori dell’evidenza si impernia la narrazione di Il potere del cane, enigmatico titolo tratto dai Salmi biblici che alludono alla prevaricazione del più forte, incarnato, nel Montana del 1925, nel machismo di un ricco proprietario terriero che discrimina le diversità di genere (donne e ragazzi effeminati) e le scorie della controversa Storia statunitense (gli Indiani d’America).

         Ed è sulla cognata Rose che si esercita quella brutalità psicologica che Jane Campion scolpisce e analizza con la padronanza dell’antropologa dell’anima quale è, allestendo come teatro di osservazione di questo livido dramma familiare uno spazio angoscioso non circoscritto, nella linearità tra gli interni domestici, lindi e decorosi ma scabri di umanità, e le sconfinate praterie assolate che non vibrano però di echi del sublime, né delle suggestioni elegiache che allestisce invece Kelly Reichardt. Con Rose la regista richiama i bagliori più rappresentativi del suo cinema, dalla dedizione al medesimo strumento di Lezioni di piano (1993) alle schegge di orrore improvviso di In the Cut (2003), fino ai fiori increspati che rievocano la grazia sartoriale di Bright Star (2009), inabissando però qualsiasi vagheggiamento estetico nell’ombrosità di una terra di dominio maschilista, nel soffocamento impalpabile di una persecuzione invasiva da parte di Phil, che diventerà il vicolo cieco della depressione più alcolica e l’anticamera di un possibile suicidio.

         Jane Campion translittera le forme più subdole e luciferine dell’abuso mentale, marginalizzato e virgolettato dal chiacchiericcio mediale, in strategie uditive semplici quanto eleganti che s'iscrivono in una regìa calibratissima che sfiora la perfezione (premiata con il Leone d’argento a Venezia), con un tessuto sonoro in cui la minaccia, il trauma e l’orrore serpeggiano nel cigolio di una porta, nell’intonazione di un motivetto fischiato, nelle poche note di un banjo, come solo il vero Male sa fare, perché “se non riesci a vederlo non c’è”, o meglio, se ne può ipocritamente negare l’esistenza.

         Il contraltare a questo percorso introspettivo sull’impotenza e sullo svuotamento nel dolore è la carica seducente che la cinepresa compone nei dettagli più dimessi eppure così poetici e liberatori, redenti da squarci di una fotografia più carezzevole e contemplativa: stelle tuttavia “irraggiungibili”, per citare le parole di Peter, spiragli di serenità imbrattati dal fuoco e dal sangue (le decorazioni floreali bruciate, il coniglio squartato o spezzato in due) al cospetto dell’uomo, in una natura apatica e non consolatoria, in una terra del nulla polarizzata dall’instabilità di disagi sociali in realtà complementari, quelli di Rose e Phil.

         Se la prima nella fragilità impacciata durante una cena di gala con il governatore svela le fratture di un’America rurale troppo acerba per le accelerazioni di modernità forsennata alle soglie del tragico 1929 e accenna, sul crinale del tracollo nervoso, alla Grande Depressione che investirà a breve la provincia statunitense, il secondo si fa carico dell’inadeguatezza e dello sradicamento di chi viene privato del suo posto del mondo. Nel dissidio interiore di Phil tra desiderio e cultura la macchina da presa gli offre l’effimera e agognata centralità non solo in numerose inquadrature ma anche in soluzioni visive di quadro nel quadro, stagliando su uno sfondo luminoso squisitamente cinematografico la sua sagoma funestamente nera, profeticamente funerea.

         Con l’intrusione di Phil in un immaginario collettivo di eroine fragili, non allineate e intraprendenti che distinguono il cinema della regista, ci si apre a una controtendenza senza rottura, dove attraverso l’inconciliabilità esistenziale non priva di slancio vitalistico propria anche di questo personaggio lo sguardo antropologico della regista persegue il suo studio critico sull’afasia dell’ipocrisia domestica, sulla tossicità del patriarcato familiare, sulla problematica gestazione di una personale rinascita, sulle intemperie morali che la società riserva all’alterità, ma anche sulla bellezza della resilienza, riversata sull’esile fisicità di Peter. Proprio nella simbiosi tra Rose e il figlio Peter la Campion firma quello che è un ritorno alle origini, una regressione ancestrale al suo vissuto giovanile di figlia e cineasta. Dietro l’incipit dedicato alla Madre traspare infatti la figura materna dell’autrice, che con le sue traversie psicologiche ha ispirato tante sue pellicole e che qui trasfigura in controluce Il potere del cane in un inaspettato inno al sacrificio filiale. Ma tra le radici del film si scorge anche il video d’esordio Mishaps of Seduction and Conquest (1984), che narra le sfide parallele di due uomini sull’Everest nel 1924, una contro la natura in una scalata impervia, l’altra imbrigliata nel desiderio per una donna.

         Questo mélo temperato che del western possiede solo un certo manto iconografico affresca un microcosmo di un Eros senza civiltà che è soprattutto la prima espressione filmica autentica e raffinata delle istanze civili del #MeToo, un affondo senza retorica e senza moralismo della mascolinità tossica, in correlazione al coevo road movie, erroneamente spacciato per western, di Clint Eastwood. Insomma, cry macho. (Martina Volpato)

 


SegnoFilm n. 232

Il collezionista di carte
(The Card Counter)

Regìa: Paul Schrader                            Orig.: U.K./U.S.A./Cina, 2021

Sogg. e Scenegg.: Paul Schrader. Fotogr.: Alexander Dynan. Musica: Robert Levon Been, Giancarlo Vulcano. Mont.: Benjamin Rodriguez Jr. Scenogr.: Ashley Fenton. Costumi: Lisa Madonna. Suono: Ben Wilkins. Interpr.: Oscar Isaax (William Tell), Tiffany Haddish (La Linda), Tye Sheridan (Cirk), Willem Dafoe (Gordo), Alexander Babara (Mr. USA), Bobby C. King (Slippery Joe), Ekaterina Baker (Sara), Bryan Truong (Minnesota), Dylan Flashner (serg. Hoskins), Adrienne Lau (Crystal), Joel Michaely (Ronnie). Prod.: David M. Wulf e Andrea Chung, per Focus Features/LB Entert./Astrakan Film AB/Bona Film Group/Convergent Media/HanWay Films/One Two Twenty Entert. Distr.: Lucky Red. Durata: 111 min.

William “Tell” (Tillich) è un giocatore di poker professionista girovago, granitico e inquieto, ex detenuto per torture militari in Afghanistan. In uno dei tanti casinò incontra Cirk, figlio di un commilitone dallo stesso trascorso morto suicida, che tenta di convincerlo a vendicarsi di un istruttore di famigerate tecniche di interrogatorio che non ha scontato alcuna pena. Diventando un mentore per Cirk, William lo devia dai suoi propositi insieme alla sua socia, La Linda, ma qualcosa di inaspettato segna il destino di tutti.

Il collezionista di carte 

         I titoli di testa di Il collezionista di carte, battezzati dal nume tutelare del produttore esecutivo Martin Scorsese, si svelano su sonorità grevi e inquietanti, sullo sfondo verde di un tavolo da poker; i titoli di coda, invece, sono suggellati da un’inquadratura che fa traspirare un soffio di speranza e redenzione: il particolare fisso di dita che quasi si sfiorano, nell’intermezzo del vetro divisorio in un carcere. È tra queste polarità che, dopo il magistrale First Reformed (2017), risiede l’ultimo capitolo dell’attuale evoluzione filmica di Paul Schrader, tra l’enunciazione iniziale, poi progressivamente elusa, di un prodotto di genere dove il gioco d’azzardo non è che un pretesto (o un “paravento”, come scriverebbe Schrader) e, dall’altra parte, una chiusura referenziale, un frammento liberatorio desunto dal finale di American Gigolò (1980), con l’intreccio di mani nella grata che cita Pickpocket (1959) di Robert Bresson. 

         Con Il collezionista di carte Schrader perpetua fieramente l’inattualità del suo cinema nei confronti della produzione audiovisiva predominante, dall’allettante facilità commerciale del revenge movie, che pure sovente si affaccia quasi a voler adescare alcuni snodi del plot, all’intrattenimento cerebrale di quei gambling movies che hanno sposato visioni d’autore, come recentemente Molly’s Game (2017) e Diamanti grezzi (2019); un’obliquità anche stilistica che tende all’asciuttezza narrativa, a una compattezza drammaturgica e al prosciugamento dell’enfasi e di ogni psicologismo (con l’adesione interpretativa di Oscar Isaac), ma praticando tutte le strategie formali per una parabola avvincente e inesorabile come l’arco di Wilhelm Tell (anche appellativo del protagonista).

         Un film che in un ritorno primordiale si appropria, in particolare nello studio sul personaggio, delle tendenze di quella New Hollywood che Scharder da sceneggiatore ha contribuito a forgiare per rievocare un’attualità geopolitica sotterrata negli anni e ora urgente, quei crimini militari di Abu Ghraib denunciati nel 2004, quelle sevizie dei soldati statunitensi verso i detenuti iracheni: girato un anno prima dell’emergenza afgana in corso, è una pellicola non tanto profeticamente anticipatrice dei decorsi della Storia, quanto conscia dell’eterno ritorno degli errori dell’imperialismo a stelle e strisce. 

         Su William, figlio ripudiato dell’American Dream dalla fisicità modellata ma disadorna e dal volto di opaca trascendenza, su questo asceta dei “non luoghi” claustrofobici dell’immaginario cinematografico della provincia polverosa (motel, diner, cocktail bar, casinò), su questo ex torturatore in impossibile conciliazione con l’esistenza, si riflette, tra gli squarci di una fotografia iperrealista e il monocolore di una quotidianità ancora senza identità, l’aggancio di Schrader a una contemporaneità marchiata e insolubile, ma anche la scrittura di quello che è forse il suo film più personale, vibrante di richiami, echi, suggestioni del suo passato di cineasta, per nulla stucchevole tanto da orchestrare un’estetica modernamente coerente. 

         Dalla consuetudine diaristica propria del curato di campagna dell’amato Bresson, di Travis Bickle in Taxi Driver (1976) e di First Reformed, dall’essenzialità figurativa della cella carceraria di Un condannato a morte è fuggito (1956), all’itinerario per gli States in compagnia del giovanissimo e sprovveduto Cirk che è l’inverso della ricerca discendente e infernale del padre che ha perduto la figlia in Hardcore (1979), fino al tripudio ipnotico di luci che è una sospensione del bieco e gelido reale, come in The Canyons (2013): Il collezionista di carte scolpisce un angelo imbrattato che è un archetipo di molti personaggi schraderiani sulla via di una salvezza già preclusa; che scrive le sue memorie da un sottosuolo dostoevskiano di colpe latenti, innocenza perduta, autocontrollo serafico e sovrumano, malinconica solitudine, come il detective di Yazuka (1974) di Sydney Pollack; che come Travis Bickle si prefiggerà una meta che è un itinerario a vicolo cieco, perché il ritorno in carcere è predestinazione nel futuro di questi uomini su cui Schrader suole proiettare la sua educazione calvinista. 

         Il giocatore del film non è un collezionista, ma un professionista che ha appreso in cella la mnemotecnica del conteggio, assurto, come il poker, a metafora della capitalismo globalizzato (ma anche dello show business), della monetizzazione dell’umano e del conseguente accecamento di fronte all’invisibile dei sentimenti: William, infatti, infettato da un sistema che lo tiene però ai margini e non punisce i gerarchi militari, tenta di riscattare Cirk da pulsioni vendicative a suon di dollari, contando le banconote concesse per comprare, in promessa, il suo ritorno a casa e un futuro più ordinario. Il fallimento di tale missione attesta non solo la perpetua illusione di quel Sogno diventato Incubo, ma anche la crisi di quell’ideale paterno (così carsica in molto recente cinema nordamericano) che Tell non è riuscito a rivestire per Cirk, che gli Stati Uniti non hanno rivestito per i giovani in guerra e che Schrader ha esplorato nell’arco di decenni in Affliction (1997) e nella trilogia sulla pornografia (Hardcore, Autofocus, The Canyons).

         E nel racconto del regista così votato alla traslazione simbolica (non casualmente, il giocatore di fronte a cui Tell andrà in tilt ha una berretto con la scritta “USA”), eppure così connesso alla concretezza di un disagio individuale ed epocale, si staglia un’allegoria femminile di rottura con le tradizioni di genere, con quell’aura stilnovista che da sempre riflettono le salvifiche donne di Schrader: La Linda (“la bella”), misteriosa finanziatrice che come gli altri personaggi in questa tragedia dello sradicamento e della precarietà esistenziale ha un nome “altro”. Di una bellezza non convenzionale, calorosa e scevra di cliché ornamentali, apre un varco fuori dal microcosmo virtuale, ovattato e solipsistico del protagonista, ma si riveste anche di quella Grazia bressoniana che il regista ha cercato altrove nei suoi film. In First Reformed era la cascata di boccoli dorati di Amanda Seyfried sul volto di Ethan Hawke, qui sono le dita bianche e quelle afroamericane che tentano di congiungersi: è l’icona dell’alba di una nuova America possibile in cui Schrader ripone l’unica vera fede consolabile. (Martina Volpato)

 


SegnoFilm n. 230

The Human Voice
(The Human Voice)

Regìa: Pedro Almodóvar                             Orig.: Spagna, 2020

Sogg.: liberamente ispirato all'opera di Jean Cocteau. Scenegg.: Pedro Almodóvar. Fotogr.: José Luis Alcaine. Musica: Alberto Iglesias. Mont.: Teresa Font. Scenogr.: Antxón Gómez. Costumi: Sonia Grande. Suono: Sergio Burmann. Eff. Vis.: El Ranchito. Trucco: Ana Lozano. Interpr.: Tilda Swinton (Lei); Agustín Almodóvar, Miguel Almodóvar, Pablo Almodóvar, Diego Pajuelo, Carlos García Cambero. Prod.: Agustín Almodóvar e Esther García, per El Deseo/S.L.U. Distr.: Warner Bros. Italia. Durata: 30 min.

Una stilosa attrice âgée aspetta da giorni la telefonata dell’amante che ha deciso di lasciarla. Nell’ansia dell’attesa si aggira nel suo elegante appartamento insieme a un cane, anch’esso smarrito per l’assenza del suo padrone; rompe alcuni oggetti, colpisce un vestito dell’uomo con un’accetta appena acquistata, prende una buona dose di farmaci e si addormenta. Il cellulare squilla. A svegliarla è il cane. Nel colloquio telefonico la donna, dopo aver finto di essere padrona della situazione, fa emergere le sue angosce; ma quando l’uomo le comunica che non terrà con sé il cane e che manderà qualcuno a prendere le sue valige, chiude il telefono e con il cane lascia l’appartamento non prima di avergli dato fuoco.

The Human Voice 

“Discutevamo su chi avrebbe tenuto / il cane... Chi spiegherà
 tutto questo / al cane?... O Blizzard / dovrai essere un cane
coraggioso - tutto questo / è materiale; ti sveglierai / in un
mondo diverso, mangerai di nuovo, diventerai / un poeta!”
(Louise Glück, Vita Nova)        

         La più che trentennale fascinazione per La voix humaine di Cocteau ha innescato in Almodóvar un duplice movimento che da un lato va a confermare l’auctoritas della pièce, dall’altro la scompagina intaccando il paradigma della femme abandonnée sottomessa, autocolpevolizzante, incapace di riconoscere la pusillanimità in colui che l’abbandona; un paradigma riproposto verbatim dalla celebre ma anacronistica interpretazione di Anna Magnani in L’amore di Rossellini. La donna abbandonata almodovariana, pur ferita, devastata dalla perdita, sull’orlo dell’autodistruzione, acquisisce gli strumenti per reagire, confrontarsi con i suoi fantasmi interiori e andare avanti. In La legge del desiderio (1987) Carmen Maura recita un frammento del monologo di Cocteau e, nell’attesa della telefonata, colpisce con un’accetta il set in cui si trova; attorno a questa attesa, senza un esplicito riferimento alla pièce, è costruito il film Donne sull’orlo di una crisi di nervi (1988) e la stessa Carmen Maura finisce con il bruciare il letto abbandonato dall’amante.

         L’accetta e il fuoco ritornano in The Human Voice e l’intertestualità, esplicitata sin dalla scelta del titolo, abbraccia le precedenti opere del regista - che autoreferenzialmente si cita - come anche quelle di altri autori del passato e del presente. I veementi colpi d’accetta con i quali la Swinton infierisce sul vestito posato sul letto sono pari a quelli con i quali Joan Crawford, in Strait-Jacket (1964), uccide il marito che dorme accanto alla sua amante; il grande negozio di ferramenta che espone in ordine perfetto i più vari attrezzi delle più varie dimensioni ricorda quello in cui, in Elle (2016), Isabelle Huppert acquista un’ascia. Altri personaggi femminili “volitivi” sono evocati dai Dvd di Kill Bill e Phantom Thread che il regista rende visibili su un tavolo insieme a quelli di alcuni fra i più noti melodrammi di Sirk la cui tavolozza di passioni e di colori saturi e accesi torna a permeare l’immaginario di Almodóvar anche nella brevitas di The Human Voice.

         Curatissimo è il décor con gli arredi di noti designer: il sofà di Knoll, le poltrone di Adrian Pearsall, gli scaffali di Charlotte Perriand con i vasi di Sottsass, le lampade di Foscarini, le tazze di Hermès. Si delinea il gusto raffinato della protagonista, nonché del regista; gli oggetti tuttavia, così presenti e preziosi - come quelli che in Dolor y Gloria riflettono la fama, la ricchezza del protagonista, ma non ne colmano il vuoto interiore - diventano irrilevanti, superflui rispetto all’assenza della persona amata e possono pertanto essere anche scaraventati, bruciati. I quadri sembrano chiosare la condizione del personaggio: la sua solitudine è come suggerita da una foto di Almodóvar ispirata alle nature morte di Isabel Quintanilla; la Venere dormiente di Artemisia Gentileschi è il ritratto di una donna che, come lei, si addormenta senza il suo amante; l’incarnato seducente della giovane attrice ritratta in Memories of Olive di Alberto Vargas contrasta con il pallore del suo volto; l’ultimo dolente abbraccio fra Ettore e Andromaca di Giorgio De Chirico è il desiderato abbraccio d’addio che l’uomo le nega.

         Anche se infedele al testo del monologo, riscritto in tutte le sue parti, Almodóvar usa e palesa l’artificio cinematografico per restituirne l’originaria teatralità. Il raffinato appartamento che sostituisce la camera con il letto disfatto immaginata da Cocteau, è costruito come su un palcoscenico all’interno di uno studio cinematografico. Le inquadrature rivelano infatti le strutture in legno esterne dei muri dell’appartamento, l’assenza dei soffitti, lo spazio chiuso sul quale si affaccia il balcone. Un set nel set: quello grigio, spoglio, imponente come un hangar racchiude l’altro, una sorta di dorata casa-gabbia di bambole, e in entrambi sia la donna che il cane si muovono nella pena dell’attesa.

         La commistione fra cinema e teatro è annunciata nell’incipit: nello studio la Swinton è in scena di spalle filtrata da uno schermo trasparente, la parte inferiore del vestito è però fuori dal rettangolo e rivela l’intensità del rosso. L’onnipresente rosso-Almodóvar invade lo schermo nell’incipit di Julieta: è il colore del vestito della protagonista; l’abito della Swinton è ancor più maestoso, la struttura rigida della crinolina lo rende ampio, regale e la donna cammina come una regina imbozzolata nel suo dolore, una Maria Stuarda che va verso il patibolo vestita di rosso ma, nella surreale affiche del film, è lei a tenere l’accetta in mano. Sedutasi su uno sgabello, un primo piano rivela il suo volto afflitto che sospira. Con uno stacco netto, sottolineato dalla musica che da malinconica si fa minacciosa, l’abito indossato non è più rosso, ma nero. Ad essere inquadrati sono prima gli inquietanti stivaletti (i Black Finger Toe Boots di Balenciaga) che, delineando la forma delle dita, le fanno sembrare come carbonizzate.

         Seduta sullo stesso sgabello, anche la postura è mutata, il collo non più eretto è reclinato in avanti, i bulbi oculari si muovono più velocemente perduti nel vuoto: è lo sguardo di una folle. Il dolore e la follia, ben esemplificati nell’incipit, sono continuamente espressi dalla protagonista non solo dalla sua voce umana ma da ogni suo gesto. Il dolore per l’abbandono non la induce a sminuire o a rinnegare la potenza dell’amore vissuto, ma la lascia sperduta come sperduto è il cane che abbaia e guaisce nella spasmodica ricerca del suo padrone. La Clozapina visibile nel cassetto del comodino, il terrore di colpire con i coltelli (un disturbo ossessivo-compulsivo da lei stessa drammaticamente descritto), sono i segni della sua mente instabile, ma la donna riesce ad arginare la follia, la perdita totale del controllo. L’accetta (il cui acquisto è nell’unica sequenza girata fuori dal set) non uccide, è un mezzo per sfogare la sua rabbia e simbolicamente diventa lo strumento di un possibile processo riparativo.

         Insieme ad altri attrezzi (con i quali si aggiusta, si ripara o si dà forma a cose nuove), l’accetta appare nei bellissimi titoli di testa che nei film di Almodóvar non sono mai banali bensì concorrono a suggerire possibili chiavi di lettura. Con un originale lavoro di digital collage gli attrezzi diventano le lettere che compongono i nomi: un seghetto ad arco è la D, tre giraviti compongono la A, una pinza è la V, l’accetta la L e così via. Il processo di riparazione è suggerito anche dall’ultima mise della Swinton. Dopo i monocromatici, austeri abiti haute couture, indossa un bizzarro insieme di capi e anche la sua espressione assume un altro piglio. Il monologo di Cocteau si conclude con le disperate parole della donna che, accasciata sul letto, implora l’uomo affinché chiuda il telefono.

         In The Human Voice è invece lei a riattaccare, non prima d’aver fatto sentire il divampare del fuoco, che altro non è che l’immagine della sua determinazione a chiudere con il passato. Il suo volto è illuminato dalle fiamme; ma non si lascia bruciare come una Didone abbandonata. Si allontana con il cane: sarà lei il suo nuovo padrone e insieme affronteranno quel dolore che li accomuna. Dolor y Gloria termina con l’inatteso svelamento di un set che mostra come il protagonista abbia trasformato la crisi depressiva, i traumi, i ricordi in un atto creativo di cui lo spettatore è stato via via reso partecipe. The Human Voice finisce invece con l’uscita dal set; la donna va incontro a una vita nuova, ed è come se, dopo l’esperienza arricchente, corroborante della visione, sia lo stesso spettatore ad attraversare quella porta che si apre verso l’aria, la luce, i rumori del mondo reale. (Eliana Elia)

 


SegnoFilm n. 229

Nomadland
(Nomadland)

Regìa: Chloé Zhao                             Orig.: U.S.A./Germania, 2020

Sogg.: basato sul libro di Jessica Bruder. Scenegg.: Chloé Zhao. Fotogr.: Joshua James Richards. Musica: Ludovico Einaudi. Mont.: Chloé Zhao. Scenogr.: Joshua James Richards. Costumi: Hannah Peterson. Suono: Sergio Diaz. Interpr.: Frances McDormand (Fern), Gay DeForest (Gay), Patricia Grier (Patty), Linda May (Linda), Angela Reyes (Angela), Carl R. Hughes (Carl), Douglas G. Soul (Doug), Ryan Aquino (Ryan), Teresa Buchanan (Teresa), Karie Lynn McDermott Wilder (Karie), Brandy Wilber (Brandy), Makenzie Etcheverry (Makenzie), Bob Wells (Bob), Annette Webb (Annette), Rachel Bannon (Rachel), Charlene Swankie (Swankie), David Strathairn (Dave). Prod.: Chloé Zhao, Peter Spears, Molly Asher, Dan Janvey, Emily Jade Foley, Geoff Linville e Taylor Shung, per Cor Cordium Prods./Highwayman Flms/Hear-Say Prods. Distr.: VoD in streaming. Durata: 107 min.

Gli abitanti di Empire, una cittadina aziendale nel Nevada, si ritrovano senza lavoro e senza casa dopo la chiusura nel 2011 della cava di gesso. Fern, una donna di sessant’anni che ha già perduto l’amato marito Bo, si mette in viaggio alla ricerca di lavori stagionali vivendo in un furgone. Incontra altri nomadi, soprattutto anziani, finiti sulla strada dopo la grande recessione del 2008. Fa amicizia con Linda May, Swankie, David e Bob Wells, fondatore del “Rubber Tramp Rendezvous” che annualmente si svolge a Quartzsite, nel deserto dell’Arizona. Dopo un anno Fern sempre più considera il suo furgone la sua casa e la strada la sua vita.

Nomadland 

“Disperati, fieri, appassionati, malati, dagli uomini accettati,

dagli uomini rifiutati / Vanno e vanno! So che vanno,

ma non so dove, / Però so che vanno verso il meglio -

verso qualcosa di grande”.

(Walt Whitman, Song of the Open Road)

         Con uno stile limpido, delicato, malinconico, ma capace anche di far sorridere, Nomadland documenta uno spaccato della realtà americana contemporanea nel quale s'innesta la vicenda di un personaggio che, come in The Rider (2017), deve confrontarsi con una ferita subìta prima ancora che la storia abbia inizio. In The Rider la ferita è concreta, visibile nella sua crudezza sul cranio lacerato del giovane protagonista; in Nomadland è percepibile nello sconforto che Fern prova quando, nell’incipit, rovistando fra le scatole per decidere cosa portare con sé, stringe al petto una giacca: quella del marito perduto che ripetutamente indosserà durante il suo peregrinare.

         A salvare il giovane rider - come il protagonista di Songs My Brothers Taught Me (2015) - sono gli affetti familiari; a sostenere Fern nel suo percorso è la comunità di nomadi descritta da Jessica Bruder in un libro-inchiesta dal quale Chloé Zhao attinge a piene mani per costruire una salda e inconsueta sceneggiatura nella quale la vicenda di Fern, personaggio di finzione, si incunea in quella dei veri nomadi che interpretano se stessi. Anche in Songs My Brothers Taught Me e inThe Rider la regista aveva chiamato non attori a interpretare se stessi, riproponendo i loro stessi nomi, gli stessi legami di parentela, le stesse vicende personali. In entrambi i film i protagonisti sono i discendenti dei Lakota Sioux della riserva di Pine Ridge di cui la regista ne mette in luce la povertà, l’alto tasso di disoccupazione, l’alcolismo, ma anche il desiderio di mantenere vive le tradizioni, i canti, i rituali (come nella danza piena di colori nel finale di Songs My Brothers Taught Me).

         In Nomadland i protagonisti non sono i discendenti dei Lakota Sioux, sembrano tuttavia incarnare lo spirito di quell’antico popolo: sono nomadi anche loro, attraversano gli stessi paesaggi sconfinati dell’Ovest; non seguono le mandrie dei bisonti, ma sono comunque in cerca di un sostentamento. Non si muovono a cavallo, ma con furgoni e camper che fungono anche da abitazione come i tepee, le tende pronte per essere smontante, trasportate e rimontate altrove. Un’inquadratura dall’alto, che riprende i camper parcheggiati in cerchio nel deserto, richiama l’assetto di un accampamento indiano, come pure il loro radunarsi attorno a un fuoco per cantare, narrare storie, onorare la morte di un amico ripropone il desiderio di essere e sentirsi tribù. Ad accomunarli è uno stile di vita semplice - barattano i propri oggetti, si scambiano consigli - a stretto contatto con la natura percepita con sentimento panico.“Volavo con le rondini” afferma Swankie mentre racconta a Fern la sua esperienza in Alaska quando, attraversando un fiume in kajak, vide le rondini volare, riflettersi nell’acqua mentre i gusci delle uova, schiudendosi nei nidi abbarbicati sulla scogliera, cadevano nelle sue mani. Il racconto è riproposto anche attraverso le immagini poco nitide ma suggestive di un video che la donna, tornata in Alaska per rivivere quell’esperienza prima di morire, invia a Fern sul cellulare.

         Anche Fern sente sempre più forte il richiamo della natura e ne scopre il potere benefico. Significativa è la scena in cui lascia che l’acqua di un torrente avvolga il suo corpo nudo, disteso, immobile. O mentre passeggia fra le millenarie sequoie a Redwoods Park fermandosi ad abbracciare un tronco possente che, come in un'inquadratura di Malick, viene ripreso dal basso e via via verso l’alto per meglio coglierne la maestosità e lo slancio verso il cielo. O, ancora, quando giunge sulla costa del Pacifico e non può che riempirsi di incanto contemplando l’immensità dell’oceano, il frangersi delle onde agitate dal vento da cui, toltosi il berretto, si lascia scompigliare i capelli per meglio avvertirne il soffio vitale. Fern non è Pocahontas, né un’altra delle esili e svolazzanti figure femminili presenti nei film di Malick, ma non meno autentico è il suo stupore: quando scorge un bisonte sul ciglio di una strada, quando guarda le stelle, quando saltella con fare infantile fra le masse rocciose delle Badlands, un paesaggio ancestrale di cui la regista, ancor più che in The Rider, coglie la drammatica bellezza soprattutto attraverso la soggettiva di Fern che metafilmicamente la scruta dal foro di una pietra.

         Ricorrenti sono in Nomadland le albe e i tramonti, ma non si tratta di un ingenuo vezzo scenografico; e se è azzardato pensare che la regista abbia voluto evocare la venerazione che i nativi avevano nei confronti del sole quale primaria manifestazione del Grande Spirito, indubbio è l’intento d'inglobarlo nelle dinamiche narrative per suscitare una riflessione sull’incessante trascorrere dei giorni, degli anni, dei millenni. Una riflessione sul tempo e sulla morte è suggerita anche dai versi di Shakespeare: quelli tratti dal Macbeth recitati da una ragazza, un tempo allieva di Fern (“Domani, domani e domani, avanza a poco a poco, giorno dopo giorno, verso l’ultima sillaba del copione...”), e quelli del Sonetto XVIII che Fern stessa declama davanti a uno sperduto ragazzo nomade. Shakespeare sconfigge la morte dell’amato con la poesia a lui dedicata che lo farà vivere in eterno: “Finché uomini respireranno o occhi potran vedere, / Queste parole vivranno, e daranno vita a te”. Nel momento in cui la voce off di Fern recita questi versi, la macchina da presa la inquadra mentre nel furgone è intenta a guardare vecchie foto di famiglia.

         Fern sconfigge la morte dell’amato Bo ricordandolo, indossando la sua giacca, la fede nuziale, utilizzando il coperchio della sua scatola da pesca per chiudere uno stipo nel furgone. Per Bob Wells la morte non segna un ritorno nel nulla, ma la possibilità di ritrovare gli amici perduti e il figlio morto suicida. I dialoghi fra Bob e Fern, l’uno a distanza di un anno dall’altro, hanno luogo nel deserto a Quartzsite. In entrambi i casi, prima che i due volti siano inquadrati in controcampo, è ribadito il dettaglio delle spine di un cactus come a voler dare immagine alle loro dolorose confessioni che poi continuano a dipanarsi sullo sfondo di un pacificante sole nascente.

         Un desiderio di pacificazione attraversa Nomadland, non l’indugiare sulle ferite, ma sulla possibilità di una cura. Non ci sono violenze come nei tanti film girati negli sconfinati paesaggi del West e in tal senso gli è affine l’incruento e benevolo The Straight Story (1999) di David Lynch. Insistiti sono gli abbracci, la cordialità fra le persone colta persino all’interno della megastruttura di “Amazon” che, nelle efficaci inquadrature della regista - in contrasto con lo stato di abbandono della fabbrica di gesso a Empire - appare come una delle nuove pullulanti cattedrali del profitto. Non è esplicitata la denuncia delle ore massacranti di fatica, ma l’immagine di Fern, che dopo un turno di lavoro si addormenta stremata sulla sedia all’interno di un negozio, vale più di qualsiasi parola.

         Nomadland è pertanto anche un film politico, capace di mettere in luce gli effetti devastanti di un rapinoso capitalismo finanziario e l’urgenza di nuovi sistemi di vita sostenibili e inclusivi. È per necessità che Fern all’inizio si mette sulla strada - è stato ricordato a tale proposito il romanzo di Steinbeck The Grapes of Wrath e il film di John Ford - ma poi la sua diventa una scelta dettata da un impulso che lo stesso Steinbeck in Travels with Charlie considera insito nel popolo americano: “l’ardente desiderio di andare, di muoversi, di mettersi in cammino, ovunque, lontano da qualsiasi qui”. Chloé Zhao non idealizza la vita da nomade al punto da non mostrarne le difficoltà (Fern rischia di morire assiderata nel furgone), i momenti di isolamento (i Capodanni festeggiati in solitudine).

         Inoltre, Linda May pone fine alla sua erranza per costruire la vagheggiata Earthship nel suo appezzamento di terra in Arizona; David accetta l’invito del figlio, in procinto di avere un bimbo, a sistemarsi nella sua casa. Vorrebbe che anche Fern restasse con lui. Insieme hanno condiviso esperienze di lavoro, momenti di gioia e di reciproca cura. Fern diventa per un giorno parte di quella vita familiare - colta dalla regista nel calore e nella ritualità autentica del pranzo del Giorno del Ringraziamento - ma quando vede David vezzeggiare il nipotino, suonare il pianoforte insieme al figlio, comprende che quella è la famiglia, la scelta di David.

         Nomadland è un film che fa dell’inclusività la sua ragion d’essere, nessuna scelta è stigmatizzata se orientata alla cura di sé, a quella degli altri e alla cura di quella che i nativi d’America chiamavano “la nostra Madre Terra”. (Eliana Elia)

 


SegnoFilm n. 228

Pieces of a Woman
(Pieces of a Woman)

Regìa: Kornél Mundruczó                             Orig.: Can./USA/Ungh., 2020

Sogg. e Scenegg.: Kata Wéber, dalla sua pièce teatrale. Fotogr.: Benjamin Loeb. Musica: Howard Shore. Mont.: David Jancso. Scenogr.: Sylvain Lemaitre. Costumi: Rachel Dainer-Best. Suono: Chris Scarabosio. Eff. Vis.: Lampion Pictures, Alchemy 24. Interpr.: Vanessa Kirby (Martha), Shia LaBeouf (Sean), Ellen Burstyn (Elizabeth), Iliza Shlesinger (Anita), Benny Safdie (Chris), Sarah Snook (Suzanne), Molly Parker (Eva), Steven McCarthy (fotografo), Tyrone Benskin (giudice), Frank Schorpion (Lane), Harry Standjofski (impiegato del tribunale), Jimmie Fails (Max), Juliette Casagrande (ragazzina), Gayle Garfinkle (Judith), Vanessa Smythe (Linda), Nick Walker (Peter), Sean Tucker (Robert). Prod.: Kevin Turen, Ashley Levinson, Aaron Ryder e Paul Barbeau, per Bron Studios pres./A Little Lamb prod./Creative Wealth Media. Distr.: VoD in streaming. Durata: 126 min.

La giovane Martha, al termine della sua gravidanza, si prepara a un parto domestico, accudita dal compagno Sean. Per un imprevisto, però, la loro ostetrica di fiducia si assenta e viene sostituita da una collega che, nonostante le attente cure, fa nascere una bambina destinata a morire dopo pochi minuti. Mentre si tenta di sopravvivere alla perdita, la relazione di coppia si sfalda e la madre di Martha si adopera per trascinare l’infermiera in tribunale.

Pieces of a Woman 

        

Che crede, la gente, che basti innamorarsi per sentirsi completi?
La platonica unione delle anime?
Io la penso diversamente.
Io credo che tu sia completo prima di cominciare.
E l’amore ti spezza. Tu sei intero, e poi ti apri in due.

(Philip Roth, L’animale morente) 

         Nel 1942 Bette Davis in Perdutamente tua (Now, Voyager) interpretava una donna sgraziata e nubile dell’alta borghesia di Boston, tiranneggiata e repressa da una madre anaffettiva e crudele; nell’attuale Pieces of a Woman si consuma invece, in un altro contesto benestante ma più modesto, l’inconciliabilità familiare tra la protagonista Martha e la combattiva madre Elizabeth nella cornice della medesima città, una Boston impersonale e gelida, traduttrice delle intemperie interiori che Martha deve sfidare per riequilibrare se stessa e rinegoziare il suo posto nel mondo. Se in Perdutamente tua il topos dell’impossibilità, anima del mélo, si annidava in un sodalizio romantico accennato, infiammabile, reciso e poi platonicamente condiviso, nel film di Mundruczó l’oggetto d’amore abbraccia già la morte nell’abbozzo di un sentimento non consolabile e inesplicabile, quello per una figlia nata morta; ma, pur nei suoi toni più lividi e mesti, Pieces of a Woman approda a un finale speranzoso e liberatorio, parafrasato da un dolly arioso che ben interagisce con lo sguardo sul cielo notturno e luminoso della pellicola del 1942, suggellato dalla celebre conclusione della Davis: “Non dobbiamo chiedere la luna, abbiamo già le stelle”.

         Mundruczó, regista ungherese qui al suo primo lungometraggio in lingua inglese, adatta il testo teatrale autobiografico scritto dall’ex moglie Kata Wéber ai codici del mélo statunitense e con altrettanta sapienza drammaturgica allestisce un film femminile intimistico dai precisi risvolti sociali, dove la città di Boston (come in Manchester by the Sea di Kenneth Lonergan) ammantata da toni plumbei e ascendenze invernali, trasuda un isolamento esistenziale che non lascia appelli al mutuo aiuto. Spazio urbano e interni domestici si compenetrano da sfondo per l’elaborazione del lutto della protagonista, che attira a sé il conflitto di passioni proprio del genere, su un corpo martoriato dal travaglio (ventiquattro tachicardici minuti di piano sequenza) e poi ancora cicatrizzato dalla perdita, e che arrancando con solenne dignità nel suo dolore smuove il non senso della morte anche come affare sociale.

         Senza indugi morbosi e con partecipazione simpatetica, attraverso pudichi piani non troppo accostati, la macchina da presa osserva e scorta Martha nel suo calvario di mater dolorosa cadenzato dalle stagioni e dai mesi (da settembre ad aprile), come in un film di Rohmer più introverso e ingrigito, avvalendosi della performance minimalista di Vanessa Kirby, premiata con la Coppa Volpi a Venezia. Priva di accenti di patetismo e di sbavature di virtuosismo, l’attrice con rispettosa precisione si appropria delle lacerazioni del personaggio traducendo i frammenti di un animo svuotato della vita umana, con silenzi prolungati, sguardi millimetrici e rannuvolati, con una gestualità quotidiana segretamente connessa alle intermittenze della morte e alle ferite dell’abbandono, come le donne spezzate di Simone de Beauvoir. Il regista la inquadra con gli stilemi propri del mélo, la abbiglia con un cappotto scarlatto, la incornicia dietro gli stipiti delle porte, la filma dietro superfici vitree che ne rendono inaccessibile la figura e, insieme, la nostra radiografia del suo patimento, pur preservandone un’aura di calma grandezza.

         Inoltrandosi nei meandri dell’essenza del femminino, Mundruczó già nell’incipit assurge l’essere donna a emblema della complessità, della discontinuità, delle scissioni dell’interiorità umana, in un dittico iniziale che marca Martha e il suo compagno Sean con una contrapposta strategia linguistica: mentre l’uomo è filmato in un fluido long take in un cantiere aperto, la protagonista, in una festa in ufficio, viene scomposta e frantumata in piani brevi e ravvicinati, che vanificano la reductio ad unum della psiche femminile. La regìa, tuttavia, non inciampa in binomi stucchevoli e agevoli psicologismi, ancorandosi soprattutto all’autenticità delle interpretazioni, tra cui quella di Shia LaBeouf, che offre al suo ruolo paterno un empatico connubio introspettivo e nel piano sequenza del parto supporta con inedita e toccante delicatezza Vanessa Kirby, eccezionale solista, già al di là della soglia di Thanatos, a differenza delle eroine melodrammatiche del cinema classico.

         Come per loro, tuttavia, la sofferenza personale della protagonista viene incastonata e amplificata da Mundruczó in un contesto sociale conformista e scostante, in un affresco di un ramificato quadro familiare di ipocrisia (la cugina avvocatessa fedifraga), insensibilità (la superficialità del cognato) e grettezza classista (la partenza di Sean comprata dalla madre di Martha): è uno spaccato che si allarga per sineddoche a un’America multietnica non integrata, rabbiosa (la gogna mediatica contro l’ostetrica colpevole), implacabile e incapace di elaborare i traumi della Storia, come nella sequenza in cui Ellen Burstyn, signorile e inquietante, racconta un episodio della sua infanzia come bambina ebrea sotto il nazismo e insegna alla figlia a esorcizzare la fatica della sopravvivenza nella sopraffazione orgogliosa di una guerra legale.

         Più vicino alle ombrose vivisezioni dell’anima di James Gray che alla cinepresa di Cassavetes, Pieces of a Woman scongiura toni claustrofobici e indugi languidi, avvalendosi sia del nitore aristocratico con cui la sua attrice intercede in questa umanità alla deriva, sia di una poetica di oggetti umanizzati, di sensibilità mitteleuropea, spesso eletti a correlativi oggetti di cognizione del dolore, dal ponte in costruzione che scandisce il percorso di guarigione di Martha alla mela che è un appiglio verso la piccola Yvette, dallo smalto slavato alle stoviglie sporche che emanano l’irreparabile. Con sussurri senza grida Mundruczó rielabora il tema della maternità negata (già prediletta da una filmografia di genere, da Gravity di Alfonso Cuarón a Madre! di Darren Aronofsky, fino al recente High Life di Claire Denis) in uno stile immersivo che coniuga sapienti reticenze e pause polisemiche con la suspense del thriller e del legal movie.

         E con statura autoriale firma un ritratto di donna che nella morale finale si appella a una presa di coscienza collettiva sulla vocazione altruistica della vita umana e sul sacro rispetto per l’ineluttabilità misteriosa della morte, che qualcosa toglie senza precludere altre rinascite, nella brezza radiosa di un melo fiorito, in una tarda primavera dello spirito consunto ma non sconfitto, in un ricongiungimento tra madri e figlie che forse sarebbe piaciuto a Ozu. (Martina Volpato)

 


SegnoFilm n. 227

Mank
(Mank)

Regìa: David Fincher                             Orig.: U.S.A., 2020

Sogg. e Scenegg.: Jack Fincher. Fotogr.: Erik Messerschmidt. Musica: Trent Reznor, Atticus Ross. Mont.: Kirk Baxter. Scenogr.: Donald Graham Burt. Costumi: Trish Summerville. Suono: Ren Klyce. Eff. Vis.: Industrial Light & Magic, Ollin VFX, Savage Visual Effects. Interpr.: Gary Oldman (Herman Mankiewicz), Lily Collins (Rita Alexander), Tuppence Middleton (Sara Mankiewicz), Amanda Seyfried (Marion Davies), Leven Rambin (Eve), Tom Burke (Orson Welles), Charles Dance (William Randolph Hearst), Tom Pelphrey (Joseph Mankiewicz), Arliss Howard (Louis B. Mayer), Toby Leonard Moore (David O. Selznick), Natalie Denise Sperl (Greta Garbo), Joseph Cross (Charles Lederer), Jamie McShane (Shelly Metcalf), Sam Troughton (John Houseman), Ferdinand Kingsley (Irving Thalberg), Adam Shapiro (Kaufman), Michelle Twarowska (Joan Crawford), Jessie Cohen (Norma Shearer Thalberg), Camille Montgomery (Carole Lombard), Paul Fox (Josef Von Sternberg), Scarlet Cummings (Bette Davis), Craig Robert Young (Charlie Chaplin), Sebastian Faure (Clark Gable). Prod.: David Fincher, William Doyle e Eric Roth, per Netflix. Distr.: Netflix [VoD]. Durata: 131 min.

La genesi della sceneggiatura di Quarto potere di Orson Welles nelle mani di Herman J. Mankiewicz (Mank), talentuoso e sregolato sceneggiatore alla corte del magnate della stampa William Randolph Hearst, che per Mank fu fonte d'ispirazione insieme alla sua amante, l’attrice comica Marion Davies. Osteggiato dalla MGM per le sue posizioni antirepubblicane, da Hearst per il suo indigesto spirito critico, l’esiliato scrittore elaborerà un copione che è anche una resa dei conti, nonché un’arena di confronto e scontro con il giovane e geniale Welles.

Mank 

         Ubriaco di vita e di liquori, dotato di un’ironia debordante e fulminea, obliquo alle coercizioni dei potenti più biechi, affabilmente ciarliero ed elegantemente provocatorio, Herman J. Mankiewicz fu critico teatrale e drammaturgo a New York nei primi anni Venti, presto assoldato con successo come arguto soggettista e sceneggiatore nella Hollywood del muto e, negli anni Trenta, del sonoro: uno scrittore votato al grande schermo per un’affinità elettiva che David Fincher smorza però attraverso una sotterranea frizione tra parole e immagini. Trascurando i suoi contributi alla Golden Age hollywoodiana, Mank certifica l’ingegno squisitamente cinematografico del suo omonimo protagonista solo con un quasi impercettibile tocco registico in una breve scena. In compagnia della sua dattilografa, lo sceneggiatore prende il binocolo per focalizzare un’autovettura sconosciuta in visita a Victorville: in una soggettiva ravvicinata Fincher filma l’arrivo del fratello-regista Joseph. La medesima inquadratura è preclusa tuttavia alla sua assistente, che attraverso il binocolo scruta a sua volta il veicolo, ripreso, in questo secondo momento, in un campo più lungo e senza il privilegio della soggettività.

         Esaltando il suo estro meramente letterario e affievolendo il suo status di vero cineasta emerge una delle aporie che rendono Mank un sontuoso puzzle senza incastro, quello che, affogata nell’isolamento e nella noia, Susan Alexander, seconda consorte di Charles Foster Kane, cercava di ricomporre in Quarto potere. Travalicando la storica politique des auteurs e noncurante della propria cittadinanza nel firmamento autoriale statunitense tra i due millenni, Fincher sembra sposare un avulso e stridente ideale di cinema il cui primato spetta a sceneggiatori e scrittori, omaggiati sia dal calvario umano e professionale di Mank che dalle sorti avverse di Upton Sinclair, romanziere e candidato democratico alle elezioni governative californiane, ostracizzato dal conservatorismo reazionario di W.R. Hearst e di Louis B. Mayer in una campagna velenosa di contraffazione mediale già di taglio trumpiano.

         In questo opaco revisionismo furoreggia però in Mank un approccio registico possente e referenziale, dai tagli linguistici e visivi wellesiani, seppur stilizzati; dal campionario programmatico tratto da Quarto potere abbiamo quindi una partitura narrativa di andirivieni cronologici, inquadrature spiccatamente angolari con soffitti inclusi, profondità di campo, un gusto compositivo barocco, contrasti chiaroscurali d’epoca, imbevuti della fotografia impareggiabile del leggendario Gregg Toland. La manipolazione digitale dell’immagine e del sound design per perseguire un effetto vintage da filmografia degli anni Quaranta innesca un ennesimo cortocircuito se relazionato, inoltre, alla distribuzione del film su Netflix, in una curiosa asimmetria tra le aspirazioni immersive, nostalgiche nonché estetizzanti di Mank e la sua fruizione domestica; in questo film nutrito di dualità e ambiguità (come lo è, seppur diversamente, Quarto potere) si innesta la frattura forse più traumatica: l’ombra titanica e fagocitante di Orson Welles.

         Ripristinando la diatriba più dibattuta della storia della critica riguardo alla paternità della sceneggiatura di Quarto potere (contesa tra Mank e Welles, premiati ex aequo con l’Oscar), Fincher convalida una tesi ormai confutata, quella di Pauline Kael che nel 1971 in Raising Kane attribuì i meriti al solo Menkiewicz; ancora una volta in controcorrente, il regista surclassa le successive minuziose ricerche di Robert L. Carringer nel 1978 negli archivi della RKO che attestarono la partecipazione cospicua anche di Orson nello script e in Mank abbozza un Welles stereotipato, immaturo, sfrontato, usurpatore.

         Che oggetto filmico è quindi Mank, che pur infierendo sul mito già maledetto di Orson si avvale degli stilemi propri del linguaggio wellesiano, che inquadra Mankiewicz esclusivamente in relazione al capolavoro di Welles, che si affida a ghiotti riferimenti letterari (Cuore di tenebra, Macbeth, Otello, Moby Dick, Don Chisciotte) che sono anche un compendio parziale della filmografia wellesiana (compiuta e incompiuta), che è firmato da un cineasta che ha impostato la sua opera più epocale, The Social Network, proprio in filigrana a Quarto potere?

         Forse è un atto di affettuosa rivendicazione del regista per il defunto padre Jack, sceneggiatore mancato, autore di Mank ma anche di altri script respinti dagli studios e affidati ad altri per la riscrittura (tra cui i copioni di The Aviator e Big Eyes, opere che non casualmente visitano le stesse ossessioni di Mank, quelle, rispettivamente, del degrado di un tycoon e dell’appropriazione artistica indebita). Forse, dietro alla preminenza delle parole sulle immagini, vi è un inconfessato atto di fede verso Netflix e i suoi prodotti seriali che sono proprio il terreno di caccia degli sceneggiatori e di cui prese onorevolmente parte anche David Fincher con le serie House of Cards e Mindhunter.

         Dietro queste tensioni opposte, dietro queste devianze che un tempo marcavano psicologicamente alcuni villain e antieroi fincheriani e che qui intaccano inaspettatamente l’opera stessa, pare celarsi un possibile gioco intertestuale e intellettualistico, elitario e pedantesco: se il soggetto di Quarto potere era una libera rielaborazione della vita di Hearst, in cui Kane era una parziale proiezione dello stesso Welles (come evidenzia James Naremore in un saggio monografico), Mank, con altrettante licenze romanzesche sui personaggi (“non si può cogliere la vita di un uomo in sole due ore”), allestisce un nuovo scorcio sulla corrotta democrazia americana attraverso uno sceneggiatore in oblìo che probabilmente è una proiezione empatica del padre del regista. Una mise en abyme di parallelismi e rime esterne, fosca, impura, più ambivalente della “Rosebud” intorno a cui ruota Quarto potere, meno complice dell’illusionismo dell’indimenticabile Welles prestigiatore in F for Fake (1973).

         Ci resta uno sfumato e appassionante ritratto psicologico di un umanista imperfetto, di un Falstaff novecentesco che ritratta le menzognere aberrazioni capitalistiche di matrice fascista con la verità della finzione artistica; ci resta la riproduzione corale, vivida e palpabile di una fucina di fulgidi intelletti creativi, sepolti nei meandri della storia del cinema. Perdurano inoltre, incastonate, alcune sequenze felici: quella polifonica dal ritmo inesorabile del convivio carnevalesco nel maniero di Hearst, un’epitome figurativa del concetto di realismo grottesco di Michail Bachtin; infine, quella notturna, dionisiaca e ariosa nei giardini del magnate, con Mank e Marion Davies, allegoria di un sodalizio platonico di anime ripudiate che troveranno nella memoria degli odierni spettatori quella salvezza che l’attrice invocava sul set di un suo film. (Martina Volpato)

 


SegnoFilm n. 226

Le sorelle Macaluso

Regìa: Emma Dante                             Orig.: Italia, 2020

Sogg.: dalla pièce teatrale omonima di Emma Dante. Scenegg.: Emma Dante, Elena Stancanelli, Giorgio Vasta. Fotogr.: Gherardo Gossi. Musica: Motivi vari. Mont.: Benni Atria. Scenogr.: Emita Frigato. Costumi: Vanessa Sannino. Suono: Gianluca Costamagna. Interpr.: Alissa Maria Orlando (Katia giovane), Laura Giordani (Katia adulta), Rosalba Bologna (Katia anziana), Susanna Piraino (Lia giovane), Serena Barone (Lia adulta), Maria Rosaria Alati (Lia anziana), Anita Pomario (Pinuccia giovane), Donatella Finocchiaro (Pinuccia adulta), Ileana Rigano (Pinuccia anziana), Eleonora De Luca (Maria giovane), Simona Malato (Maria adulta), Viola Pusateri (Antonella). Prod.: Marica Stocchi e Salvatore Pecoraro, per Rosamont/Minimum Fax Media/Rai Cinema. Distr.: Teodora Film. Durata: 89 min.

Il film prende spunto dall’omonima pièce teatrale. Le cinque sorelle Macaluso vivono in una palazzina alla periferia di Palermo mantenendosi col noleggio dei colombi che sono nella soffitta adibita a colombaia. Durante una festosa gita al mare, Antonella, la più piccola, muore in un tragico incidente di cui tutte si sentono responsabili, soprattutto Lia. Diventate adulte, si ritrovano per una cena e Katia, che nel frattempo si è sposata, cerca di convincerle a vendere la casa, ma Lia non riesce a immaginare una vita diversa al contrario di Pinuccia combattuta fra il desiderio di andarsene dal suo compagno e quello di prendersi cura dell’instabile Lia. Dopo un alterco fra le due, Maria confessa di essere malata di cancro. Le sorelle invecchiano, anche Lia muore. Pinuccia e Katia vendono la casa dove tutte, da vive e da morte, si sono respinte, ma soprattutto amate.

Le sorelle Macaluso 

“La morte non è niente, non conta. /
Sono solo andato nella stanza accanto /... /
Quello che eravamo prima l’uno per l’altro,
lo siamo ancora”.

(Henry Scott Holland, La morte non è niente)

        

         I topoi del teatro di Emma Dante, in primis i viscerali legami familiari che neanche la morte può recidere, translitterano sullo schermo che, al pari del palcoscenico, diventa lo spazio-tempo deputato allo spiazzante incontro fra i vivi e i morti. Al contrario della rigidità cadaverica dei morti di Kantor, quelli di Emma Dante, da Vita mia a Pupo di zucchero, si presentano con una vivacità che li fa correre, ballare, andare in bicicletta al punto che è impossibile distinguerli dai vivi. Tale confusione non sussiste più sullo schermo. I morti sono inequivocabilmente tali e non hanno bisogno di un medium per mettersi in contatto con i vivi (come pn The Sixth Sense o in Hereafter), né abitano in un imponderabile “al di là” (si pensi al finale di The Tree of Life). Restano invece dove hanno sempre vissuto, come la vecchia madre in Via Castellana Bandiera che, dopo essersi lasciata morire nell’abitacolo della macchina, torna ad aggirarsi nella camera del nipote. Anche in Le sorelle Macaluso i morti continuano ad abitare nella stessa casa, ma, al contrario di quanto accadeva nella pièce, assumono un’insolita staticità per diventare con maggiore evidenza proiezioni di chi resta, immagini psichiche che esplicitano il confronto con l’ustionante dolore del lutto.

         Per Lia l’elaborazione della perdita è impossibile. Sopraffatta dai sensi di colpa, la donna è travolta dalla presenza dell’assenza di Antonella che, infatti, non le compare mai accanto. Attaccata agli oggetti legati al ricordo della piccola (che custodirà fino alla morte in una scatola), avvinghiata alla casa dalla quale non uscirà se non dentro una bara, Lia si affeziona alla propria afflizione facendone un surrogato della sorellina che non c’è più. Sprofondando nella depressione, leggibile anche nell’aspetto sciatto e trasandato, la sua vita resta bloccata, pietrificata. Il suo lutto è cronico. Pinuccia è invece capace di elaborarlo pur rimanendo profondo anche in lei lo struggimento per la perdita (palpabile nel pianto al termine della cena); l’immagine ripetuta di Antonella che la guarda mentre si mette il rossetto è il rituale che la donna ha costruito per preservare il ricordo positivo dell’oggetto d’amore perduto e tenerlo al sicuro dentro di sé.

         Anche Maria ha interiorizzato il legame con Antonella: dopo aver incollato un piatto rotto - immagine simbolica del processo riparativo del lutto - alla bimba che anche lei continua a vedere, dona un pezzo di cioccolata con la stessa tenerezza con la quale lo faceva quando era in vita, recuperando così l’oggetto d’amore perduto e conservandolo nel suo mondo interiore. Katia affronta meno drammaticamente il senso di colpa; “eravamo piccole” afferma, attribuendo all’incoscienza della fanciullezza il tragico incidente; ancora più di Pinuccia, che si apre ad altri legami d’amore, riesce a lasciare la casa, a sposarsi e ad avere un figlio.

         Nella pièce bastava un frettoloso cambio d’abito per cogliere lo spostamento temporale; nel film la regista non ricorre a trucchi cinematografici per invecchiare le sorelle o ringiovanirle (si pensi al malriuscito tentativo in The Irishman), ma confida solo in un accurato lavoro attoriale. Attrici diverse interpretano le sorelle nelle diverse età: Antonella muore bambina ed è una sola attrice a interpretarla; Maria muore adulta e le attrici sono due; Lia, Pinuccia, Katia, diventando anziane, sono interpretate ciascuna da tre attrici. I passaggi di testimone sono riuscitissimi non tanto per una somiglianza fisica - come nel caso di Katia che è robusta da bambina così come da adulta e da anziana - quanto perché ognuna di esse ripropone riconoscibili leitmotiv gestuali: primi piani inquadrano le labbra di Pinuccia, che a tutte le età ama mettersi il rossetto, o quelle di Lia mentre legge febbrilmente i suoi libri; Maria è invece riconoscibile dai passi di danza improvvisati.

         Il desiderio accarezzato da ragazza di diventare una ballerina si infrange. Da adulta la vediamo lavorare in un istituto zooprofilattico con il compito di pulire i resti degli animali nelle sale autoptiche. In una scena, la cui crudezza ricorda certe immagini garroniane in L’imbalsamatore, la regista sembra voglia far sentire la crudeltà dello iato che può spalancarsi fra i sogni della giovinezza e quanto la realtà riserva. Maria assiste allo squartamento di un bovino e in quel cuore estratto e chiuso in una busta di plastica sembra come riconoscere il proprio, ormai privato di ogni sogno e della vita stessa. Il suo corpo magrissimo, annientato dalla malattia, è mostrato mentre s'immerge nella vasca da bagno - una scena analoga è in altro film di Garrone, Primo amore - e vestendolo con un tutù nel tentativo estremo di realizzare il desiderio di essere ballerina, tenta di riempirlo ingurgitando dolci uno dopo l’altro: un momento aspro, insostenibile - un’autocitazione della regista tratta da mPalermu - che fa rimpiangere la spasmodica e lacerante danza con la quale Maria accoglieva il suo destino di morte al termine dello spettacolo teatrale.

         Un corpo macerato dalla vecchiaia è invece quello di Lia, anch’esso impunemente messo a nudo nelle sue rugosità e nelle sue chiazze senili mentre anche lei è nella vasca. La vasca, che accoglie i giochi infantili di Lia e poi i fiori del suo funerale, è uno dei tanti arredi della casa che, a onta del tempo che passa e delle morti che si succedono, restano immutati. Le stanze sono inquadrate a lungo anche quando nessun personaggio è presente, come se anch’esse fossero dei personaggi e come se di ogni oggetto si volesse coglierne il potenziale narrativo. Un Pinocchio e soprattutto una marionetta con scudo e spada appesa al muro rimandano ai luccicanti scudi e spade posati sul davanzale del palco nella pièce e all’idea, presente nella poetica della Dante, di un puparo che governa le sorti degli uomini destinati a un perenne combattimento.

         La presenza più altamente simbolica è tuttavia quella dei colombi. Il loro tubare, il frullare delle loro ali sono l’anima della colonna sonora del film i cui brani musicali - lontani dall’aura di arcana sacralità dei canti dei fratelli Mancuso, usati sapientemente dalla Dante non solo a teatro, ma anche in Via Castellana Bandiera - finiscono con il risultare ripetitivi e ingombranti. I colombi nascono in un luogo e a esso sempre ritornano e nel film è come se sostituissero i genitori delle sorelle - presenti nella pièce - nell’offrire loro un sostentamento e una vicinanza affettiva; sono “le piccole persone”[1] come i cani che, in Via Castellana Bandiera, si accucciano accanto alla vecchia madre mentre distende il suo corpo sulla tomba della figlia morta. Le immagini dei colombi stipati nella colombaia, quelle in cui spiccano il volo dalle finestre per librarsi nel cielo hanno un’indubbia bellezza poetica che Jarmusch in Ghost Dog non è riuscito a raggiungere; al corpo morente del samurai un colombo si avvicina pietoso. Attorno alla bara di Lia, prima che venga calata dalla finestra, è uno stuolo di colombi ad accompagnarla nel suo ultimo viaggio. Quando sente la morte vicina, Lia sgombra la casa, anch’essa ormai usurata dal tempo, si sistema il vestito più bello e pulisce le scarpe che indosserà per il suo funerale; a confortarla non può essere il ricordo di Antonella, ma quello di Maria che torna a sussurrarle le frasi lette in un libro.

         Il film sprofonda nel dolore, nella cupezza dei colori e, nel tentativo di alleggerirlo, la regista propone nel finale rapidi flashback che riportano alla luminosità delle immagini iniziali: la giovinezza delle sorelle, i vestiti colorati, i preparativi frenetici per andare al mare, i battibecchi, la passeggiata spensierata lungo un canale assolato, la gioia incontenibile di tuffarsi nell’acqua, il coinvolgente ballo sulla riva, la scoperta dell’amore da parte di Lia, il tenero bacio in un’arena vuota di fronte a uno schermo bianco: un omaggio al cinema così come quel buco-obiettivo che nell’oscurità dell’incipit le piccole sorelle Macaluso si affannano ad aprire in un muro per trovare un raggio di luce e un attimo di felicità. (Eliana Elia)

 

[1] Le Piccole Persone è uno dei libri di Anna Maria Ortese che Lia legge o che per lei legge Maria.


SegnoFilm n. 223-224

Favolacce

Regìa: Damiano D'Innocenzo, Fabio D'Innocenzo                             Orig.: Italia/Svizzera, 2020

Sogg. e Scenegg.: Damiano D'Innocenzo, Fabio D'Innocenzo. Fotogr.: Paolo Carnera. Mont.: Esmeralda Calabria. Scenogr.: Emita Frigato, Paola Peraro. Costumi: Massimo Cantini Parrini. Eff. Vis.: Ghost SFX. Interpr.: Elio Germano (Bruno Placido), Tommaso Di Cola (Dennis Placido), Barbara Chichiarelli (Dalila Placido), Lino Musella (prof. Bernardini), Gabriel Montesi (Amelio Guerrini), Giulietta Rebeggiani (Alessia Placido), Justin Korovkin (Geremia Guerrini), Max Malatesta (Pietro Rosa), Giulia Melillo (Viola Rosa), Laura Borgioli (Ada Tartaglia). Prod.: Agostino Saccà, Giuseppe Saccà, Michela Pini, Tiziana Soudani e Gabriella De Gara, per Pepito Produzioni/Rai Cinema/Vision Distribution/RSI. Distr.: VoD in streaming [Vision Distribution]. Durata: 98 min.

La voce off di un narratore dichiara di aver trovato il diario di una bimba e di aver continuato a scriverne la storia imperniata su un gruppo di bambini preadolescenti - Dennis e sua sorella Alessia, autrice del diario, Viola, Ada - che vivono con i rispettivi genitori nelle villette a schiera del quartiere Spinaceto a Roma. Qui, con la madre, vive anche Vilma, una ragazza sbandata e incinta. Geremia abita invece in campagna con il padre. I genitori, fra pochezze, frustrazioni, invidie, sono incapaci di rapportarsi con i figli, destinandoli a una solitudine senza scampo. Finita la scuola, i bambini, mettendo in pratica le indicazioni di un losco professore, costruiscono in casa alcune bombe con l’intenzione di farle esplodere, ma vengono scoperti. Ricominciata la scuola, lo stesso professore spiega gli effetti mortali di un antiparassitario offrendo a Dennis, Alessia, Viola, e forse anche ad Ada, lo spunto per togliersi la vita.

Favolacce 

       

 “Ci si sente sperduti in quest’aria maligna, si soffoca”

(Mario Luzi, Libro di Ipazia)

         È sorprendente come in Favolacce ogni elemento dell’orchestrazione filmica concorra a suscitare una sensazione di soffocante pesantezza. La annuncia l’incipit: un cielo ingombro di nuvole, il fragore dei tuoni, il fruscìo degli alberi scossi dal vento, la musica fuoriscena inframmezzata da graffi e cigolii ipnotici[1]. La comunicano alcuni dettagli iniziali: la piccola formica che, subentrando a quella più grande nel trasporto di una spiga, precipita da un muro schiacciata dal peso; una fetta biscottata bruciata e spezzettata accanto a un accendino. La esplicita la voce off del narratore, quando dichiara di avvertirla fra le righe reticenti del diario e, continuando a scrivere sulle pagine lasciate vuote, a questa pesantezza dà voce. Il racconto è un intreccio spesso confuso fra le sue parole e quelle della bimba che risultano riconoscibili - come nel racconto della distruzione della piscina - quando è lei a parlare in prima persona: il papà, “che non si stupisce più della crudeltà umana”, le ha raccontato che è opera degli zingari o dei vicini invidiosi; le immagini mostrano invece il gesto del padre che ha voluto distruggerla.

         Qual è la storia vera? Qual è la storia falsa? Vera o falsa, il narratore, sul finire del film, la considera “insensata, amara e anche pessimistica” e prova rimorso per averla raccontata. L’intento di ricominciare “da zero” e di andare in un’altra direzione è tuttavia smentito dalla ripetizione dell’annuncio televisivo ascoltato all’inizio della storia: due genitori, dopo aver affogato la figlia neonata, si suicidano. Una coazione a ripetere che sembra registrare l’impossibilità per i registi di addentrarsi in situazioni meno gravi, come in La terra dell’abbastanza. Inoltre la ripetizione dell’annuncio, questa volta accompagnato dalle relative immagini che rivelano l’identità dei genitori (questi non sono che Vilma e il suo compagno), scardina la logica narrativa - preservata invece nel film d’esordio - diventando un ulteriore segno di un cinema che non vuole più limitarsi a raccontare una storia, ma riflettere sulla sua processualità interna, sulla complessità del suo essere con-fusione fra realtà e slanci dell’immaginazione.

         Il film è disseminato di elementi autoriflessivi: l’immagine iniziale di Alessia dietro una tenda insieme alla sua ombra, le ombre di Dennis e Ada sull’asfalto mentre si dirigono verso una piscina dismessa con l’intento di scimmiottare i grandi a “fare sesso”; le figure raddoppiate sui cellulari; le immagini riflesse sui vetri (che duplicano l’intera sequenza in cui Dennis, a cena con la famiglia, sta per strozzarsi), sugli specchi, sull’acqua stagnante della piscina; le immagini incorniciate da una finestra il cui punto di vista è sia dall’interno verso l’esterno (quando Geremia osserva il padre masturbarsi en plein air), sia dall’esterno verso l’interno (nella scena in cui i genitori di Dennis e Alessia, come in un quadro di Hopper, sono immobili sul letto).  Affermano di essere i migliori genitori, ma non è che un estremo auto-inganno. Ai figli non raccontano le favole, lasciano che le immagini televisive della più spietata cronaca nera scorrano davanti ai loro occhi senza batter ciglio, senza che una parola funga da rete di protezione. Il linguaggio simbolico delle favole che offre ai bambini gli strumenti per affrontare i conflitti inconsci - la sensazione di inadeguatezza, l’angoscia dell’abbandono, la paura della morte - è sostituito da storiacce che sbattono in faccia la morte nella sua ambivalenza di terrore e di oscura fascinazione.

         Sono soprattutto i padri a essere pesantemente sgradevoli, paragonabili a certi hideous men di D.F. Wallace. Il fumo e le fiamme che si alzano all’altezza del volto di Bruno mentre arrostisce la carne al barbecue lo fanno apparire una creatura infernale; mentre galleggia sul materassino, si disegna sul suo volto in primo piano un’apatia stizzita e l’invidia nei confronti di chi può permettersi litorali più esclusivi. Primissimi piani inquadrano le sue volgari espressioni facciali - cui fanno eco quelle del padre di Viola - mentre biascica commenti osceni sulla madre di Ada. Dopo che Dennis ha corso il rischio di strozzarsi, si abbandona prima a un pianto isterico, poi impreca mandando tutto all’aria. Non si chiede, né chiede al figlio le ragioni di quella bomba, si limita a pestarlo di calci. Né se lo chiede il padre di Geremia, che finirà col riderci sopra. Con i suoi capelli ricci, la risata fragorosa, l’andatura dinoccolata - una sorta di pasoliniano Ninetto - il padre di Geremia è disarmante nella sua grettezza. Parla, parla ma, per quanto a suo modo affettuoso nei confronti del figlio, non si rende conto dei suoi reali bisogni, delle sue timidezze.

         Della sessualità i bambini ne sentono solo il tanfo. Prima di incontrare Viola, Geremia riceve dal padre soltanto le indicazioni su dove trovare i preservativi; Ada mostra a Dennis il lungo elenco dei siti porno che il padre ha sul cellulare; Dennis subisce le provocazioni di Vilma mentre ostenta le parti intime del corpo. Tutti sono come gettati in un gorgo nel quale è impossibile accordare l’oscuro prorompere degli impulsi con i sentimenti. Non resta che sprofondare nella solitudine. È la solitudine di Viola che in silenzio ascolta prima le invettive del padre contro i vicini (causa dei suoi pidocchi), poi il rumore fastidioso del rasoio che, in un’interminabile sequenza, sembra radere insieme ai capelli anche ogni suo sogno; quella di Geremia che si aggira sotto la pioggia e, così esile, con un fucile giocattolo in mano, ricorda, sia pur in erba, Pisellino in Gomorra di Garrone; quella di Dennis e Alessia che, dopo la descrizione reticente della scampagnata con i genitori, fatta dalla bimba e letta dal narratore, urlano senza risposta “mamma, papà”; una solitudine che cercano di arginare cercandosi con lo sguardo quando sono a cena, mentre trattengono il respiro sott’acqua, prima della pianificata catastrofe.

         In una sola sequenza i bambini sono colti in un momento gioioso mentre si rincorrono e si rovesciano addosso l’acqua nel rito dell’ultimo giorno di scuola. Il ralenti sembra quasi un tentativo di prolungare quell’allegria che è comunque infestata dal crescendo cacofonico di un inquietante brano[2] che ha inizio nel momento in cui l’occhio fuori fuoco della macchina da presa entra nella scuola, il luogo dove si ordisce la morte. Il personaggio del professore è congegnato per essere inequivocabile simbolo del male e l’immagine deforme del suo volto distorto dalla parete di vetro-mattone ne è il più iconico esempio. Ricorda l’insegnante in preda a un attacco psicotico che scrive ripetutamente sulla lavagna “uccidili” nel racconto di D.F. Wallace L’anima non è una fucina; o l’infido maestro in Germania anno zero.

         L’azione suicida dei bambini non è mostrata come nel film di Rossellini o in Mouchette di Bresson; è inizialmente solo intuita come in Loveless di Zvjagincev. A rivelare la morte dei piccoli, in una magistrale sequenza, è lo sguardo che Bruno rivolge ai figli che restano fuori campo. Incredulo, terrificato, ormai sgombro di ogni livore, lo sguardo suscita una pietà infinita; come quello disperato di Vilma, affrancato dalla volgarità, mentre piange nell’impossibilità di cercare un’altra vita; come quello interdetto del padre di Geremia, spoglio di ogni inutile parola, mentre osserva le agghiaccianti immagini di cronaca nera. Su quest’ultimo sguardo sconcertato s'innesta La Passacaglia della vita che accompagna i titoli di coda. A cantare i versi insistenti sull’ineluttabilità della morte è una voce femminile che accresce la malìa danzante della melodia, e la pesantezza incontra la leggerezza in un ossimoro prezioso e insperato. (Eliana Elia)

 

[1]Si tratta del title track dell’album Città notte di Egisto Macchi in cui gli inserti sonori sono ottenuti mediante percussioni e l’impiego del pianoforte preparato.

[2] Bidonville, tratto anch’esso da Città notte di Egisto Macchi. 

 

 


SegnoFilm n. 222

Ritratto della giovane in fiamme
(Portrait de la jeune fille en feu)

Regìa: Céline Sciamma                             Orig.: Francia, 2019

Sogg. e Scenegg.: Céline Sciamma. Fotogr.: Claire Mathon. Musica: Jean-Baptiste de Laubier, Arthur Simonini. Mont.: Julien Lacheray. Scenogr.: Thomas Grézaud. Costumi: Dorothée Guiraud. Suono: Valérie Deloof. Eff. Spec.: CGEV. Interpr.: Noémie Merlant (Marianne), Adèle Haenel (Héloïse), Luàna Bajrami (Sophie), Valeria Golino (la Contessa), Christel Baras (praticona), Armande Boulanger (l'allieva dell'atelier), Guy Delamarche (l'uomo del salone), Clément Bouyssou (il battelliere). Prod.: Bénédicte Couvreur, per Lilies Films/Arte France Cinéma/Hold Up Films. Distr.: Lucky Red. Durata: 120 min.

Fine Settecento, la giovane pittrice Marianne giunge in un’isola della Bretagna per lavorare al ritratto di Héloïse. Il dipinto serve per far conoscere a un nobile milanese il volto della giovane, sua promessa sposa. Prima di lei era stata designata a questo matrimonio la sorella, ma la ragazza si è suicidata. Anche Héloïse rifiuta il matrimonio e di conseguenza non vuole farsi ritrarre. Per questo Marianne è stata assunta: per dipingerla in segreto, fingendo di essere una dama di compagnia. In questo modo la madre cerca di proteggere la figlia senza cambiarne il destino che la vuole sposa, proprio come era accaduto a lei venti anni prima.

Ritratto della giovane in fiamme 

         Ritratto della giovane in fiamme di Céline Sciamma richiede fin da subito una precisazione: è un film di una bellezza raffinata in cui s'intrecciano diversi livelli di lettura testuali e metatestuali e una densità di significati da rendere impossibile, in poco spazio, una trattazione esaustiva.

         Innanzitutto si tratta di un’opera di una chiarezza estrema, scritta alla perfezione - non a caso ha vinto come migliore sceneggiatura a Cannes - che sollecita la rilettura analitica. Inoltre è un testo che affronta con coraggio e lucidità numerosi temi fondanti: la condizione femminile, la storia della pittura e in particolare della ritrattistica, le dinamiche del desiderio, la costruzione della soggettività, la solidarietà tra classi sociali, il potere patriarcale. Infine è un film che ci riconcilia con il cinema stesso, grazie alla sua precisione formale e alla perfezione tecnica con cui è realizzato, e alla capacità di creare connessioni con altri testi, cinematografici e non. Un film d’amore puro, per la bellezza, per la verità e per il cinema stesso.

         La scrittura, si diceva, è un suo punto di forza, dà equilibrio a tutta la struttura, ma allo stesso tempo non imbriglia la narrazione in una gabbia schematica, anzi la lascia fluire come fluisce la vita. La regìa dimostra il gusto per l’inquadratura: ogni scena è dotata di compostezza formale e i riferimenti pittorici denotano una cultura artistica profonda e intelligente. La luce è la vera protagonista, grazie a una fotografia straordinaria. Sia quella contrastata degli esterni diurni, dove il mare e il cielo fanno da fondale alle giovani donne che camminano sulla spiaggia o sulla scogliera; sia la luce notturna degli interni che è sempre una luce calda e avvolgente. Si pensi alla scena in cui Marianne, da poco giunta nella dimora, si spoglia per far asciugare i vestiti davanti al camino e si accovaccia di fronte alla fiamma per scaldarsi. Qui, oltre la luce, concorre a dare forza alla scena la composizione formale dell’inquadratura con il riquadro del camino, le due tele vuote ai lati, il fuoco al centro e il corpo della donna di fronte a esso.

         La fiamma è elemento centrale del film: quella della candela che illumina il volto della cameriera che apre la porta a Marianne, quella del focolare vicino al quale le donne s'incontrano per pranzare e dialogare, quella del camino che illumina ma brucia, anche, il primo ritratto realizzato dalla pittrice, quella del tizzone con cui Marianne accende la sua pipa e, soprattutto quella del falò nella scena cardine del film: quando, durante il raduno delle donne, il vestito di Héloïse prende fuoco, e da cui deriva il titolo stesso. Una delle questioni su cui il film si dipana è la domanda: cosa significa ritrarre un altro? La pittrice deve eseguire il dipinto di Héloïse senza che lei se ne accorga e per riuscirci deve osservarla a lungo e nel profondo. Lo sguardo è quindi un medium ma è anche un detrattore, è ciò che estorce, addirittura inconsapevolmente, l’immagine dall’essere. Ma il problema non è l’agire di nascosto di Marianne quanto l’impossibilità per l’artista di entrare davvero nell’essenza del soggetto. Héloïse non apprezza il primo ritratto fatto da Marianne perché non ci si ritrova.

         Ricorrendo al mito di Orfeo e Euridice, e reinventandolo, Héloïse reclama il diritto di riconoscersi davvero nella propria immagine riflessa dallo sguardo di un altro. Qui il film dichiara con forza la sua lettura femminista della storia. Per secoli la donna non è esistita perché a guardarla, a ritrarla, a narrarla è sempre stato un solo punto di vista, maschile e patriarcale, colonialista e assolutista. Grazie a Héloïse, Marianne comprende e inizia a guardare in modo nuovo. Perciò s'innamora di ciò che vede, finalmente, davvero. “Mi avete sognata?” chiede la pittrice alla giovane ma lei le risponde: “No vi ho pensata”. La donna - intesa qui in senso universale - smette finalmente di essere oggetto dei desideri, donna sognata, e diviene soggetto che muove il pensiero. Soggetto pensante e pensato. Nella stessa sequenza, le due donne possono anche permettersi di chiedersi se tutti gli amanti sentono che stanno inventando qualcosa, come loro sentono di fare. Il modello patriarcale, che è per forza anche modello eterosessuale, risulta quindi un cliché da reinventare in forme e modi imprevisti.

         In un famoso film di Fritz Lang, il ritratto della donna nella vetrina era l’oggetto del desiderio maschile, che la sognava bella e ovviamente tentatrice al punto da portarlo alla perdizione. Céline Sciamma ci invita a superare quel modello e a pensare le donne per come veramente sono. Anche l’omaggio a Lezioni di piano, presente all’inizio del film, va interpretato in ottica di rinnovamento dello sguardo e dei cliché. Dove finiva Campion inizia Sciamma: il tuffo nel mare di Marianne ricorda non solo visivamente quello del finale del film di Jane Campion: però Marianne si butta volontariamente per recuperare la sua tela, mentre Ada si lasciava sprofondare con il suo piano gettato in acqua dagli uomini che la accompagnavano. Sciamma chiude il cerchio iniziato da Campion. La sua protagonista è una donna libera da vincoli, che sale in solitaria con il suo bagaglio pesante portato a spalle, richiamando ancora un parallelismo con Ada nella foresta neozelandese, che portava idealmente il suo fardello di donna sottomessa, mentre gli uomini portavano a spalle i bagagli.

         Ritratto della giovane in fiamme è un film abitato solo da donne, dove tuttavia l’assenza degli uomini è una presenza ingombrante, il futuro marito, da cui dipende il destino economico delle donne, la gravidanza indesiderata di Sophie, la cameriera, il padre pittore della protagonista che firma anche i dipinti della figlia. “Non posso fuggire” canta il coro delle donne nella scena del falò, ma qualcosa, forse, si sta scalfendo. L’amore prende vita e i desideri assumono una forma nuova, anche se per poco, anche se in forma invisibile ai più. La struttura del film è circolare, si tratta infatti di un racconto che parte da un ricordo e la cui narrazione si dipana in flashback. Il ritorno finale al presente delle protagoniste riserva delle sorprese: in una galleria d’arte Marianne scopre un ritratto di Héloïse che indica la pagina del libro in cui c’è l’autoritratto della pittrice; Héloïse, a teatro da sola, ascolta con pathos l’Estate di Vivaldi, osservata a sua insaputa dalla stessa Marianne.

         Presenze nell’assenza che solo i veri amanti hanno sperimentato e che alimentano, ancora una volta, la riserva di possibilità su cui si poggia il mondo. (Micaela Veronesi)

 

 


SegnoFilm n. 221

Pinocchio

Regìa: Matteo Garrone                             Orig.: Ital./Fr./U.K., 2019

Sogg.: dal libro omonimo di Carlo Collodi. Scenegg.: Matteo Garrone, Massimo Ceccherini. Fotogr.: Nicolaj Bruel. Musica: Dario Marianelli. Mont.: Marco Spoletini. Scenogr.: Dimitri Capuani. Costumi: Massimo Cantini Parrini. Suono: Maricetta Lombardo. Eff. Vis.: One of Us, Chromatica. Prosthetic designer: Mark Coulier. Interpr.: Federico Ielapi (Pinocchio), Roberto Benigni (Geppetto), Gigi Proietti (Mangiafuoco), Rocco Papaleo (Gatto), Massimo Ceccherini (Volpe), Marine Vacth (Fata adulta), Alida Baldari Calabria (Fatina bambina), Alessio Di Domenicantonio (Lucignolo), Maria Pia Timo (Lumaca), Davide Marotta (Grillo parlante), Paolo Graziosi (Mastro Ciliegia), Gianfranco Gallo (Corvo), Teco Celio (Gorilla), Maurizio Lombardi (Tonno), Enzo Vetrano (Maestro di scuola), Nino Scardina (Omino di burro). Prod.: Matteo Garrone, Jean e Anne-Laure Labadie, Jeremy Thomas, Paola Del Brocco, per Archimede/Rai Cinema/Le Pacte/Recorded Picture Company/Leone Film Group. Distr.: 01 Distribution. Durata: 125 min.

Tralasciando alcuni episodi e personaggi secondari, il film ripercorre la celeberrima storia di Pinocchio scritta da Carlo Collodi.

Pinocchio 

        

“La coscienza è la scoperta che noi non siamo, siamo un divenire,
ma non siamo un essere” (Carmelo Bene, Coscienze di legno,
va in scena Pinocchio, in “Avvenimenti”, 12 settembre 1999)

 

         Nell’affezione per il percorso tras-formativo di Pinocchio, che il regista ha dichiarato di nutrire fin dall’infanzia, è forse da ricercare il germe dell’interesse di Matteo Garrone per la metamorfosi del corpo - già presente in Primo amore - quale segno dell’affiorare di una parte nascosta (spesso terribile) di sé, ma anche quale possibilità d'indagare la condizione esistenziale dell’uomo che vive continue e silenziose metamorfosi - la nascita, la crescita, l’invecchiamento, la morte, la (im)possibile rinascita -  insieme a più complesse e imponderabili mutazioni psichiche. Le fiabe offrono in tal senso una miriade di suggestioni; a quelle di Giambattista Basile Garrone s'ispira in Il racconto dei racconti per intingerle nella cupezza dell’horror; in Pinocchio, invece, sono contenute le incursioni nel “mostruoso” e smussati gli aspetti più crudi del racconto.

         L’elaborato trucco prostetico che conferisce al protagonista la legnosità, di cui sono visibili venature e microporosità, e il conseguente irrigidimento facciale che affida ogni espressività ai soli occhi creano un effetto perturbante che si moltiplica nei volti - anch’essi ingabbiati dalle protesi - degli attori nani che interpretano i burattini di Mangiafuoco. Inquietanti sono i piedi ridotti a tizzoni ardenti con i quali Pinocchio si trascina gemendo e ancor più lo sono le metamorfosi asinine quando fra urla e spasmi il viso di Lucignolo si ricopre di peli neri e gli arti di Pinocchio si tramutano nelle zampe di un ciuco. Sono questi i momenti più raccapriccianti del film che altrimenti scorre su registri lievi, fino a toccare punte di mielosità disneyana nella rappresentazione del tonno che, piagnucolando, manifesta la sua commozione per aver ricevuto un bacio da Pinocchio, mentre nel testo collodiano sparisce nel mare. Si tratta di manipolazioni all’interno di una sceneggiatura che Garrone ha voluto scrivere a quattro mani per ottenere momenti, per lui inconsueti, comici e leggeri, capaci di raggiungere un pubblico di grandi e piccini.

         Degna di una slapstick comedy è l’esilarante invenzione della bava lasciata dalla Lumaca, sulla quale vengono fatti scivolare il petulante grillo parlante e i quattro conigli neri forieri di morte. Frutto di pura invenzione, in bilico fra malinconia e comicità, è la scena all’osteria: Geppetto ha fame ma non osa chiedere nulla, si offre di riparare una sedia, un tavolo, una porta finché l’oste, senza nulla volere in cambio, gli offre un piatto di minestra che Geppetto mangia con garbo e gratitudine, in contrasto con la bestiale voracità con cui il Gatto e la Volpe s'ingozzano più tardi all’osteria del Gambero Rosso. Non a torto Benigni ha definito la scena chapliniana, in quanto espressione della dignità di una povertà che è subito annunciata nell’incipit del film dal picchiettare di martello e scalpello all’interno dell’umile bottega di Geppetto. Lo spettatore lo immagina già all’opera con il suo burattino quando invece ad essere scalpellata è la crosta di un formaggio da cui racimolare le ultime schegge.

         La povertà, già presente nel Pinocchio di Comencini (Geppetto non ha che un tozzo di pane da bagnare nell’acqua con il rosmarino), è emblematica di quel mondo contadino di fine Ottocento che affiora nelle pagine di Collodi e che Garrone traduce ispirandosi non alle desolanti atmosfere di Comencini ma, come egli stesso ha affermato, alla bellezza della pittura verista dei Macchiaioli: paesaggi fatti di terra, di fieno, di ombre e di luci pullulano di gente umile e laboriosa, di carretti e animali domestici. Lo stesso Paese dei Balocchi non ha nulla delle consuete atmosfere fantasmagoriche da luna park, ma è ricostruito all’interno di un contesto rurale, in una masseria pugliese, dove i bimbi, fra covoni e alberi della cuccagna, giocano al tiro alla fune, si tirano addosso cuscini, si gettano nell’acqua da scivoli di legno, come di legno sono i loro giocattoli. La dimora della Fata è una villa ottocentesca con arredi e suppellettili dell’epoca e non ha nulla di fatato o d'insolito se non  la polvere e i grovigli di ragnatele come la dickensiana Satis House in Great Expectations. Un verismo curato anche nella scelta dei costumi è chiamato a fare da sfondo alla dimensione magica.

         L’anima arborea prorompe nel pezzo di legno che si scuote, traballa e avanza verso un attonito Mastro Ciliegia; e quando Geppetto comincia a dargli forma, un cuore comincia a pulsare. “Babbo” è la prima parola rivolta a Geppetto che lo invita a pronunciarla mentre lo forgia e lo accarezza colmo di stupore e di amore filiale. Benigni è il grande interprete di un inedito Geppetto. Inedita è l’origine dell’idea di costruirsi un burattino che gli balena nella mente dopo aver ammirato i burattini rinchiusi nel carro di Mangiafuoco, quasi a voler significare che ogni creazione artistica non nasce dal nulla. Inedita è la sua gentilezza; non litiga con Mastro Ciliegia ma, con un gesto delicato, gli toglie i trucioli di legno finiti fra i suoi capelli; è un babbo premuroso e anche quando è Pinocchio a doversi prendere cura di lui, ormai stanco e vecchio, si preoccupa di riparargli con la colla le piccole crepe formatesi sul suo capo. Non solo si vende la giacca per comprare al figliolo l’abbecedario, ma lo accompagna fino a scuola distogliendolo dal Gran Teatro dei Burattini. Forse, in una futura riproposizione del testo collodiano, ci sarà un Geppetto capace di rispondere al legittimo desiderio di Pinocchio di conoscere i suoi fratelli burattini. In Garrone, tuttavia, Geppetto, e soprattutto la Fata, pur restando guide amorevoli e necessarie, non incarnano più le figure genitoriali che impartiscono un’educazione basata su minacce, punizioni e continui richiami a obblighi e doveri.

         In quasi tutte le versioni di Pinocchio - ma anche in una deformata tradizione orale - la Fata non appare mai bambina, ma già adulta. Garrone le restituisce il suo essere metamorfico come in Collodi, spogliandola però di quel fare imperioso, talvolta intimidatorio, che la spinge a scherzi spietati, come quello di fingersi morta suscitando il pianto disperato di Pinocchio sulla sua tomba. L’episodio è omesso nel film per far posto a trovate originali che trasformano la Fata-bambina in una compagna di giochi per il burattino: insieme si rincorrono per la casa, montano sulla conchiglia della Lumaca, ne ascoltano le fiabe; anche la Fata-adulta gioca e lo invita a compiere bizzarre magìe. La pedagogia ottocentesca che emerge dal testo collodiano si arricchisce di nuove istanze ed espansioni visive.

         La scena del maestro che vessa i suoi allievi con bacchettate o costringendoli a stare in ginocchio sui ceci è assente nel libro, ma è rappresentativa di quello che un tempo era la scuola. La condotta discola e birbante di Lucignolo, rivalutata quale modello di un’infanzia non sottomessa - l’“onnipotenza bambina” per Carmelo Bene, l’“anima grande” nel film di Benigni - è dettata soprattutto dalla povertà e da una madre arcigna che lo costringe ad abbandonare la scuola e a lavorare nei campi. Le altre allegorie dei mali della società sono rappresentate dal giudice-Gorilla che non punisce i ladri ma i derubati, dai medici Gufo e Civetta con i loro fumosi discorsi e, soprattutto, dal Gatto e la Volpe il cui raggiro è ben reso visivamente in campi lunghi, che mostrano le due figure incurvarsi e incombere su Pinocchio, e in primi piani in cui il volto del piccolo è accerchiato da gesticolanti unghie rapaci. Garrone ricostruisce il sogno descritto da Collodi di Pinocchio, e di chi, come lui, si lascia abbindolare dalla possibilità di facili guadagni: il sogno di un albero carico di grappoli di tintinnanti zecchini d’oro interrotto dalla realtà che bussa alla porta.

         Avvezzo alle riprese subacquee - si ricordano le felici immersioni di Marcello con l’amata figlia in Dogman e quelle dei due fratelli in Il racconto dei racconti - il regista non si lascia sfuggire l’occasione di costruire la scena che vede l’asino-Pinocchio affondare nelle profondità del mare: al raglio di dolore, accorre una suggestiva miriade di pesciolini e, come il protagonista di L’asino d’oro di Apuleio è liberato dal suo rivestimento asinino dalla dea Iside, così Pinocchio viene salvato dalla Fata. La Fata di Garrone, dalla bellezza diafana, creatura ctonia e al contempo celeste, resta un personaggio colmo di mistero. Comencini la riduce a una dimensione più concreta (è la moglie morta di Geppetto); Benigni la fa sedere su una carrozza o su un trono come una regina; dalle disavventure del burattino entrambe appaiono contrariate, dispiaciute e non coinvolte nel profondo, anche quando l’asino-Pinocchio si azzoppa nell’umiliante numero circense; Garrone mostra invece una Fata addolorata, affranta fino alle lacrime.

         La metamorfosi finale, la proppiana “trasfigurazione”, è inscenata come una Natività: in una stalla con le mangiatoie, il fieno, le pecorelle, la Fata appare e abbraccia il burattino tenendolo stretto finché non si addormenta; e mentre un raggio di luce li avvolge, gli resta accanto in ginocchio. Pinocchio si sveglia e si tocca le guance per sentirne la morbidezza e, gridando a squarciagola la gioia di non essere più un burattino, attraversa correndo un immenso campo di grano; inciampa fra le alte spighe dorate - capita anche ai bambini veri di cadere - ma si rialza e continua a correre certo che il Babbo è pronto ad accoglierlo fra le sue braccia. (Eliana Elia)

 

 


SegnoFilm n. 220

C'era una volta a... Hollywood
(Once Upon a Time... in Hollywood)

Regìa: Quentin Tarantino                              Orig.: U.S.A./U.K./Cina, 2019

Sogg. e Scenegg.: Quentin Tarantino. Fotogr.: Robert Richardson. Musica: motivi vari. Mont.: Fred Raskin. Scenogr.: Barbara Ling. Costumi: Arianne Phillips. Suono: Wylie Stateman. Eff. Vis.: Luma Pictures, Lola Visual Effects. Interpr.: Leonardo DiCaprio (Rick Dalton), Brad Pitt (Cliff Booth), Margot Robbie (Sharon Tate), Emile Hirsch (Jay Sebring), Margaret Qualley (Pussycat), Timothy Olyphant (James Stacy), Julia Butters (Trudi), Austin Butler (Tex), Dakota Fanning (Squeaky Fromme), Bruce Dern(George Spahn), Mike Moh (Bruce Lee), Luke Perry (Wayne Maunder), Damian Lewis (Steve McQueen), Al Pacino (Marvin Schwarz), Nicholas Hammond (Sam Wanamaker), Samantha Robinson (Abigail Folger), Rafal Zawierucha (Roman Polanski), Lorenza Izzo (Francesca Capucci). Prod.: Columbia Pictures/Heyday Films/Bona Film Group. Distr.: Warner Bros. Italia. Durata: 161 min.

Los Angeles, 1969. Rick Dalton è un attore di serie B, che vorrebbe dare una svolta alla sua carriera. Si fa scorrazzare in auto dalla sua controfigura, factotum e migliore amico, Cliff Booth. Partecipa al pilota di una nuova serie Tv, va in Italia a girare film western e spaghetti-spionaggio. Al ritorno a casa, salvano Sharon Tate dal massacro a opera della famiglia Manson. Forse Rick diventerà un attore vero.

C'era una volta a Hollywood 

         Quattro cose da non fare a proposito di Once Upon a Time... in Hollywood. La prima: pensarlo solo come una grande dichiarazione d’amore per il cinema. Non sarebbe una novità: Tarantino praticamente non fa altro da Jackie Brown, tra omaggi, centoni, citazioni, remake e rivisitazioni. Questa volta lo scarto è più sottile: è una dichiarazione d’amore per l’industria del cinema, per il modo in cui il cinema si fabbrica. In chiave storica (quello passato, americano, ma anche europeo, soprattutto italiano) e ontologica: la sua dimensione intrinseca di prodotto industriale. E quindi il legame con la televisione, che in quegli anni era passata dalla West Coast (New York) alla East Coast, e si faceva a Hollywood, negli stessi studios in cui si realizzavano film, ma con gli scarti, con gli attori (e gli stuntmen), i registi e i professionisti che arrivavano dai Bmovie. Ma che sognavano (ancora) di prendere parte ai grandi titoli d’autore. Rick Dalton è esattamente questo, un attore da Bmovie: I 14 pugni di McCluskey, in cui arrostisce i nazisti con un lanciafiamme e una benda sull’occhio, come una specie di Nick Fury pre-Samuel L. Jackson e Marvel Cinematic Universe (il fumetto di Stan Lee e Jack Kirby è del 1963, e Fury è un reduce della Seconda Guerra Mondiale, bianco) e Tanner. E soprattutto di serie Tv, di telefilm, come venivano chiamate le produzioni hollywoodiane per il piccolo schermo: protagonista di Bounty Law e in procinto di girare il pilota di un altro western, Lancer, ma con comparsate in Tarzan, La terra dei giganti, F.B.I., Il calabrone verde.

         Tutte vere queste ultime, andate in onda negli anni ’60. Rick Dalton e Cliff Booth attraversano davvero la storia della televisione, anche se a modo loro: sul set di Il calabrone verde Cliff fa volare per aria Bruce Lee, che proprio al ruolo di Kato, l’assistente del protagonista, deve la sua fama (talmente vero che gli eredi si sono parecchio arrabbiati vedendo l’antenato schiantato contro una macchina). Rick invece è solo un guest, neppure star: glielo spiega bene il produttore Marvin Schwarzs (un favoloso Al Pacino), che a forza di fare il cattivo ed essere sempre sconfitto nello “scontro finale” (una regola ferrea della fiction verticale), la sua carriera rischia di andare a fondo. E allora meglio andare a fare i film in Italia. Rick vorrebbe il grande cinema, magari recitare in una pellicola del suo vicino di casa, Polanski, ma per lui (per quelli, gli attori, come lui) non c’è più posto a Hollywood, nella New Hollywood che sta per arrivare. Quella sarà l’occasione di Pacino, o di Robert Redford: il personaggio di Brad Pitt ne è insieme un omaggio, e una specie di ulteriore stunt double, in un cortocircuito che nella coppia Pitt-Di Caprio può rispecchiare quella Newman-Redford. Rick è bloccato, congelato, in quell’abbraccio incestuoso tra cinema e televisione, che si fanno nello stesso posto, ma a cui si guarda in modo diverso.

         Ci vorranno quasi quarant’anni perché gli attori e i registi di Hollywood decidano che è il caso di fare una televisione completamente diversa, quality tv, complex tv, quella dei premium cable e delle OTT, di HBO, Showtime, Netflix e Amazon. Ci arriveranno tutti, ma non Rick: per lui le porte del cancello verso il paradiso sono ancora chiuse. E allora Tarantino, per dispetto (e per affetto), nel suo 1969 cinematografico porta dentro gli attori televisivi di oggi e di ieri. Il pistolero Madrid di Timothy Olyphant arriva da Deadwood (la prima grande serie tv di ripensamento critico del mito del West, al contrario di Bonanza e La grande vallata, citata come esempi da non seguire per l’interpretazione) e da Justified (aggiornamento contemporaneo del character del marshall del Kentucky), e anche per Steve McQueen (presente e parlante in una festa di Playboy) si usa un volto-corpo televisivo, Damian Lewis, il tenente Brody di Homeland. E c’è anche il Luke Perry di Beverly Hills 90210, morto pochi mesi prima della reunion di BH90210, e la Lena Dunham di Girls, Austin Butler (che arriva addirittura dalle live action Disney e Nickelodeon, Hanna Montana, Zoey 101 e iCarly, prima di essere l’idolo strappamutande di The Carrie Diaries e The Shannara Chronicles), e pure il vecchio Nicholas Hammond, che interpreta il vero regista Sam Wanamaker, ma è noto per essere stato il primo Peter Parker televisivo.

         Nel 1969 sono quasi dieci anni che Lucille Ball (citata da una delle adepte di Manson per I Love Lucy, “l’unica serie in cui la gente non si uccideva”) si è comprata l’RKO, ha prodotto serie come The Untouchables, Star Trek,  Mission: Impossible e Mannix (altra evocazione del film),  inventato la sit-com registrata nei teatri di posa, messo la parola fine ai serial in diretta di New York e portato la Tv a Los Angeles. I reietti del grande cinema, invece, trovano rifugio nei suoi figli bastardi: lo spaghetti western e il poliziottesco italiano, da Corbucci a Margheriti. Qualcuno in quegli anni, seguendo la stessa parabola (ma lavorando con il “primo” e non il secondo dei registi di western italiani) è tornato a Hollywood e ha fatto la storia del cinema: è Clint Eastwood. Qualcun altro, guardandolo e studiandolo (insieme alla Nouvelle Vague), ha fatto un’altra storia del cinema: è Quentin Tarantino. Anche Rick torna (ingrassato e sposato) e del cinema salva l’anima. Magari sarà il protagonista di Chinatown al posto di Jack Nicholson.

         Eppure (ed è la seconda cosa da non fare), Once Upon a Time... in Hollywood non è come Inglorious Basterds, perché quella Storia non può essere cambiata (con i nazisti morti in una sala), mentre quella del cinema forse sì. Tarantino sa di poterlo ri-scrivere (come una fiaba): l’ha fatto rivitalizzando la memoria della black-exploitation (Jackie Brown), del genere italiano (Kill Bill, Django, Inglorious Basterds) e di quello giapponese (Kill Bill), del grindhouse. Adesso va a salvare l’innocenza perduta di quella notte caldissima del 1969: Sharon Tate potrà ancora andare a vedere infinite volte in sala la sua interpretazione in La fabbrica del rock, a fianco di Dean Martin, perché al suo posto ci sarà, eternamente, Margot Robbie, che non le assomiglia neppure troppo, pur essendo, oggi, bellissima come era la Tate. E con dolcezza, insieme a Polanski, potranno ripensare a quando lei gli ha regalato una copia di Tess di Thomas Hardy, perché quel film non avrà più bisogno di essere girato, o forse lo girerà proprio con la moglie, invece che con Nastassja Kinski, che non le assomigliava nemmeno troppo, ma nel 1979 era bellissima, come lei.

         C’è una dolcezza ingenua e struggente, in quel finale che apre le porte al sogno, alla fiaba, al titolo Once Upon a Time... in Hollywood, con due caratteri differenti, di libro delle storie e di insegna al neon (a riprendere tutte quelle disseminate nel film). In Inglorius Basterds era il grande cinema, una proiezionista cinefila, a (non) cambiare il mondo, qui è quello piccolo e basso (che gli/ci piace), e anche una certa Tv rozza e onesta, a prendersi la responsabilità. Ci si diverte molto, si ride delle gag, a tratti ha un respiro slapstick, e la consueta violenza liberatoria e infantile, giocosa. Nella sequenza del massacro dei ragazzotti di Manson si fa vendetta della memoria, e si disinnesca tanto l’atrocità siderante del gesto storico, quanto il fantasma che la loro sopravvivenza ha lasciato aleggiare per decenni, come una maledizione, nell’unico modo possibile, cioè prendendoli in giro. Eppure (terza cosa da non fare), Once Upon a Time... in Hollywood non è solo un film divertente, di puro piacere, e soprattutto non è un divertissement: è un film triste e disperato, per nulla nostalgico e compiaciuto, doloroso e dolente (si ride vedendolo, si piange pensandoci), ma non arreso, semmai ammutinato. Forse il film più emotivo e coinvolto di Tarantino. Come solo una fiaba può esserlo. Anche se girata a Los Angeles. E girata come solo Tarantino può girarla.

         Perché (quarta e ultima cosa da non fare) non si può dimenticare che sotto (o sopra) tutti i discorsi meta-interpretativi, ci sono due ore e mezza di cinema bellissimo. Basterebbero i viaggi in macchina di Cliff per la città, l’arrivo di Polanski e della Tate alla festa di Playboy, o quello al cinema, tutta la sequenza allo Spahn Ranch, per certificare scientificamente che nessuno sa girare il movimento come Tarantino. Negli anni dell’ipercinetismo isterico, o dell’immobilità narcisistica, nessuno è in grado di restituire una geografia (e geometria) per immagini come lui, in un dialogo costante tra particolare (iconico e, naturalmente, enciclopedico) e spazio. Solo che a forza di vederglielo fare, sempre, si finisce per dimenticarlo. Come di fronte a uno spettacolare plastico per i trenini, il rischio è di non voler ammettere che per realizzarlo ci voglia una competenza sempre più rara. E si veda soltanto un gioco. (Andrea Bellavita)

 

 


SegnoFilm n. 218

Charlie Says - Charlie dice
(Charlie Says)

Regìa: Mary Harron                              Orig.: U.S.A., 2018

Sogg.: ispirato al libro di Karlene Faith e Ed Sanders. Scenegg.: Guinevere Turner. Fotogr.: Crille Forsberg. Musica: Keegan Dewitt. Mont.: Andrew Hafitz. Scenogr.: Dins Danielsen. Costumi: Elizabeth Warn. Suono: Phillip Bladh. Interpr.: Hannah Murray (Leslie van Houten), Sosie Bacon (Patricia Krenwinkel), Marianne Rendón (Susan Atkins), Matt Smith (Charles Manson), Marritt Wever (Karlene Faith), Suky Waterhouse (Mary Brunner), Chace Crawford (Tex Watson), Annabeth Gish (Virginia Carlson), Kayli Carter (Squeaky Fromme), Grace Van Dien (Sharon Tate). Prod.: Dana Guerin, Cindi Rice, John Frank Rosenblum e Jeremy Rosen, per Epic Level Entert./Roxwell Films. Distr.: No.Mad Entertainment. Durata: 104 min.

Il film racconta le esistenze di Leslie van Houten, Susan Atkins e Patricia Krenwinkel, soffermandosi sulla loro vita nella comune controllata da Charles Manson e poi sui giorni del carcere, nei primi anni di pena scontata per i delitti commessi nel 1969 su ordine del guru californiano..

Charlie Says - Charlie dice 

         Strano destino quello di Mary Harron, firma longeva in calce a una filmografia rarefatta, regista severa e coerente per tematiche e scelte linguistiche, rispettata da una platea non esigua di ammiratori fedeli e tuttavia - al di là degli attestati di stima mezzo stampa, generalmente suscitati a ogni sua nuova uscita - profilo distante da un’attenzione cinefila tradotta in bibliografie specialistiche o contributi monografici. Nel 1996, al tempo del suo esordio sul grande schermo - dopo una carriera come giornalista musicale e, poi, come autrice per la televisione - il curioso e frammentario I Shot Andy Warhol si sovrappose alla lucentezza patinata del Basquiat di Julian Schnabel. Nell’impari sfida (anche sul piano dello sforzo produttivo), il debutto della regista anglo-canadese risultò in qualche misura sconfitto, nonostante un prestigioso lancio a Cannes nella sezione Un Certain Regard: mentre il secondo lungometraggio valse infatti al botteghino americano la cifra cospicua di oltre tre milioni di dollari, il film con Lili Taylor raggiunse poco più della metà degli incassi, distaccato di una quindicina di posti nella classifica spietata del box-office annuale. Il risultato importante ottenuto da una confezione di allure indie si vide così - almeno in parte - oscurato dalla vistosa parrucca candida indossata da David Bowie per il biopic sullo street artist statunitense; e solo il tempo ha avuto l’effetto di riequilibrare una percezione siffatta, restituendo a quella prova lo status indiscusso di piccolo cult.

         A distanza di oltre un ventennio - trascorso con spavalderia il delicato passaggio dell’adattamento dal romanzo ellisiano American Psycho - la pellicola della Harron, presentata agli Orizzonti lagunari per la settantacinquesima edizione della Mostra, si trova a far fronte a un’analoga, delicata circostanza distributiva. Scandagliando la vita ‘postuma’ delle tre ragazze che, sotto al controllo di Charles Manson, condivisero nello Spahn Ranch l’esperienza settaria della ‘famiglia’ radunata dal profeta di Helter Skelter e che si macchiarono poi dei delitti commessi durante l’agosto 1969 nel paradiso losangelino fra Cielo Drive e Waverly Drive, l’opera si propone di adottare una prospettiva ‘inedita’ su uno dei faits divers più mediaticamente risonanti dell’intero Novecento: tuttavia, un simile sguardo si affianca nelle sale alla quasi sincronica riflessione esercitata ai limiti di quel mondo da un blockbuster annunciato come Once Upon a Time... in Hollywood, l’affresco polifonico dedicato da Tarantino alla Fabbrica dei Sogni lungo la medesima, turbolenta fine d’epoca.

         Dunque, mutatis mutandis (il padre di Pulp Fiction gioca in una categoria differente da quella cui appartiene il retorico Schnabel), la Harron si trova per la seconda volta a far da controcanto - con la sua partitura intima, fatta di protagoniste rinchiuse nei circuiti penitenziari di un tempio hippie e di una prigione di stato - all’epica ‘al maschile’, attratta da un archetipo, ambiguo e  imponente, del panorama culturale del ventesimo secolo. Singolare circostanza, si diceva all’inizio, ma anche in fondo ‘figura’ di un percorso che ha da sempre prediletto storie di donne, le traversie di identità negoziate nel rapporto contraddittorio con la società degli uomini; di una prassi che si è innanzitutto concentrata sulla ricerca, da parte delle proprie eroine, di una realizzazione oltre l’immagine imposta sul corpo femminile da villains sadici, crudeli o per lo meno complici di un pregiudizio atavico.

         È un narcisista paranoico, prima ancora che un killer seriale di amiche e prostitute, il personaggio interpretato da Christian Bale nel 2000 nel rispetto della sceneggiatura messa a punta dalla stessa regista e da Guineveve Turner, sua collaboratrice anche per Charlie Says; conformemente si dimostrano avidi egoisti tutti gli incontri, sentimentali o professionali, che intersecano la parabola esistenziale di Bettie Page secondo la versione della carriera della pin-up proposta dallo stesso duo creativo nel 2005. Anche la Grace della serie Tv girata dalla Harron nel 2017 per CBC (e ora su Netflix) passa attraverso le forche caudine di un datore di lavoro violento e prevaricatore, prima di ritrovare se stessa con l’aiuto di un dottore simpatetico. Nel film su Manson, il guru paranoide svolge un medesimo ufficio: si offre cioè come la personificazione patologica di un dominio fallocentrico che condanna le tre giovani - Leslie, Susan e Pat - a un’attitudine soggiogata, dimentica di sé, inconsapevole di un diverso orizzonte di felicità e pienezza.

         Non a caso - nel mare magnum di letteratura, scientifica o commerciale, di documentari e materiali video aventi per tema la setta e i suoi crimini cruenti - il lungometraggio decide di partire dal testo di Karlene Faith, l’educatrice che per anni accompagnò la rieducazione delle ragazze nell’unità speciale di isolamento della California Institution for Women, quando cioè la loro pena venne commutata dall’iniziale condanna a morte a un lunghissimo ergastolo (fino a oggi senza rilascio sulla parola). Tale memoir è infatti chiaro nello stabilire come il destino di quelle ‘vittime’ - pure colpevoli di brutali omicidi - dovesse essere ricondotto alla loro stessa educazione borghese, a una cultivated femininity pre-sessantottina, propensa alla sottomissione, favorevole a un docile asservimento ai bisogni dell’Uomo (fosse esso marito, insegnante, prete o datore di lavoro).

         In questo senso Charlie Says moltiplica i dettagli sensibili, inanella sequenze toccanti, riservando un’attenzione compartecipe alla folla di adolescenti raccolte attorno a Manson, alle loro fragilità, al loro bisogno di amore; e nella scelta degli occhi di Leslie come punto di vista preferenziale, in coerenza con la struttura del reportage della Faith, dissemina la narrazione di pause, tentennamenti, incertezze che servono a rinviare a una coscienza altra, difforme dall’opprimente omogeneità della vita del culto, dall’idolatria imposta dal santone-bambino, a sua volta svelato come un ridicolo manipolatore, privo della statura di un profeta diabolico. Magistrale, in questa conduzione, è allora la sequenza dell’omicidio dei LaBianca (seguito al massacro di Sharon Tate e dei suoi amici), in cui la ferocia è solo suggerita, lasciata fuori-scena, trasformando quell’atto in un lacerante e silenzioso caso di coscienza; ma anche il regalo di un impossibile happy end - nel processo di umanissima ‘dignificazione’ cui si può ridurre il procedere del racconto - assume nell’ottica della pellicola un valore esemplare.

         È cioè la visualizzazione di un what if doloroso, che - ben lungi dal costituirsi come una rêverie, una fuga nell’impossibile - restituisce alle protagoniste, con pietà accostante, l’ardua consapevolezza del loro valore e della loro libertà. (Tommaso Mozzati)

 

 


SegnoFilm n. 217

Cyrano mon amour
(Edmond)

Regìa: Alexis Michalik                              Orig.: Francia/Belgio, 2018

Sogg. e Scenegg.: Alexis Michalik. Fotogr.: Giovanni Fiore Coltellacci. Musica: Romain Trouillet. Mont.: Anny Danche. Scenogr.: Franck Schwarz. Costumi: Thierry Delettre. Suono: Niels Barletta, Fred Demolder, Antoine Deflandre. Interpr.: Thomas Solivérès (Edmond Rostand), Olivier Gourmet (Constant Coquelin), Mathilde Seigner (Maria Legault), Tom Leeb (Léo Volny), Lucie Boujenah (Jeanne), Alice de Lencquesaing (Rosemonde), Clémentine Célarié (Sarah Bernhardt), Igor Gotesman (Jean Coquelin), Dominique Pino (Lucien), Simon Abkarian (Ange Floury), Marc Andreoni (Marcel Floury), Alexis Michalik (Georges Feydeau). Prod.: Alain Goldman, per Legende Films/Gaumont/France 2 Cinéma/Ezra/Rosemonde Films/Nexus Factory/Umedia/C2M Prods. Distr.: Officine Ubu. Durata: 109 min.

Parigi, 27 dicembre 1897, Théâtre de la Porte Saint-Martin, il Cyrano de Bergerac, scritto dal poeta Edmond Rostand ottiene dal pubblico a fine rappresentazione più di 40 chiamate, tanto che si decide di non abbassare più il sipario. I giorni che precedono questa incredibile messa in scena sono raccontati nel film con fedeltà storica e tanta immaginazione, seguendo la tenace ispirazione dell’autore, che sembra sempre sul punto di cedere, e sempre caparbiamente si riprende e infine trionfa.

Cyrano mon amour         

         Scritto innanzitutto in veste di sceneggiatura cinematografica, e dirottato per mancanza di finanziamenti sul palcoscenico teatrale, dove colleziona premi su premi, quindi ricondotto sull’originario territorio del cinema, Edmond, di Alexis Michalik, incentrato sulla genesi del Cyrano di Rostand, vuole essere un musical senza canzoni, immerso nel ritmo dei versi alessandrini, che un'instancabile steadycam coreografa dal primo all’ultimo frame. Come si trattasse di un Vincente Minnelli rivisitato da Spielberg, l’autore e regista Alexis Michalik, non bada a spazi, e allestisce tutti i set possibili e immaginabili che il suo copione richiede, quasi sempre in teatro di posa (tranne una piccola sorpresa sul finale), in cui la steadycam si infila e volteggia al suono della prosa poetica di un dialogo tenuto in bilico tra conversazione e versificazione.

         L’idea di base, che Michalik dichiara nelle interviste, è quella del rapporto tra protagonismo e anonimato. A differenza di uno Shakespeare o di un Molière, il Cyrano è un caso in cui l’opera è infatti rimasta più celebre del suo autore. Se è impossibile ignorare i nomi dei creatori di Amleto e di Tartufo, può invece capitare di conoscere benissimo il cavaliere di Bergerac, e nulla ricordare di chi lo scrisse. Michalik assegna così a Edmond Rostand (il film in originale non a caso s'intitola Edmond) un look da Charlot, un piccolo uomo alle prese con problemi più grandi di lui. Il cinema di Lumière imperversa da due anni a Parigi, il teatro del tempo è territorio di caccia o del vaudeville di Feydau e Courteline, oppure del naturalismo di André Antoine, mentre le opere in versi che propone Rostand sono considerate un polveroso residuo di un romanticismo di maniera. È lui, quindi, il minuto e mite Edmond, come fosse un nuovo Richard Dreyfuss di Incontri ravvicinati del terzo tipo, l’eroe spielberghiano da valutare e redimere. Il “poeta qualunque” nell’epoca dell’elettricità e della tecnologia, ossia il “bambino”, Charlot, che è in ciascuno di noi, quando la voce della poesia rischia di rimanere soffocata dalle strida del progresso.

         Come nelle sequenze oniriche dei musical di Minnelli, e in quasi tutto il cinema di Spielberg, l’eroe dimesso e indifeso viene circondato da agenti sia del male (pochi) sia del bene (molti). L’eroe chapliniano/spielberghiano, qui, scansa qualsiasi avversità grazie a un team di figure di soccorso, che più l’impresa pare impossibile, e più e meglio lo incoraggiano e sostengono. Così accade perché questa, in sintesi, è la Francia. Come a dire che le poetiche di Minnelli e Spielberg in fondo provengono dall’Europa, cioè da Frank Capra, che di eroi smarriti e personaggi soccorritori se ne intendeva. Ma l’Europa, senza offesa per nessuno, è la Francia. E se negli Usa, nel 2001, sono state abbattute le torri un po’ fredde del capitalismo, a Parigi, nel 2019, è crollata la cattedrale ardente della Cultura e della Storia. La Francia, al di là dell’Europa, insomma, è il Mondo.

         Cyrano mon amour è così un film così francese da essere un film-mondo tutto ambientato nelle strade e nei caffè di Parigi, a seguire la creazione di un personaggio talmente romantico da risultare infine fuori dal tempo. Un personaggio-mondo, Cyrano, emblema dell’onore, in duello, e dell’arte, in amore, che paga la sua “universalità” di eroe, con l’anonimato di uomo e individuo. La figura di mediazione tra eroe e uomo, allora, per affrontare il dissidio tra fama e oblio, è la figura dell’attore. Constant Coquelin, l’interprete del Cirano originario (un Olivier Gourmet spettacoloso), in un dialogo del film, quando comprende che l’opera sarà finalmente un grande successo, deve ammettere che il nome del personaggio, Cyrano, sfiderà i secoli, e il nome dell’interprete, Coquelin, svanirà nella nebbia del passato. Ma non importa, perché l’attore ha proprio nell’effimero il suo destino: egli è il re di quel tempo che si consuma nell’interpretazione del personaggio. Questi, il personaggio, rimane, lui, l’attore se ne andrà. Ma quando il connubio attore/personaggio genera il miracolo del successo, 40 chiamate a sipario spalancato, allora è l’attore che trionfa sul personaggio. Sarà anche di breve durata, ma il tempo effimero delle 40 chiamate non conosce rivale alcuno. È solo il palcoscenico, infatti, il mondo dell’attore, tanto che, chiuso il sipario, quel mondo certo scompare.

         Il film di Michalik, così, è una riflessione sulla figura dell’attore nell’età di transito fra il teatro e il cinema, che significa il passaggio dall’attore al regista. Il Cyrano di Rostand/Coquelin, nel film, non ha infatti nessun regista, mentre l’anno “1900”, il XX secolo, è sul punto d'irrompere sulla scena del mondo, con il suo bagaglio di iper-tecnologia che muterà il personaggio in personality e l’attore in performer. La bella costumista dello spettacolo, figura ispiratrice del personaggio di Rossana, che per una improvvisa mancanza della primattrice interpreterà persino la protagonista femminile la sera della prima, andrà infatti subito dopo a lavorare con Méliès. Resta da chiedersi, sui titoli di coda, perché mai il cinema italiano non tenti mai la carta di un cinema come questo, vista la messe di artisti e di interpreti che vanta la storia nazionale. Un cinema che peschi nella nostra tradizione e la reinventi con intelligenza e libertà, e con senso pieno dello spettacolo, lasciando da parte almeno per un istante le commediucce sempre più prevedibili e inerti, e l’epicità ormai logora delle eterne vicende della criminalità organizzata. (Flavio De Bernardinis)

 

 


SegnoFilm n. 216

La favorita
(The Favourite)

Regìa: Yorgos Lanthimos Orig.: Irl./U.K./U.S.A., 2018

Sogg. e Scenegg.: Deborah Davis, Tony McNamara. Fotogr.: Robbie Ryan. Musica: Komeil S. Hosseini. Mont.: Yorgos Mavropsaridis. Scenogr.: Fiona Crombie. Costumi: Sandy Powell. Suono: Johnnie Burn. Interpr.: Olivia Colman (la Regina Anna), Emma Stone (Abigail), Rachel Weisz (Lady Sarah), Nicholas Hoult (Harley), Joe Alwyn (Masham), James Smith (Godolphin), Mark Gatiss (Lord Marlborough), Jenny Rainsford (Mae), Liam Fleming (Kevin). Prod.: Ceci Dempsey, Ed Guiney, Lee Magiday e Yorgos Lanthimos, per Fox Searchlight Pictures/Film4/Waypoint Entert. pres./Element Pictures/Scarlet Films. Distr.: 20th Century Fox Italia. Durata: 119 min.

Alla corte della regina Anna d’Inghilterra è la sua amica e amante, la scaltra lady Sarah Marlborough, a tenere le fila della politica del Regno. Giunge a palazzo sua cugina Abigail, una dama caduta in disgrazia, che le chiede aiuto e protezione. Dagli umili lavori in cucina Abigail riesce abilmente a entrare nelle grazie e nel letto della regina suscitando la gelosia di Sarah che chiede ad Anna, con la minaccia di rendere pubbliche le loro lettere intime, l’immediato allontanamento della cugina. La regina scaccia invece Sarah e Abigail è la nuova favorita.

La favorita 

        

“Oh che mortali intrighi tessono le donne alle donne,

senza pietà per l’anima e l’onore”

(Thomas Middleton, Donne attente alle donne)

         Il cinema ostico, disturbante sino al raccapriccio di Yorgos Lanthimos ha, con The Favourite, una battuta d’arresto. Una delle ragioni è ascrivibile al fatto che per la prima volta Lanthimos non è l’autore del film; si avvale di una brillante sceneggiatura fitta di dialoghi che, con linguaggio moderno, strizzano l’occhio alle argute schermaglie delle commedie della Restaurazione inglese riuscendo ad amalgamare i toni comici con quelli tragici. A entrambi, gli attori danno voce con intensa espressività, rinunciando il regista alla sua abituale richiesta di una recitazione fredda e distaccata. È interessante notare come Lanthimos abbia comunque impresso il suo marchio a un soggetto non suo e, per di più, a un film in costume. Già nella prima scena sono presenti tutti gli ingredienti di un tradizionale film storico: il suono del clavicembalo di un concerto grosso di Händel, una sontuosa dimora ricca di arredi, di affreschi, di composizioni floreali, una regina con la corona, le damigelle che piegano il lungo manto regale. L’immagine è tuttavia distorta. Non è che una delle tante scene in cui il regista ricorre allo stratagemma della lente grandangolare (già impiegato in The Killing of a Sacred Deer) che, se da un lato gli permette di ampliare lo spazio visivo, dall’altro, con l’effetto di curvatura delle immagini, lo racchiude come a imprigionare i personaggi.

         E prigionieri sono tutti i personaggi dei film di Lanthimos: delle leggi familiari in Dogtooth, di quelle sociali in The Lobster, di un’insondabile Dike in The Killing of a Sacred Deer. In The Favourite sono prigionieri di se stessi, del proprio passato, delle proprie pulsioni e ambizioni. Una bravissima Olivia Colman, che in The Lobster interpretava la direttrice di un hotel, univoca nella sua spietatezza, è in The Favourite un personaggio più drammaticamente articolato. All’origine dei suoi comportamenti infantili, bulimici, isterici, è la morte dei suoi diciassette figli; un dolore straziante, contenuto dalla presenza e dalla cura di altrettanti coniglietti, o lasciato erompere quando ordina a un gruppo di piccoli musicisti di smettere di suonare - quei bambini le ricordano ciò che ha perduto - e, come impazzita, si aggira nelle stanze del palazzo, strappa dalle braccia di una cameriera un bimbo per tenerlo fra le sue, sia pure per pochi istanti.

         È difficile tracciare il confine fra il sentimento che Sarah prova per Anna e i suoi egoistici interessi o fra questi e la reale preoccupazione per le ragioni di stato. Innegabile è il legame profondo che lega le due donne, amiche sin dall’infanzia ai cui ricordi si lasciano spesso andare. Sarah, al contrario della melliflua Abigail, è diretta, si permette di criticarla e di non compiacerla sempre perché, come ella stessa afferma, ci sono dei limiti all’amore. Ritorna in Lanthimos la provocatoria riflessione sui “limiti” dell’amore: in The Killing of a Sacred Deer la madre, pur amando i propri figli, non offre la propria vita per salvare quella di uno di loro; in The Lobster un uomo sembra invece pronto ad accecarsi per amore.

         Abigail non è semplicemente un’arrivista. Alle spalle ha un passato di violenze subite in primis dal padre che, dopo aver perduto tutto al gioco, la vende a un vecchio. Giunta a palazzo, si trova più volte scaraventata per terra, una cameriera nelle cucine - invidia e crudeltà colpiscono tutti gli strati sociali - si diverte lasciando che la sua mano bruci nella soda caustica. La giovane donna cerca di scampare a un destino di miseria, di farsi ben volere dalla regina curandole la gotta, dichiarandosi “donna d’onore” fedele alla sua protettrice. A corromperla contribuisce l’ambiente di corte dove gli uomini si divertono con passatempi meschini, come far gareggiare le papere o, ancor peggio, scaraventare arance marce contro un uomo nudo imparruccato. Come in una satira swiftiana, il regista ne mostra gli aspetti grotteschi amplificando i gesti ridicoli e le smorfie sui volti imbellettati con l’uso del rallenti; ed è soprattutto Sarah a mostrare ad Abigail come saper essere spietata e la maestria con la quale le insegna a uccidere i colombi lanciati in volo ne è la cruda metafora.

         Abigail impara: il sangue del volatile colpito che va a imbrattare il volto di Sarah segna l’inizio di un cammino costellato di astuzie e di inganni. Dopo aver intercettato e letto la lettera di scuse che Sarah scrive ad Anna per essere riaccolta a corte, Abigail la brucia, e tuttavia piange, forse perché commossa dalle parole di Sarah o forse per se stessa, per la crudeltà di cui ormai è capace; la stessa con la quale schiaccia senza motivo uno dei piccoli conigli. Il gesto non sfugge alla regina che, piena di rancore, con la mano si appoggia sulla sua testa tirandole i capelli. È l’ultima scena del film: al volto regale di Anna, devastato dalla malattia, dalla rabbia e dalla nostalgia per l’amica perduta si sovrappone con una dissolvenza prima quello piegato e umiliato di Abigail, dopo, l’immagine perturbante di un nugolo di conigli.

         Costante è la presenza di animali nei film di Lanthimos, persino nei titoli, come in un confronto continuo fra una vita regolata dalla forza infallibile dell’istinto, priva di leggi, senza colpe e senza inibizioni e quella dell’uomo, assoggettata alle leggi, vincolata alle regole sociali. In The Lobster, infatti, chi si sottrae alle leggi viene trasformato in animale; a una ragazza, prima della trasformazione, viene proposto di leggere un classico della letteratura o di fare qualsiasi altra cosa - la ragazza sceglierà di guardare un film - che gli animali non possono fare in quanto non toccati da inquietudini esistenziali.

         L’inquieta ricerca del cinema di Lanthimos si articola anche nella scelta d'insolite inquadrature che tagliano le teste dei personaggi (come in Kinetta), li riprendono da vertiginose altezze (in The Killing of a Sacred Deer e in The Favourite nella scena del ballo) o mentre percorrono lunghi corridoi: di un ospedale (in Alps e in The Killing of a Sacred Deer), di un hotel (in Kinetta e in The Lobster), di un palazzo (in The Favourite). In quest’ultimo numerose sono quelle dal basso verso l’alto, ma a sorprendere sono soprattutto movimenti di macchina bruschi e violenti. Ansia di vedere; paura di non vedere o non di saper vedere abbastanza. È ossessivo  nei film di Lanthimos il riferimento oftalmico. In Kinetta la protagonista lamenta di avere qualcosa nell’occhio. In Alps, a uomo bisognoso di gocce negli occhi, si aggiunge una donna cieca e, pensando a lei, una ginnasta prova un esercizio con gli occhi bendati. In The Lobster c’è la miopia e la cecità. In The Killing of a Sacred Deer gli occhi del bimbo morente sanguinano.

         In The Favourite la regina non riesce a leggere i documenti e deve ricorrere a una lente; per mascherare una ferita che le ha sfregiato una guancia, Sarah indossa una benda che le copre anche un occhio e, ancor prima, viene bendata da Anna per gioco: non è che il segno dell’incapacità di vedere le trame ordite da Abigail che, al contrario - tranne che nel finale - ha gli occhi ben aperti. I suoi bulbi sembrano protendersi quando sorprende Sarah ad amoreggiare con la regina o quando, durante la prima notte di nozze, rimugina sul da farsi mentre meccanicamente manipola i genitali del marito. Il sesso, ridotto a pulsione da soddisfare, e privato di ogni erotismo, è sempre desolante nella filmografia di Lanthimos; e basti ricordare la donna, in The Killing of a Sacred Deer, che nell’amplesso deve fingersi anestetizzata.

         Riuscita è nel film la commistione fra antico e moderno anche nei costumi (dalle forme tipiche dell’epoca, ma realizzati con materiali moderni come jeans e vinile); nella danza (il minuetto dalla coreografia bislacca e anacronistica); nella colonna sonora che, come nei film precedenti, unisce brani classici e contemporanei e si avvale di cellule ritmiche che (come il sol assillante nella Musica Ricercata, II di Ligeti in Eyes Wide Shut), si ripetono ossessivamente acuendo i momenti di tensione: strappi ottenuti con la fisarmonica in The Killing of a Sacred Deer, con il violino in The Lobster e in The Favourite al quale si aggiunge una minacciosa percussione. Scelte riuscite sino allo scorrimento dei titoli di testa con la canzone di Elton John Skyline Pigeon: ritorna il suono del clavicembalo, l’immagine di una prigionia e di un animale, un colombo, libero nel suo volo. (Eliana Elia) 

 

 


SegnoFilm n. 215

Roma
(Roma)

Regìa: Alfonso Cuarón Orig.: Messico/U.S.A., 2018

Sogg., Scenegg. e Fotogr.: Alfonso Cuarón. Mont.: Alfonso Cuarón, Adam Gough. Scenogr.: Eugenio Caballero. Costumi: Anna Terrazas. Suono: Sergio Diaz. Eff. Vis.: Framestore, Mr. X, MPC. Interpr.: Yalitza Aparicio (Cleo), Marina de Tavira (sign.a Sofia), Diego Cortina Autrey (Toño), Carlos Peralta (Paco), Marco Graf (Pepe), Daniela Demesa (Sofi), Nancy García García (Adela), Verónica García (sig.a Teresa), Andy Cortés (Ignacio), Fernando Grediaga (sig. Antonio), Jorge Antonio Guerrero (Fermín), José Manuel Guerrero Menoza (Ramón), Latin Lover (prof. Zovek). Prod.: Alfonso Cuarón, Nicolás Celis e Gabriela Rodriguez, per Esperanto Filmoj/Participant Media. Distr.: Cineteca di Bologna/Netflix. Durata: 135 min.

Cleo è l’amorevole domestica di una famiglia borghese che abita in uno dei quartieri residenziali di Città del Messico, Roma. Si occupa della casa e della cura dei quattro figli. La moglie, lasciata dal marito, tenta con fatica di riorganizzare la propria vita. Cleo, messa incinta e poi abbandonata da Fermín - che più tardi parteciperà al massacro della protesta studentesca del 10 giugno 1971 - perde il bambino, ma la famiglia le sta vicino e quando durante una vacanza al mare salva la vita a due dei figli, ancora più saldo diventa il legame che li unisce.

Roma 

        

“M’era nato il desiderio di [...] riaccostarmi alla mia infanzia e alle profondità della mia memoria” (Marcel Proust, Il tempo ritrovato

         Il desiderio del regista di accostarsi alla propria infanzia e di tracciare il segno profondo lasciato dalla sua tata Libo - Liboria Rodriguez, oggi 74enne - è già racchiuso in Y tu mamá tambíen: in una brevissima scena, la stessa Libo interpretava Leo, l’affettuosa cameriera del giovane protagonista il quale, percorrendo le strade dello stato di Oaxaca, terra natale della donna, la ricorda per essersi presa cura di lui sin dalla nascita e per averla chiamata mamma fino all’età di quattro anni. Lo sguardo retrospettivo appena accennato in Y tu mamá tambíen, prende corpo diciassette anni dopo in Roma. Il film è dedicato a Libo - come è scritto nei titoli di coda - ed è interamente focalizzato su di lei. Leo diventa Cleo e a interpretarla con intensa grazia e delicatezza è Yalitza Aparicio, anche lei di origine mixteca. I suoi tratti contrastano con quelli europei dei componenti della famiglia che corrispondono esattamente ai membri della famiglia di Alfonso Cuarón: Sofia, la madre; Antonio, il padre; Teresa, la nonna materna; Pepe, il fratello più piccolo del regista; Toño, il fratello maggiore; Sofi, la sorella; Paco, il regista stesso all’età di dieci anni.

         La differenza etnica è segno di diseguaglianza sociale ma non dell’impossibilità di costruire profonde relazioni di affetto che finiscono col trascenderla. Siamo distanti sia dal topos della serva oggetto di maltrattamenti (come la sguattera di colore in A Little Princess dello stesso Cuarón), sia dal perverso ribaltamento dei ruoli in The Servant di Losey.

         Cleo accetta con dignità il proprio ruolo senza pretendere di travalicarne i confini; è solo il piccolo Pepe, non ancora in grado di percepire le differenze sociali alle quali il mondo adulto si aggrappa, a permettersi di piagnucolare quando alla sua amata tata - sedutasi per un momento accanto al divano dove tutta la famiglia è riunita per guardare la televisione - viene richiesto di recarsi in cucina per preparare una tisana.

         Cleo è mite e gioiosa: canta mentre rassetta le stanze o lava i panni, mette a letto i bimbi con una ninna-nanna e li risveglia con altrettanta dolcezza; scherza con la sua amica, fanno ginnastica insieme e si rincorrono per la strada; si abbandona all’amore e ai baci di Fermín nel buio di una sala cinematografica; e mentre il pubblico ride per le esilaranti immagini finali de La grande vadrouille, si rende conto di essere stata abbandonata. Marooned (1969) è l’altro film citato in Roma, evidente riferimento a Gravity ma soprattutto al tema della solitudine esistenziale di cui gli astronauti che vagano nello spazio sono una potente metafora. “Siamo sempre sole” dice Sofia a Cleo accarezzandole il volto che anche nel dolore non perde compostezza e dignità. Non solo la bravura dell’attrice, ma ogni artificio dell’ingranaggio cinematografico - soprattutto la scelta di uno strepitoso bianco e nero e di formidabili piani sequenza - è impiegato dal regista-demiurgo per scavare nei meandri incerti della memoria e “resuscitare” il passato.

         Fortemente radicato nella realtà messicana, Roma si apre a una dimensione cosmica nel dare voce ai suoi Elementi: il Fuoco del bosco che brucia, la Terra che trema per alcuni istanti, l’Aria che Cleo respira a pieni polmoni riconoscendo gli odori del suo paese e soprattutto l’Acqua nelle sue forme più varie: l’acqua saponata che nell’incipit scorre sui mattoni, le gocce che cadono dai panni stesi ad asciugare, la grandine che i bimbi raccolgono, l’acqua con cui Cleo si lava, abbevera il cane e toglie lo sporco, quella delle pozzanghere, quella impetuosa del mare, il liquido amniotico che cola sulle sue gambe. A sostanziare la messicanità sono soprattutto i suoni delle lingue parlate (lo spagnolo e il mixteco), delle urla dei venditori ambulanti, delle fanfare, lo zufolare dell’arrotino, i programmi televisivi, le canzoni alla radio.

         Ma sono anche la specificità del quartiere Roma con le sue case residenziali, i bar, i cinema; il caratteristico rancho con le sue feste altolocate, i gringos che sparano, i cani e gli animali imbalsamati; la periferia degradata con i suoi personaggi bislacchi (come l’uomo cannone o il prof. Zovek); la spiaggia di Tuxpan con i suoi palmizi; i paesaggi con le grandi agavi e le montagne che si stagliano sullo sfondo; lo sberleffo alla morte - che tanto aveva colpito Eisenstein in Que viva Mexico! - nella bellissima scena che vede Pepe e la sua tata fingere di essere morti mentre un raggio di sole le illumina il volto. Messicani sono i personaggi politici evocati e il terribile massacro del Corpus Christi le cui terrificanti immagini di violenza riportano a quelle in Children of Men non solo per la maestrìa con cui sono girate, ma anche per la presenza di una donna di colore incinta che nel tumulto (come Cleo) perde le acque e dà alla luce un bimbo i cui vagiti riescono a fermare per alcuni istanti l’orrore.

         Cleo invece perde il bambino. In una lunga e straziante sequenza, la macchina da presa, immobile, inquadra lei in primo piano mentre partorisce e, sullo sfondo e fuori fuoco, sotto il suo sguardo smarrito e pieno di dolore, i medici che tentano con gesti efficienti e pietosi di rianimare il corpicino senza vita per poi avvolgerlo in un panno come in un sudario. La cura per il profilmico è meticolosa anche nella ricostruzione della casa natale. Cuarón afferma di aver chiesto ai fratelli ogni mobilio, ogni oggetto ancora in loro possesso per ricostruirla così com’era. Un dettaglio, Calle Tepeji 21, ne indica anche l’indirizzo. Per quanto ricca di stanze, librerie, suppellettili, le pesanti inferriate delle finestre e del portone conferiscono alla casa un aspetto reclusorio accentuato dalla presenza nell’atrio di uccelli chiusi nelle gabbie e di un cane che, mai portato a spasso fuori, è costretto a disseminare i suoi escrementi sui mattoni e a saltare o a guaire nel vano tentativo di uscire.

         Nello spazio circoscritto dell’atrio fa il suo ingresso il padre alla guida di una roboante Ford Galaxy, i cui dettagli, in una rapida successione di inquadrature, diventano simbolo di un machismo che si radicalizza in Fermín con l’esibizione delle sue nudità e dei suoi gesti marziali (Cleo non può fare a meno di sorriderne, ma ha anche il garbo di nasconderlo) e soprattutto con la brutalità verbale che le scaglia contro e col diventare parte dei violenti Los Halcones. La sproporzione fra le dimensioni della Ford Galaxi e l’atrio angusto, con le conseguenti difficoltà dell’uomo a parcheggiarla, diventano segno della sua (in)sofferenza a rientrare in seno alla famiglia. I gesti maldestri di Sofia non solo nel parcheggiarla ma anche nel guidarla in città sono emblematici della sua incapacità di gestire una situazione di crisi. L’acquisto di una macchina più piccola, proporzionata alle dimensioni dell’atrio, segna l’inizio di una svolta costruttiva che intende dare alla propria vita e a quella dei figli nonostante l’assenza del padre.

         Un’assenza patita da Paco (alter ego del regista da piccolo) e da lui per primo percepita quando origlia la madre che al telefono parla del tradimento del padre. Scoperto, ne riceve uno schiaffo e poi un abbraccio che li fa piangere assieme. Irrequieto, durante un litigio con Toño, gli scaglia un soprammobile che va a colpire il portone: il foro inciso sulla vetrata non è che l’immagine della rottura in atto degli equilibri familiari e di una ferita con la quale si dovrà confrontare. Quando la madre ufficializza la decisione del padre di non voler tornare a casa Paco si lascia andare ai singhiozzi (la macchina da presa lo riprende pudicamente di spalle) ed è l’unico a farlo.

         Cleo lo consola e gli salva poco dopo la vita sottraendolo ai flutti del mare. Il piano sequenza che mostra l’evento rende palpabile il pericolo, udibile il crescente fragore delle onde contro le quali la donna, pur non sapendo nuotare, si dirige con coraggio. Dopo la scampata tragedia, nell’abbraccio corale che riceve sulla spiaggia, colmo di affetto e di gratitudine, confessa di non aver mai desiderato che la sua bimba nascesse; una colpa che sente alleggerita per aver condotto a riva i due bambini.

         Tornati a casa - non più la stessa soprattutto per l’assenza delle librerie portate via dal padre che emblematicamente riflettono il vuoto da lui lasciato - tutti si siedono per raccontare alla nonna l’accaduto; Cleo raccoglie i panni sporchi e sale sul terrazzo per lavarli. Nell’incipit del film la macchina da presa è rivolta verso il basso e mostra, sui mattoni bagnati dall’acqua, il riflesso di un frammento di cielo attraversato da un aereo; nel finale segue Cleo mentre sale verso l’alto e il cielo, che un altro aereo attraversa, si apre a un più ampio respiro. (Eliana Elia) 

 

 


SegnoFilm n. 214

First Man - Il primo uomo
(First Man)

Regìa: Damien Chazelle Orig.: U.S.A., 2018

Sogg.: basato sul libro di James R. Hansen. Scenegg.: Josh Singer. Fotogr.: Linus Sandgren. Musica: Justin Hurwitz. Mont.: Tom Cross. Scenogr.: Nathan Crowley. Costumi: Mary Zophres. Suono: Ai-Ling Lee. Eff. Vis.: Double Negative, Factory VFX. Interpr.: Ryan Gosling (Neil Armstrong), Claire Foy (Janet Armstrong), Jason Clarke (Ed White), Kyle Chandler (Deke Slayton), Corey Stoll (Buzz Aldrin), Patrick Fugit (Elliott See), Christopher Abbott (Dave Scott), Ciarán Hinds (Bob Gilruth), Olivia Hamilton (Pat White), Pablo Schreiber (Jim Lovell), Shea Whigham (Gus Grissom), Lukas Haas (Mike Collins), Ethan Embry (Pete Conrad), Brian D'Arcy James (Joe Walker), Cory Michael Smith (Roger Chaffee), Kris Swanberg (Marilyn See). Prod.: Wyck Godfrey, Marty Bowen, Isaac Klausner e Damien Chazelle, per Universal Pictures/DreamWorks Pictures/Perfect World Pictures pres./Temple Hill Prod. Distr.: Universal Pictures. Durata: 141 min.

Tratto dall’omonima biografia scritta da James R. Hansen, il film si concentra sull’arco temporale della vita di Neil Armstrong che va dal 1961 al 1969. Le vicende familiari, funestate dalla morte per cancro della figlia di soli tre anni, si alternano alle esperienze di pilota e poi di astronauta della NASA nelle missioni Gemini e Apollo che lo porteranno a essere il primo uomo sulla Luna.

First man 

        

“La luna non è una porta. È una vera faccia / bianca come una nocca, sconvolta. /... è silenziosa, / la bocca fissa nell’O della disperazione”

(Silvia Plath, da La luna e il tasso

         I personaggi dei film di Chazelle sono instancabili inseguitori di sogni. Il regista ne traccia i tortuosi percorsi, le rinunce, e l’obiettivo ambito e poi raggiunto finisce inevitabilmente con il tingersi d’amarezza. In Whiplash il protagonista subisce le vessazioni del suo insegnante per diventare un mirabile batterista. In La La Land, i due giovani innamorati realizzano le proprie aspirazioni ma perdono il loro amore. In First Man il sogno in gioco ha tuttavia un’altra portata, un altro spessore in quanto non trae origine da un’ambizione personale, ma da un desiderio che l’intera umanità ha accarezzato e agognato sin dalla notte dei tempi. Il kubrickiano Moon-Watcher diventa Moon-Walker. La distanza che separa la Terra dalla Luna, tracciata con un gessetto sulla lavagna sia da un buffo astronomo in Le voyage dans la lune di Méliès che dall’astronauta Aldrin in First Man, è colmata. Chazelle si confronta con un mito, Neil Armstrong, e con un’esperienza mitica, lo sbarco sulla Luna. Eppure l’approccio è il medesimo ed è volto a cogliere lo scotto pagato che, pur non mirando alla demitizzazione dell’uomo e dell’evento, ne mette in luce la complessità anche negli aspetti più tragici e dolenti. 

         Sin dall’incipit lo spettatore è fagocitato all’interno di un'esperienza visiva e uditiva estrema e disturbante. I movimenti di macchina frenetici - che in Whiplash seguivano gli estenuanti virtuosismi del musicista, le cui mani finiscono con il sanguinare e imbrattare le bacchette e la pelle del tamburo percosso - si realizzano all’interno di claustrofobici abitacoli.  All’inizio è quello dell’aereo-razzo X-15 che, con rumori sferraglianti, sobbalza convulsamente fra l’atmosfera e lo spazio. Il giovane Armstrong,  dopo una spossante lotta per rimetterlo in linea, atterra con il volto contratto. Il volo transatmosferico non è che l’inizio di un’avventura che solo in rari momenti ricorda la visione aperta sullo spazio (il punto di vista è essenzialmente quello circoscritto dagli oblò dei veicoli spaziali), la leggerezza (del movimento delle navicelle, dei corpi che fluttuano nell’assenza di gravità come la penna che sfugge dalla mano di Armstrong) e la maestosa lentezza dell’Odissea di Kubrick. 

         La tensione della scena iniziale rimanda a quella in cui in The Right Stuff il pilota riesce nella rischiosa impresa di travalicare il muro del suono. Del film di Kaufman, First Man è una sorta di prosieguo: sono presenti infatti nel film alcuni di quei sette astronauti che partecipano al progetto Mercury al quale si avvicendano i programmi Gemini e Apollo. Chazelle ne ricostruisce le fasi esecutive con accuratezza scientifica; se da un lato si basa su documentari quali For All Mankind e Moonwalk One, dall’altro va oltre nel ricreare alcuni degli episodi più sfibranti e pericolosi. Il successo della Gemini 8 che riesce per la prima volta ad agganciare in orbita un modulo Agena, si trasforma in un incubo: Armstrong - e con lui lo spettatore - si ritrova rinchiuso dentro un frullatore spaziale. Manca la pressione per mettere in moto i razzi direzionali; il distacco dal modulo non risolve, ma moltiplica le vorticose rotazioni che fanno pulsare il battito cardiaco fino al limite della resistenza umana. Solo dopo un lungo patire l’astronauta riprende il controllo della navicella e, interrompendo la missione, la riporta in salvo. La prontezza e il coraggio dell’astronauta sono riproposti anche in seguito quando, durante una fallimentare esercitazioni a terra del LEM (il “ragno” che lo porterà sulla Luna), riesce ad attivare il meccanismo di eiezione appena un istante prima dello schianto.

         La fatale simulazione a terra dell’Apollo 1 è ricostruita nel suo farsi tragedia. I tre astronauti, Grissom, White e Chafee, si distendono nella capsula come in un sarcofago. Il pesante portellone di accesso li sigilla dentro con un tonfo fragoroso. D’improvviso la macchina da presa si sposta convulsamente da una parte all’altra della cabina fra rumori metallici, interruttori lampeggianti e lingue di fuoco che divampano. La pietosa   invocazione d’aiuto che giunge alla sala di controllo resta senza risposta. Il disastro sconcerta e acuisce nell’opinione pubblica lo scetticismo sull’opportunità di quella spericolata conquista dello spazio dietro la quale, il film non si esime dal metterlo in luce, si nascondono istanze propagandistiche tese ad abbattere l’ideologia del colosso sovietico. È ancora viva l’eco del discorso con il quale nel 1962 John Fitzgerald Kennedy - il film ne mostra uno stralcio -  esortava la nazione a realizzare l’epica impresa per il bene di tutti i popoli. Alcune interviste, fra le quali spicca quella allo scrittore Kurt Vonnegut, danno voce a quanti la ritenevano invece pericolosa, inutile e dispendiosa.

         Il film non prende posizioni e, concentrandosi sulle motivazioni dell’agire di Armstrong, le ravvisa nel grumo di dolore causato dalla perdita della figlia. La delicatezza della ciocca di capelli della bimba che l’uomo accarezza, la dolcezza del suo tenerla in braccio mentre le sussurra la canzone I See the Moon and the Moon Sees Me sono messi in contrasto con la durezza delle esperienze spaziali come se in quello sferragliare e vorticare l’uomo cercasse d'intorpidire il suo dolore.

         La musica, sempre così strutturante nei film di Chazelle anche in First Man ha una sua valenza. La canzone cantata alla bimba racchiude tutta l’aurea romantica che da sempre ha avvolto la Luna. Anche in un brano musicale di Guy and Madeline on a Park Bench la Luna è sullo sfondo di una coppia che amoreggia sulla panchina di un parco; in La La Land  gli innamorati si alzano in volo e danzano fra la Luna e le stelle; in First Man, in un breve e isolato momento di distensione, Armstrong e sua moglie danzano sulle note di Lunar Rhapsody di Les Baxter, una musica per voci e orchestra in cui l’uso del theremin aggiunge pertinenti toni da atmosfere extraterrestri. Nel suo viaggio verso la Luna Armstrong riascolta la stessa melodia e il suo sguardo si adombra al pensiero della moglie lasciata in trepida attesa e dei  due figli caricati dal peso del suo possibile non ritorno. 

         Lo sbarco sulla Luna è riproposto come lo videro in televisione milioni di esterrefatti spettatori in tutto il mondo: la lenta discesa dalla scaletta del LEM, l’impronta lasciata dal primo passo, la frase memorabile. Nel film di Chazelle, tuttavia, attraverso lo sguardo del suo protagonista, il paesaggio lunare appare più che mai in tutta la sua desolante solitudine: distese di sabbia grigia, rocce mai levigate dal vento, crateri mai sfiorati dall’acqua. I colori sono solo quelli della bandiera americana e del meraviglioso blu striato di bianco della terra, una bolla di luce, che si scorge in lontananza nell’oscurità. Armstrong si guarda intorno come a cercare una spiegazione nel silenzio che lo circonda e in quel vuoto che si riflette sulla curvatura del casco come in uno schermo. Nella mano ha il braccialetto della figlia morta e lo lascia cadere nella perduta illusione di ritrovarla su quel corpo celeste senza vita.

         Il  film si conclude prendendo nettamente le distanze dai finali trionfalistici di altri film, come The Right Stuff o Apollo 13, imperniati su quella che fu l’epoca d’oro della corsa allo spazio. Armstrong, in quarantena, incontra la moglie. Un vetro li separa. Attoniti, si guardano senza parlare come se fossero consapevoli che qualcosa di più grande di loro, di stupefacente è accaduto, ma non abbastanza da dare un senso alla morte della loro piccola, non abbastanza da dare all’uomo il senso ultimo del suo esistere. (Eliana Elia)

 

 


SegnoFilm n. 212

L'isola dei cani
(Isle of Dogs)

Regìa: Wes Anderson Orig.: U.S.A./Germania, 2018

Sogg.: Wes Anderson, Roman Coppola, Jason Schwartzman, Kunichi Nomura. Scenegg.: Wes Anderson. Fotogr.: Tristan Oliver. Musica: Alexandre Desplat. Mont.: Andrew Weisblum, Ralph Foster, Edward Bursch. Scenogr.: Paul Harrod, Adam Stockhausen. Suono: Wayne Lemmer. Eff. Spec.: Mackinnon & Saunders. Interpr.: Personaggi in animazione digitale. Prod.: Wes Anderson, Scott Rudin, Steven Rales e Jeremy Dawson, per Fox Searchlight Pictures/Indian Paintbrush pres./American Empirical Pictures/Studio Babelsberg Film. Distr.: Twentieth Century Fox Italy. Durata: 101 min.

Il secondo lungometraggio d’animazione di Wes Anderson è ambientato in un Giappone futuristico, dove gli umani hanno discriminato la razza canina fino a bandirla su un’isola-spazzatura. Lì atterra il dodicenne Atari, figlio adottivo del famigerato sindaco Kobayashi, alla ricerca del suo amatissimo cane Spots. Inizia in questo modo un’avventura in compagnia di altri cani, Chief, Boss, Duke, tutti in lotta contro i programmi di sterminio della colonia canina, tra peripezie e sorprese.

L'isola dei cani 

         Nell’inquadratura di apertura di Isle of Dogs c’è un dettaglio emblematico che compendia quell’estetica dell’impura simmetria delle cose su cui Wes Anderson ha costruito il suo cinema: nei suoi universi immaginifici e variopinti, esplorati con uno stile geometrico ormai identitario, s'insinua sovente una nascosta traccia d'imperfezione, che scompone la sua meticolosa messinscena stralunata. Può essere la voglia sul volto di Agatha in Grand Budapest Hotel o, appunto, una fila irregolare di maneki neko (“gatti della fortuna”) in Isle of Dogs. A essere difettosi però sono soprattutto gli esseri viventi, dai cani con eterocromia al giovane Atari Kobayashi con l’occhio nero. È il germe della malattia e della morte, della contaminazione e della crudeltà che in quest’ultimo lavoro invade lo schermo: per una volta Anderson non infonde nello spettatore il desiderio malinconico di entrare nelle sue creazioni trasognate, bislacche, multiformi e calibrate.

         Il regista disegna un futuro distopico imprecisato (l’azione si svolge “tra vent’anni”) che si accorda a qualsiasi presente perché la discriminazione razziale è onnipresente nella Storia e, secondo l’autore, sempre lo sarà. Qui le vittime sono i cani disprezzati e declassati da una generazione umana degenerata, autoritaria, monolitica e gattofila, che vede nel sindaco di Megasaki, Kobayashi, il suo leader dittatoriale indiscusso. L’influenza e il tartufo febbrile, che contagiano la razza canina e che inducono Kobayashi a provvedimenti estremi di emarginazione dei quadrupedi sull’isola della spazzatura, ampliano il messaggio politico che Wes Anderson in modo programmatico ma diretto intende proclamare: il razzismo odierno o passato è espressione di un’ideologia nazista. Sebbene il cineasta texano non sia a digiuno di contenuti di denuncia sociale, come denota la caccia all’immigrato in Grand Budapest Hotel, qui il discorso politico, opportunamente predicatorio, diventa il cardine portante di un film greve ma non privo di tocchi di ironia e compassione.

         Tonalità opprimenti e tristi (improntate sul marrone, sul giallo e sul grigio) irrompono nelle sequenze ambientate sull’isola dei cani (una discarica di tonnellate di rifiuti già di per sé loquace sulla natura degli umani), ma anche la fantomatica città di Megasaki non eredita nulla dei piacevolissimi scenari precedenti del regista, tanto che alcune inquadrature paiono rievocare Blade Runner. In questo microcosmo nipponico s'innesta la tradizionale avventura andersoniana di fuga e risalita, meno tesa al divertissement o alla partecipazione simpatetica dello spettatore, in cui però emerge quell’umanità poetica dei personaggi ricorrente nella sua filmografia. Allo stesso modo, non si rinuncia alla cura per i particolari e i dettagli che, seppur sottratti alla consueta e tenue allegria, rivelano un’attenzione maniacale e artigianale per il profilmico assai rara tra i cineasti contemporanei. Anderson, inoltre, torna allo stop motion dopo l’esperienza con Fantastic Mr. Fox, solo che qui gli animali antropomorfi hanno fattezze e movenze più ruvide e meccaniche, ma anche più plastiche, come se il nume tutelare fosse il genio surreale di Jan Svankmajer (a cui Wes deve il senso della meraviglia per il dettaglio).

         L’ambientazione ha chiamato in causa anche altre influenze filmiche, tra le quali si annoverano i maestri omaggiati da Anderson, come Kurosawa (I sette samurai in particolare ha ispirato le sequenze di scontro) e Ozu, con cui il regista texano condivide innanzitutto la predisposizione per la collocazione frontale della cinepresa nelle scene di conversazione. Ma dall’estremo Occidente si affaccia anche Orson Welles, a cui guarda Isle of Dogs nella caratterizzazione del sindaco Kobayashi, che oltre a condividere il nome con l’omonimo grande regista, vive sentimenti contraddittori che si manifesteranno solo nel finale, dove la tirannia si scioglierà in inediti gesti di magnanimità. In questo modo, durante la propaganda anticanina, la contrapposizione tra le gigantografie e le sue ridotte dimensioni reali vuole citare l’ambiguità del magnate Kane/Welles nelle scene del comizio elettorale di Quarto potere. Anche lo sfruttamento della profondità di campo, mai così marcata nei lavori precedenti di Anderson, rivela un’ascendenza wellesiana che s'integra con le suggestioni più lontane, dal teatro a Miyazaki, dai manga agli anime.

         Da qui derivano i luoghi comuni dell’immaginario nipponico a cui un regista statunitense, seppur europeo per adozione e trapiantato da vero dandy a Parigi, non può rinunciare, inciampando nelle critiche di chi lo accusa di aver stravolto tradizioni e costumi autoctoni nel nome di un’ottica troppo americanizzata. Il film, però, non aspira ad assumere una cittadinanza giapponese e l’interesse di trasferire l’azione in Oriente pare dovuta alla necessità di dar voce a una poetica così visiva da diventare iconografica come quella di Anderson che, dopo essersi ancorato all’esotismo della letteratura mitteleuropea in Grand Budapest Hotel, non poteva che attingere dall’estetica giapponese dal sicuro fascino e dai tratti identitari globalizzati.

         Anche la strategia di far esprimere i cani in lingua inglese e gli umani in giapponese (non sempre tradotto) risponde, più che a una ovvia facilitazione per la distribuzione del film, a un’accentuazione dell’incomunicabilità tra i due mondi, che in realtà solo un personaggio americano tenta di conciliare: Tracy, la pasionaria studentessa che sposa la causa canina e che, con la sua bionda chioma ricciuta e tondeggiante citante quella di Angela Davis, allude alle lotte per i diritti civili degli afroamericani, la cui discriminazione è intercambiabile con quella dei piccoli protagonisti. In questa eterogenea armata di dogs e amici cinofili, a cui presta la voce un cast stellare, Tracy è il personaggio più interessante, a cui spetta una menzione particolare, anche come allegoria del cinema indipendente (sia perché doppiata da Greta Gerwig sia perché il suo luogo d’origine, Cincinnati, vuole forse omaggiare l’universo in stop motion di Anomalisa di Charlie Kaufman, ambientato nella medesima città). Quando la sua green card viene revocata da Kobayashi come pena per la sua militanza, costringendola a ritornare a casa, il riferimento alla politica interna di Trump è evidente.

         Note di speranza chiudono questa fiaba apocalittica sull’alterità e sul senso esistenziale dell’esilio, sul sodalizio vincente degli affetti, meno svagata e più intristita e disincantata di quelle precedenti, con cui il regista si reinventa grazie a uno stile estroso e poliedrico. Al di là degli scenari positivi, però, Isle of Dogs insegna anche a non abbassare la guardia, poiché nessuna conquista politica è mai definitiva; “non so se sia il caso di far nascere dei figli in questo mondo”, afferma infatti la cagnetta femminista Nutmeg. (Martina Volpato)

 

 


SegnoFilm n. 211

La casa sul mare
(La villa)

Regìa: Robert Guédiguian Orig.: Francia, 2017

Sogg. e Scenegg.: Robert Guédiguian, Serge Valletti. Fotogr.: Pierre Milon. Mont.: Bernard Sasia. Scenogr.: Michel Vandestien. Costumi: Anne-Marie Giacalone. Suono: Armelle Mahé. Interpr.: Ariane Ascaride (Angèle), Jean-Pierre Darroussin (Joseph), Gérard Meylan (Armand), Jacques Boudet (Martin), Anaïs Demoustier (Bérangère), Robinson Stévenin (Benjamin), Yann Tregouët (Yvan), Geneviève Mnich (Suzanne), Fred Ulysse (Maurice). Prod.: Robert Guédiguian e Marc Bordure, per AGAT Films & Cie/France 3 Cinéma. Distr.: Parthénos. Durata: 107 min.

Giunge a Méjean, in una villa sul mare, Angèle, un’attrice affermata. Venti anni prima sua figlia era annegata e da allora non vi aveva fatto più ritorno. Il padre, da lei ritenuto responsabile di quella morte, ha avuto un ictus e non è più in grado di intendere e di volere. Deve decidere cosa fare della villa insieme al fratello Joseph - un depresso professore, ex sindacalista in pensione, giunto anche lui per l’occasione - e al fratello Armand che invece è sempre rimasto a Méjean. Il passato pesa come un macigno, ma l’amore di un giovane pescatore e il desiderio di prendersi cura di tre piccoli profughi aprono un varco al suo dolore.

La casa sul mare

“Ci è difficile distogliere l’animo / Dai nostri grandi dolori. /

Vedi, i figli, Signore, ci sono necessari”

(Victor Hugo, À Villequier).

       

         È la voce del mare, percepibile sullo schermo nero mentre scorrono i titoli di testa, a precedere l’inizio del flusso delle immagini del nuovo film di Robert Guédiguian. All’udibile si aggiunge poi il visibile e il mare appare in tutto il suo incanto: l’azzurro del Mediterraneo striato dai riverberi di luce, il frangersi delle onde sugli scogli, lo stridere dei gabbiani, il molo con le sue barche colorate, la brezza che muove i capelli del vecchio padre seduto sulla terrazza. La narrazione si snoda attraverso fitti dialoghi che alternano i toni tragici a quelli burleschi per cedere nella parte finale a frasi edulcorate. Il mare resta sempre sullo sfondo, visibile anche nelle scene d’interni dalle finestre o riflesso su di esse; s’impone invece alla visione quando i campi lunghi creano vere e proprie cesure narrative e lo sguardo dei personaggi si rivolge verso il mare e si fa ora estatico nel contemplare la maestosità della sua bellezza, ora interrogante nel ricercare una possibilità di sentirsi partecipe di una verità e di una pienezza dell’essere che il mare sembra racchiudere.

         Il mare come metafora della vita offre i suoi frutti - i pesci che il giovane pescatore raccoglie con le reti, il polpo che si aggrappa sul piede di Angèle - o arreca dolore inghiottendo la piccola figlia di Angèle nella silenziosa drammaticità di una scena al ralenti. Guédiguian, portavoce di storie di oppressi, autore della saga degli operai del quartiere de L’Estaque di Marsiglia, racconta il dolore che non ha confini di classe. Ariane Ascaride, che ha la bellezza della non bellezza lontana da ogni divismo stereotipato o ritoccato, se ne fa accorata interprete. Sin dall’apparire sul molo, il suo volto è segnato da un’ombra di cui la narrazione svela a poco a poco la causa: i suoi occhi si posano su un triciclo e s'incupiscono; alla notizia di aver ricevuto dal padre un’eredità maggiore rispetto a quella dei fratelli si adira scambiandola per un tentativo di comprare il suo perdono; solo quando entra nella stanza della figlia ricolma di peluche e di giochi d'infanzia, lo spettatore è messo a parte della tragedia; un successivo flashback ne rivela la fatalità senza colpe.

         La villa è anche un esplicito omaggio al teatro la cui fascinazione è descritta in modo pregnante nei versi di L’Échange di Claudel[1] declamati da Angèle con il pescatore che da questa fascinazione si è lasciato travolgere anni prima quando ha visto Angèle nel ruolo di Shen-Te in L’anima buona del Sezuan; da allora il giovane legge e impara a memoria le pièce che con un gruppo di attori amatoriali mette in scena per i bambini. Il volto giovane di Angèle nei panni della cinesina del Sezuan compare su di un manifesto che, insieme ad altri, adorna le pareti della casa del pescatore dove la donna, dopo una corte insistente che ha il sapore e la dolcezza di una fiaba, si reca per fare l’amore; gli chiede solo che vengano spente tutte le luci. L’occhio della m.d.p., che in Marie-Jo et ses deux amours (2001) si era soffermato sulla nudità del corpo giovane e fresco dell’attrice, si fa ora discreto e pudico. Guédiguian, lavorando da sempre con gli stessi attori -  una continuità presente nella storia del cinema forse solo con John Ford e la sua Stock Company - può evidenziare i segni lasciati dal tempo. Ne La villa il regista inserisce una sequenza di un suo film del 1985, Ki lo sa?, in cui sono presenti, oltre alla Ascaride, anche Jean-Pierre Darroussin e Gérard Meylan più giovani di trentadue anni.

         È l’età matura che ricorda la giovinezza, è il cinema di oggi che ricorda il cinema di ieri. Non si tratta tuttavia di un’operazione nostalgica quanto di capire cosa è rimasto del passato in un presente ormai cambiato e che si arricchisce di senso anche in nome e con la forza dei legami giovanili. Il quesito non riguarda solo i corpi, ma anche i luoghi che, come gli attori, non a caso sono sempre gli stessi. Méjean è solo a pochi chilometri di distanza da Marsiglia ed è un microcosmo nel quale leggere i cambiamenti apportati dalla modernità; il suo passato è evocato da vecchie fotografie, da una sequenza-ricordo che vede un’intera comunità festeggiare il Natale attorno a un grande abete addobbato sul molo. La villa con la grande terrazza che si affaccia sul mare era stata costruita con l’aiuto di tutti perché allora erano vivi il calore umano e la solidarietà fra la gente. Chiara è l’allusione alla classe operaia, al sentimento di appartenenza a un gruppo, lo stesso che sostanzia il cinema di Guédiguian.

         Una coppia di anziani vicini non può permettersi di pagare l’affitto esoso che i figli del proprietario chiedono, dopo la morte del padre e contro le sue disposizioni, per indurli a lasciare la casa che, come già accaduto per le altre, deve essere in maniera più redditizia venduta o data in affitto ai turisti per l’estate. I due vecchi, pur potendo contare sull’aiuto del figlio, un uomo d’affari che vive altrove, preferiscono darsi la morte: il gesto è estremo e altamente simbolico in quanto, se da un lato realizza il loro desiderio di morire insieme (novelli Filemone e Bauci vengono trovati sul letto come addormentati mano nella mano, ricordando anche i teneri vecchi suicidi in Veronika Voss di Fassbinder), dall’altro esprime il rifiuto netto nei confronti di una società ormai omologata alle leggi dominanti del monopolio capitalista, nonostante i figli ne facciano parte integrante; un rifiuto emblematizzato anche dall’immobilità fisica e cerebrale alla quale è ridotto il padre dei tre figli.

         L’atteggiamento iniziale di Joseph, ossessionato da un’obsoleta coscienza di classe, barricato nella nostalgia di un’utopia perduta, è altrettanto sterile. Il cinema di Guédiguian addita la possibilità di nuovi fronti di lotta: in À la place du coeur (1998) i disperati di Marsiglia sono uniti a quelli di Sarajevo. In Les neiges du Kilimandjaro (2011) i protagonisti accolgono l’urgenza di occuparsi dei piccoli fratelli dell’uomo che per necessità li ha derubati finendo in carcere; all’inizio di questo film un emblematico mappamondo galleggia e arriva al porto di Marsiglia come a voler prefigurare l’arrivo dal mare dei migranti che si concretizza in La villa e che si pone come la nuova urgenza con cui confrontarsi. Nell’accudimento dei tre bambini orfani, affamati, infreddoliti, impauriti, incapaci di parlare Angèle ritrova una maternità perduta, Armand un motivo in più per continuare a prendersi cura del luogo natìo, Joseph la possibilità di costruire con i vecchi valori nuove utopie.

         Sul viadotto che sovrasta l’abitato i treni sferragliano suggerendo, come un refrain, un altrove o forse una via di fuga. I tre fratelli decidono di restare e nel finale del film, sotto il viadotto, gridano i loro nomi. L’eco ne moltiplica le voci e, come un’energia che si espande, contagia i piccoli profughi che escono dal mutismo per pronunciare i loro nomi; persino il vecchio, seduto sulla terrazza, volge il capo verso quelle voci come risvegliato dal lungo torpore. La sequenza citata in La villa tratta da Ki lo sa? - i ragazzi, sulle note della canzone “I want you” di Bob Dylan scorrazzano in macchina per poi tuffarsi nel mare - è l’unico vero momento felice di quel film che si conclude con un tetro sonno di morte. La villa ha un ben altro finale. “L’anima non sa dare più un grido” scrive Montale in La casa sul mare. Gridano invece i protagonisti e le voci riempiono il vuoto di ciò che si è perduto e si aprono al domani. (Eliana Elia)

 

 

[1] “Sa lei cosa è il teatro? / C’è la scena e la platea / Quando chiudono i negozi, / la gente ci viene la sera, / si siede per ordine, L’uno dietro all’altra e guarda, / E poi si alza il sipario / e succede qualcosa sulla scena / come se fosse vero. / Io guardo quella gente / e la sala è tutta una carne viva e vestita / Aderiscono alle pareti /come mosche fino al soffitto / E io vedo queste centinaia di visi bianchi. /L’uomo si annoia / e l’ignoranza gli si attacca / fin dalla nascita / E non sa nulla di come si comincia e si finisce / per questo egli va a teatro / e là guarda se stesso / le mani posate sui ginocchi / E piange e ride / e non ha nessuna voglia di andar via”.

 

 


SegnoFilm n. 210

Il filo nascosto
(Phantom Thread)

Regìa: Paul Thomas Anderson Orig.: U.S.A., 2017

Sogg. e Scenegg.: Paul Thomas Anderson. Fotogr.: Paul Thomas Anderson. Musica: Jonny Greenwood. Mont.: Dylan Tichenor. Scenogr.: Mark Tildesley. Costumi: Mark Bridges. Suono: Christopher Scarabosio. Eff. Vis.: Digital District. Interpr.: Daniel Day-Lewis (Reynolds Woodcock), Vicky Krieps (Alma), Lesley Manville (Cyril), Camilla Rutherford (Johanna), Gina McKee (contessa Henrietta Harding), Brian Gleeson (dr. Robert Hardy), Harriet Sansom Harris (Barbara Rose), Lujza Richter (Principessa Mona Braganza), Julia Davis (Lady Baltimore). Prod.: Joanna Sellar, Paul Thomas Anderson, Megan Elison e Daniel Lupi, per Annapurna/Perfect World Pictures/Joanne Sellar-Ghoulardi Film Company. Distr.: Universal Pictures. Durata: 130 min.

Reynolds Woodcock è il proprietario di un’affermata casa di moda nella Londra degli anni ’50. In viaggio lontano dalla capitale, s'innamora di una giovane cameriera, Alma, che diventa sua amante e modella. Il loro rapporto dovrà però trovare un difficile equilibrio, soddisfacendo le esigenze di entrambi e superando le reciproche incomprensioni. Serviranno all’uopo funghi velenosi e una nuova apertura al mutuo bisogno dell’altro.

Il filo nascosto

         “Una delle linee guida del mio discorso ritiene che Paul Thomas Anderson si ostini a 'tenere per sé' la storia della madre, quella storia che invece 'potrebbe raccontare', immaginando forse di doverla 'affidare' a un film successivo; la storia tuttavia continua il proprio lavorio con una forza sotterranea, fantasmatica, attraverso le narrazioni che dedica ai padri (siano essi veri o surrogati); e anzi essa sostiene il peso del loro mistero - una forza razionalizzante agita su un senso formidabilmente illogico”. Così George Toles in una monografia su Anderson, apparsa nel 2016 nella bella serie promossa dall’University of Illinois Press, la quale in tempi recenti ha edito focus specifici sul panorama statunitense, concentrandosi su Todd Haynes, Philip Kaufman e Richard Linklater.

         Siamo di fronte a un bilancio e, al tempo stesso, a una “profezia”. Il volume, il cui capitolo di chiusura si ferma a The Master, stringe infatti il cerchio sull’isolamento ‘virile’ che ne ha contraddistinto la produzione (si pensi all’androceo silenzioso del Petroliere); nel contempo immagina degli sviluppi necessari per tale coerente uniformità ‘di genere’, anticipando un’immancabile manifestazione ‘spettrale’ del complesso edipico, dell’involuto legame col ‘materno’ sottesi a dinamiche di tal fatta. Nel far questo Toles rivolge al futuro osservazioni coltivate con frequenza dalla letteratura attenta al regista; ed è allora difficile credere che una firma tanto preoccupata del proprio statuto autoriale - dagli esordi con il noir Hard Eight e dalla precoce battaglia coi produttori di allora in merito al final cut - non abbia progettato la nuova tappa del suo percorso creativo in un ideale, proficuo dialogo con meditazioni analoghe.

         Del resto la sua ultima pellicola risale al 2014. Da allora, nel rispetto della tempistica dilatata che ha scandito la sua attività da venti anni in qua, il regista ha potuto meditare sull’opera ulteriore, destinata a presentarsi - dopo la ‘trilogia americana’ inaugurata con There Will be Blood - nella forma inattesa di un riepilogo e di una ripartenza. Phantom Thread è infatti (e innanzitutto) un film di Anderson. Lo è nel processo creativo: lo spunto viene dalla vita con Maya Rudolph, la scintilla a dar l’avvio a una scrittura originale in cui si riflettono diversi aspetti del suo profilo pubblico, costruito di lungometraggio in lungometraggio, di intervista in intervista. Lo è nella famiglia convocata sul set, da Johnny Greenwood a Mark Bridges, ma innanzitutto per la scelta di Daniel Day-Lewis, alter ego attoriale di Anderson e delle sue aspirazioni, indicato frequentemente come responsabile di varianti in sceneggiatura nelle pellicole girate in collaborazione.

         Lo è anche nella preferenza per il period piece e per la sua architettura: da sempre refrattario al contemporaneo (salvo nel debutto con Philip Baker Hall o nella favola di Punch-Drunk Love), il suo sguardo ricompone una storia ‘stilizzata’ nell’imbastire un ennesimo esercizio sulla nostalgia postmoderna del passato. Non meno lo è nei temi: il ricorrere della figura retorica dell’antitesi, incarnata dai protagonisti in equilibrio fra dominio e soggezione, nel cui rispecchiamento è difficile districare motivazioni e scopi dei singoli protagonisti; la presenza del vincolo familiare, descritto in termini di fratellanza e sorellanza e nel contesto di un’attività redditizia, in grado di sovrapporre alle ragione dell’affetto quelle dell’interesse economico; la traiettoria di una personalità in via di definizione, stretta fra aneliti di indipendenza e ricerca di una norma, di un principio regolatore capace di garantirle una silhouette definita, la stabilità sociale (è Alma a riconoscere, all’inizio della confessione che cadenza il racconto, come l’azione di Woodcock sul suo corpo, sulle sue predilezioni, le avesse innanzitutto consentito di vedersi “bella”, forse per la prima volta).

         L’aspro attrito fra le idiosincrasie del couturier e l’inavvertita spontaneità della compagna, la rabbia contenuta di fronte alle infrazioni di un codice di comportamento si struttura poi secondo uno schema chiasmico nei confronti dello script interpretato da Adam Sandler, nel film in sala nel 2002: come se, nel ritorno consapevole a un’ “opera da camera” (dopo l’epica ambiziosa delle prove di questi anni), Anderson avesse voluto ripartire da uno dei suoi esiti meno fortunati (sia in termini di botteghino che di accoglienza critica), a rivendicarne la coerenza con la propria ispirazione, con una parabola da valutarsi su una sequenza cronologica dilatata. Rispetto a quel film, che offriva allo spettatore la comfort zone della romantic comedy per acclimatarsi fra le eccentricità di un copione ellittico e divagante, cambiano per Phantom Thread i modelli formali e, di conseguenza, il rinvio siglato a un genere di riferimento.

         Se fin qui infatti ci si era abituati a una familiarità con l’opera di Kubrick e Altman (passando per una meno prevedibile passione bergmaniana), stavolta le atmosfere del film si presentano come un omaggio ad Alfred Hitchcock e alla tensione psicologica dei più sottili duetti del maestro. Non a caso, in una conversazione apparsa su “Rolling Stones” nel dicembre scorso, si rintraccia un elogio fanatico di Rebecca e del personaggio di Joan Fontaine; mentre, se il gotico verticalismo della ghost story girata nel 1940 si duplica nella vertigine borghese della casa-atelier di Woodcock, persino il motivo dell’avvelenamento potrebbe evidenziare un debito contratto con Daphne Du Maurier (My Cousin Rachel), autrice cara al padre de Gli uccelli.

         In tale rete di rimandi, s'incastona con naturalezza l’apparizione macabra della madre del sarto al suo capezzale di degente, origine della ‘maledizione’ che ne segna il destino di indomito bisbetico; ancora di più è nell’assunzione di una siffatta genealogia cinematografica che il femminino si trova a rivestire un ruolo inedito per l’universo andersoniano. Nel perfetto accavallarsi fra la scomparsa della genitrice e l’ingresso in camera di Vicky Krieps si descrive infatti il ganglo piscologico di ogni vicenda amorosa, osservata da un punto di vista maschile; e però nell’impossibile bilanciamento del rapporto di coppia attorno a una fragilità assunta con consapevolezza, profondamente vulnerabile è la figura di Alma (nomen omen) a veicolare il fait divers in direzione di un happy end umoroso ma non meno idillico, durevole in fondo - nel prevedibile alternarsi di ‘fasi’ regolari - rispetto al fragile contratto su cui si chiudeva lo psicotico affaire sentimentale di Punch-Drunk Love. (Tommaso Mozzati)

 

 


SegnoFilm n. 209

La ruota delle meraviglie
(Wonder Wheel)

Regìa: Woody Allen Orig.: U.S.S., 2017

Sogg. e Scenegg.: Woody Allen. Fotogr.: Vittorio Storaro. Musica: motivi vari. Mont.: Alisa Lepselter. Scenogr.: Santo Loquasto. Costumi: Suzy Benzinger. Suono: Robert Hein. Eff. Vis.: Brainstorm Digital. Interpr.: Kate Winslet (Ginny), Justin Timberlake (Mickey), Juno Temple (Carolina), Jim Belushi (Humpty), Max Casella Ryan), Jack Gore (Richie), David Krumholtz (Jake). Prod.: Letty Aronsonm Erika Aronson, Edward Walson e Helen Robin, per Amazon Studios/Gravier Prods./Perdido Production. Distr.: Lucky Red. Durata: 101 min.

Coney Island, anni Cinquanta. Ginny fa la cameriera in un ristorante di pesce e, attaccandosi alla bottiglia e ai ricordi di un passato di promettente attrice, conduce un’esistenza infelice con Humpty, un rozzo marito che non ama, e con un figlio piromane avuto da una sua precedente relazione. A ridarle la speranza di una vita più appagante è Mickey, un bagnino che studia drammaturgia, di cui diventa l’amante. L’arrivo di Carolina, figlia di Humpty, manda a monte le sue illusioni perché della giovane donna, braccata dagli scagnozzi del marito gangster da cui è fuggita, s'innamora Mickey. Ginny, in preda alla gelosia, lascia che Carolina venga trovata e fatta sparire. Smascherata da Mickey, a Ginny non resta che ubriacasi e ritornare alla sua vita infelice.

La ruota delle meraviglie

                “Bisogna essere sempre ubriachi... per non sentire l’orribile peso
del Tempo che vi rompe le spalle e vi piega a terra,
dovete ubriacarvi senza posa. Ma di che?
Di vino, di poesia o di virtù: come vi pare, ma ubriacatevi”
(Baudelaire, cit. in Eugene O’Neill,
Long Day’s Journey Into Night, Atto Quarto). 

         La nervatura tragica che attraversa la filmografia di Woody Allen, stemperata dalla sua prorompente vis comica, continua a esacerbarsi in Wonder Wheel. Lo sfaldamento dell’io del personaggio - che in film come Deconstructing Harry era alleggerito da trovate esilaranti (l’essere e l’apparire fuori fuoco) - viene qui proposto senza infingimenti, come in Blue Jasmine; e se nel finale il protagonista di Deconstructing Harry si avvia verso una sorta di ricomposizione, sia Jasmine che Ginny - l’una seduta a farneticare su una panchina, l’altra con lo sguardo fisso nel vuoto - restano inghiottite da una solitudine senza rimedio. Ginny, ubriaca, disfatta dal senso di colpa e dal fallimento dei suoi sogni, ha la sostanza di uno dei tanti derelitti che popolano il teatro di Eugene O’Neill. Espliciti sono nel film i riferimenti al grande drammaturgo: Mickey regala a Ginny un libro delle sue opere e la donna ricorda di aver interpretato una delle prostitute di The Iceman Cometh, una storia di tradimento e rimorso popolata di personaggi che, pur anelando a più alti ideali, s'impantanano nello squallore di relazioni sbagliate, nell’alcolismo, nella rabbia covata o lasciata esplodere.

         Il tema della confusione fra Arte (teatro/cinema) e Vita si sviluppa all’inizio del film secondo cliché sui quali lo stesso regista sembra ironizzare in una sorta di autoparodia. Mickey è l’aspirante drammaturgo: sogna di scrivere il capolavoro destinato ai posteri, si compiace di vivere al Greenwich Village, esibisce le sue letture su psicanalisi e letteratura (come l’Amleto e Edipo di Ernest Jones); attratto dalle persone nella misura in cui la loro vita può offrire uno spunto drammatico ai suoi scritti, passa dall’interesse per la vulnerabilità di Ginny a quello per la vita avventurosa, anche se malfamata, di Carolina. Interpellando direttamente lo spettatore, introduce se stesso, il setting di Coney Island (una lunga carrellata sulle masse di bagnanti) e Carolina, il primo personaggio a entrare in scena. Più volte il suo sguardo in macchina ricompare a impaginare la storia, ma scompare man mano che la tragedia prende corpo, senza sancirne la fine.

         È Genny a incarnare la confusione fra Arte e Vita. La donna nella realtà è una cameriera, ma afferma di recitare quella parte perché nel profondo sente di essere altro. Spazzolandosi i capelli dinanzi allo specchio, prova le battute che dirà al suo futuro amante e che non sono tratte da una pièce, ma dalle sue riflessioni sulla giovinezza perduta e sull’idea di lasciarsi annegare per poi essere salvata. Quando la realtà è insopportabile, s'immerge nei ricordi del passato, ai quali si appiglia come a punti cari, isolati nella traiettoria del tempo, indossando gioielli posticci e vecchi abiti di scena. Nel finale del film, con un lungo vestito bianco, una rosa fra i capelli, la sigaretta in mano, recita ubriaca davanti a Michey la parte della donna matura, disposta a perdonare il giovane amante; una volta smascherata, sentendosi come un personaggio di una tragedia greca, con un coltello nella mano, invita l’uomo a ucciderla e a vendicare Carolina. Il ritorno del marito pone fine alla messa in scena del suo dolore e la riporta alla cruda realtà: deve lavare l’uniforme da cameriera e preparare il pranzo per il figlio.

         Gli aspetti drammaturgici del film sono espressi anche mediante la ricercata e affascinante fotografia di Vittorio Storaro, che sfrutta al meglio le tecnologie dell’High Dinamic Range per creare immagini dai colori saturi e dai forti contrasti di luce: l’arancio caldo del tramonto avvolge la figura di Genny e contrasta con il freddo blu dell’alba che illumina la giovane Carolina. Il gioco di colori sembra realisticamente entrare dalle finestre che guardano sulla Wonder Wheel, riflettendone i cangianti riverberi delle luci al neon. Se negli spazi interni i contrasti di luce esprimono i conflitti, l’intensità drammatica delle emozioni, in quelli esterni - nelle immagini di Coney Island - è, all’opposto, messa in scena la vivacità superficiale della vita. Il fantasmagorico mondo del Luna Park non diventa in Wonder Wheel un luogo disturbante, una metafora allucinatoria al limite del reale, come in Strangers on a Train di Hitchcock o nella scena finale di Some Came Running di Minnelli.

         Coney Island, se da un lato rimanda alle atmosfere anni Cinquanta di Radio Days, dall’altro se ne allontana in quanto i nostalgici toni da vecchia fotografia ingiallita realizzati da Carlo Di Palma sono sostituiti da colori netti, smaglianti scelti da Storaro per definire un mondo edulcorato, superficialmente scanzonato - come in certe illustrazioni di Norman Rockwell - dove gruppi di famiglie camminano spensierate, i bambini mangiano lo zucchero filato fra luci, palloncini e suoni di giostre. La distanza dalle atmosfere di Radio Days è evidente anche nel diverso atteggiamento che i due piccoli protagonisti hanno nei confronti del cinema, visto dal bimbo di Radio Days come luogo dell’incanto (indimenticabile il suo estatico ingresso nel Radio City Music Hall) e dal figlio di Ginny come un rifugio dalle urla e dal malessere familiare. Anche la piromanìa, messa in atto da un impulso incontenibile, è un tentativo di compensare un intollerabile stato di angoscia.

         Un impulso induce sia Ginny ad abbandonare Carolina al suo destino di morte, sia Jasmine a denunciare il marito determinandone la rovina. Non si tratta di azioni ponderate, pianificate con cura - come in Crimes and Misdemeanors o in Match Point - ma di atti dettati da una tensione che si stabilisce nel momento in cui le due donne sono private della felicità dell’amore che per Ginny non si associa alla perdita di uno status sociale (come per Jasmine), ma alla perdita della possibilità di una piena realizzazione di sé. Questa tensione è un istinto di sopravvivenza incontrollabile, febbrile, animale, tanto da travolgere il senso morale; al contrario dei personaggi di Crimes and Misdemeanors e di Match Point che, impuniti, continuano a condurre le loro vite privilegiate, le azioni immorali di Jasmine e Ginny sono causa del loro tragico disfacimento.

         Solo alle musiche, deliziose canzoni popolari d’antan, è concesso alleggerire i toni; a cominciare da Coney Island Washboard dei Mill Brothers che apre, segue e chiude il film infondendo un mood d'ingenua felicità. I versi di Kiss of Fire di Georgia Gibbs che parlano di fuoco, scintille, fiamme brucianti quali metafore della passione amorosa accompagnano le immagini del piccolo piromane in azione. Red Roses for a Blue Lady, romantica canzone che vede nelle rose rosse l’espediente per porre fine a uno stupido litigio fra innamorati, introduce il terribile scontro finale fra Ginny - che ha una rosa rossa fra i capelli - e Mickey. Accostamenti visivo-sonori stridenti che alleviano la tensione, realizzati da un regista che, nonostante l’affollarsi degli anni, continua a “ubriacarsi” e a “ubriacarci” con un cinema “doc” dal godibile sapore. (Eliana Elia)

 

 


SegnoFilm n. 208

Blade Runner 2049
(Blade Runner 2049)

Regìa: Denis Villeneuve Orig.: U.S.A./U.K./Can., 2017

Sogg.: Hampton Fancher, basato sui personaggi del romanzo Do Androids Dream of Electric Sheep? di Philip K. Dick. Scenegg.: Hampton Fancher, Michael Green. Fotogr.: Roger A. Deakins. Musica: Benjamin Wallfisch, Hans Zimmer. Mont.: Joe Walker. Scenogr.: Dennis Gassner. Costumi: Renée April. Suono: Theo Green. Eff. Vis.: Double Negative, Framestore, MPC, Rodeo FX, Weta Workshop, Atomic Fiction. Interpr.: Ryan Gosling ("K"), Harrison Ford (Rick Deckard), Ana de Armas (Joi), Sylvia Hoeks (Luv), Robin Wright (ten. Joshi), Jared Leto (Niander Wallace), Mackenzie Davis (Mariette), Carla Juri (dr. Ana Stelline), Lennie James (Mister Cotton), Dave Bautista (Sapper Morton), Hiam Abbass (Freysa), Sewan Young (Rachel). Prod.: Andrew A. Kosove, Broderick Johnson, Bud Yorkin e Cynthia Sijes Yorkin, per Alcon Media Group/Columbia Pictures pres./Ridley Scott/Alcon Entert./Bud Yorkin prod. Distr.: Warner Bros. Italia. Durata: 164 min.

Los Angeles (il mondo) ha vissuto un blackout che ha azzerato dati e ricordi. I vecchi modelli di replicante della Tyrrel Corporation sono stati ritirati, e sostituiti da nuovi, più ubbidienti. K è uno di loro, lavora come cacciatore, e deve terminare il figlio di Rachel e Deckard. Che però forse è proprio lui. Va alla ricerca del presunto padre, ma si rende conto di essere solo una pedina. Nel frattempo è oggetto dei desideri della sua capa, dell’amore dell’ologramma Joi, della violenza dell’androide Luv e fa sesso con la prostituta Mariette. Forse alla fine muore. Intorno tutto è bellissimo.

Blade Runner 2049

        

         Cartello a nero (del pezzo): “La ragione per cui la fantascienza affascina così tanto gli autori intellettuali, oltre ai mestieranti di genere, è che si può fare i conti con la propria presunzione di essere lo sguardo di Dio, nascondendola dietro la funzione narrativa di seguire un uomo che vola (alto)”. (Chi sta pensando che vale anche per gli scriba ha ragione). Un fascino a cui hanno ceduto in molti, da Kubrick a Scott (oltre a Blade Runner e Alien, anche Black Hawk Down), da Tarkovskij a Nolan, e naturalmente Villeneuve: la panoramica dall’alto, una delle sue cifre stilistiche più riconoscibili (dalla missione a Juarez, parzialmente motivata dalla presenza dell’elicottero di controllo, in Sicario, all’auto-citazione degli ingorghi di Arrival), trova finalmente una collocazione narrativa. Blade Runner 2049 guarda spesso dall’alto in basso (i personaggi, le architetture, il passato, lo spettatore), tanto quanto Blade Runner alzava lo sguardo dal basso verso l’alto, a interrogare un cielo oscuro, il vertice di una piramide, un avversario terribile. O, per tornare alla più scontata delle citazioni, per vedere “cose che voi umani non potreste immaginarvi”.

         Impossibile eludere il confronto con l’originale: è vero, non è in alcun modo un film (soltanto) derivativo, e vive una sua assoluta autonomia (narrativa e stilistica), ma non si può negare la sua natura di film (prima di tutto) derivato. Esplicitamente sequel, perché le vicende seguono, cronologicamente e logicamente, quelle del film di Ridley Scott, parzialmente remake (molto viene rifatto, tra citazioni, omaggi e calchi), potenzialmente reboot, perché l’universo di base viene modificato, e apre a una nuova saga. L’antagonista principale è ancora vivo (Luv è affogata, ma Wallace gode di ottima salute), il vecchio protagonista sta per vivere un’agnizione (Deckard incontra la figlia), quello nuovo è spiaggiato sulle scale sotto la neve (ma è un replicante, può tornare come e quando vuole...) e c’è un nuovo Messia in città (Ana): abbastanza per tirarla ancora lunga quanto si vuole.

         È un’operazione squisitamente commerciale, e sarebbe bello se si potesse finalmente ammetterlo senza timore di sminuirne la portata, perché oltre alla politique des auteurs esiste anche il marketing strategico, e questo è un caso di sfruttamento (se ancora vi sembra troppo irrispettoso: rivitalizzazione...) del brand BR. Affidata a un “nuovo autore”, talentuoso e visionario, e dunque in grado di andare oltre il film replicante. E non soltanto perché riesce a realizzare un progetto/prodotto di grande interesse, ma soprattutto perché il presente cinematografico (2017 per noi, 2019 nel film di Scott), che proprio BR ha contribuito a creare, vive in modo radicalmente diverso i concetti di sequel, remake e replicanti: se nel 1982 il terreno (narrativo, concettuale, teorico) della creazione/ricreazione era quasi del tutto vergine, oggi la situazione è completamente contraria, il cinema contemporaneo (post-postmoderno) è strutturalmente fondato su meccanismi di riscrittura incrociata e intertestualità enciclopedica. E commerciale.

         Da qui il necessario recupero di Harrison Ford, da affiancare a Ryan Gosling, ma anche l’ammiccamento ai franchise di cinecomics Marvel (c’è davvero qualche altra ragione per avere Dave Bautista, oltre che per strizzare l’occhio al Drax dei Guardiani della Galassia?) e DC (Jared Leo/Joker, qui più tranquillo, ma non necessariamente più espressivo), la riesumazione digitale della salma di Rachel/Sean Young, e quella narrativa di Claire Underwood/Robin Wright (da dea ex machina di House of Cards a personaggio risibile in BD 2049). Anche la nuova forma di badanza scrittoria a cui viene sottoposto Hampton Fancher muove verso modelli più battuti: al posto di David Webb Peoples (un maestro della nobilitazione dei plot di genere), questa volta gli tocca Michael Green, uno che si è fatto le ossa con Smalville e Heroes, e una fama con Lanterna Verde, Logan, Alien: Covenant e ora American Gods.

         Analogo tutoraggio l’ha dovuto subire il suo compositore storico, Johann Johannsson, affiancato (e poi estromesso) dagli specialisti Benjamin Wallfisch e Hans Zimmer, per garantirsi continuità con il tema e le atmosfere di Vangelis. Non scontentare i vecchi fan (impresa quasi impossibile) e accontentare il pubblico più giovane (impresa impossibile, lo testimonia il box office): più che allo Psycho di Van Sant, o a Las Meninas di Picasso (su Velazquez), assomiglia alla riedizione del New Beetle Volkswagen o della DS Citroën, un modo di ripossedere (o sperimentare per la prima volta) qualcosa che non può più essere.

         Detto questo, dal punto di vista visivo e della costruzione delle immagini e del mondo, così come da quello della messa in scena, rimane un oggetto sicuramente affascinante. Soprattutto grazie al lavoro del direttore della fotografia Roger Deakins (dai Coen a Sicario). Non solo non è derivativo, ma è costruito su ottime intuizioni di dialogo con l’originale: al generale registro notturno e ctonio di BD oppone un’alternanza continua tra buio e luce (a cui aggiunge il “terzo tempo visivo” del viraggio artificiale nello spazio occupato da Deckard in esilio), tra giorno e notte, tra chiusura e spalancamento, non solo fisico, ma anche cromatico e illuministico. Manco a dirlo: tutte le riprese dall’alto sono sontuose, a tratti anche emozionanti. Ci si può far risucchiare da questo mondo e, ancora una volta, non c’è alcuna accezione negativa o snobistica: è esattamente quello che (mi) accade di fronte a un film di Nicolas Winding Refn o Christopher Nolan. Se accade, allora si fa una vera esperienza filmica, in cui  lo spettatore può continuare a camminare (sempre in orizzontale eh...) a fianco di K, e sentirsi cittadino di un worldbuilding strabiliante.

         Alcune scene sono magistrali: su tutte quella dello scontro nel night club dell’hotel, tra gli ologrammi balbettanti di Elvis e Marilyn. Il design degli interni raggiunge vette forse ancora più alte che nell’originale, soprattutto nell’appartamento di K e (sorprendentemente) in quello del replicante Sepper Morton, anche se si percepisce qualche scricchiolio con spazi che, al contrario, sono completamente anonimi (la centrale di polizia, sproporzionata tra presentazione sontuosa dall’esterno e la riduzione degli spazi interni e dei personaggi che la abitano), o stereotipati nella loro eccentricità (la magione di Wallace). Francamente la scena finale dello scontro tra K e Luv è brutta e sciatta, e tutta la parte nell’orfanatrofio vagamente posticcia. E qui cominciano a venir fuori le grane perché, se non ci si assorbe nell’afflato estatico e contemplativo ci si costringe a pensare alla trama, e alla sua tenuta.

         E germina una domanda ancora più oscura di quella sulla ragione della vita stessa dell’uomo e sulla differenza tra uomo e replicante: perché mai la trama (la solidità della struttura narrativa) dovrebbe essere secondaria, quasi un inutile orpello, un feticcio da specialista, all’interno di un film rivelatore come Blade Runner 2049? BR era un noir classico, quasi incidentalmente abitato da replicanti e astronavi, serratissimo nella trama, con una progressione verticale blindata: verso l’alto spaziale (il vertice della piramide della Tyrrel) e verso il climax degli scontri con gli antagonisti (Roy) e dei confronti emotivi (Rachel). BR finiva come Casablanca: al posto di una donna sposata ce n’era una che rischiava di avere una vita a termine. L’unica cosa che rimane del noir in BR 2049 è la sigaretta di K, per il resto si trasforma in una infinita progressione orizzontale, una lunghissima camminata silenziosa di Gosling, in cui tutti i moduli narrativi sono sequenziati. Con alcuni buchi davvero eclatanti: gli sgherri di Luv che non ammazzano K dopo aver portato via Deckard, Madame Joshi che lascia andare K senza alcun controllo dopo che questi gli ha raccontato una mezza palla sull’aver terminato l’androide figlio, la semplicità con cui K passa da iper-osservato a uccel di bosco.

         Riduciamo al minimo la perfidia dei confronti diretti: la scena dell’ingrandimento dell’immagine di BR, con i suoi comandi vocali “esalta” e “avanza”, valeva da sola come un saggio di teoria del cinema, e aveva la grandezza di Blow-Up, mentre la discesa nel dettaglio dei segni del cesareo di BR 2049 sembra presa da un episodio di CSI; là lo scontro finale era un affrontamento à la Bava tra il sé e l’alter ego, qua è una scazzottata subacquea; i personaggi femminili originali sono pochi ed efficaci, adesso la quota rosa si è estesa, ma con una polverizzazione della salienza quasi imbarazzante; lo stesso si potrebbe dire della caratura dei creatori-dei: Eldon Tyrrel (e Joe Turkel) era una personalità complessa e contorta, sospesa tra hybris megalomane e bisogno di un abbassamento umano (la lunga partita a scacchi con Sebastian, la solitudine notturna, il castello-prigione), Niander Wallace (e Jared Leto) è un mistico farneticante, compiaciuto delle proprie parole e dei propri gadget, (già ac)ciec(at)o, satrapo in una reggia con arredi di design.

         Rimangono due battute di dialogo fulminanti e rivelatrici. Quella in cui Deckard, alla domanda se anche il suo cane alcoolizzato sia un replicante, risponde semplicemente: “Chiedilo a lui...”. E la sentenza con cui la prostituta Mariette gela la trepidante Joi dopo averle prestato il corpo per la sovrapposizione amatoria con K: “sono stata dentro di te, e non sei niente di speciale...”. (Andrea Bellavita)

 

 


SegnoFilm n. 206

Sieranevada
(Sieranevada)

Regìa: Cristi Puiu Orig.: Roman./Fr./Bosnia, 2016

Sogg. e Scenegg.: Cristi Puiu. Fotogr.: Barbu Balasoiu. Mont.: Letitia Stefanescu, Ciprian Cimpoi, Iulia Muresan. Scenogr.: Cristina Barbu. Costumi: Maria Pitea, Doina Raducut. Suono: Jean-Paul Bernard, Filip Muresan, Christophe Vingtrinier. Interpr.: Mimi Branescu (Lary), Judith State (Sandra), Bogdan Dumitrache (Relu), Dana Dogaru (sig.ra Mirica), Sorin Medeleni (Tony), Ana Ciontea (zia Ofelia), Rolando Matsangos (Gabi), Catalina Moga (Laura), Marin Grigore (Sebi), Tatiana Iekel (zia Evelina), Marian Ralea (sig. Popescu), Ioana Craciunescu (sig.ra Popescu), Ilona Brezoianu (Cami), Simona Ghia (Simona), Valer Dellakeza (il prete), Andi Vasluianu (Mihaita), Mara Elena Andrei (Irina). Prod.: Anca Puiu, Mirsad Purivatra, Sabina Brankovic, Lucian Pintilie, Labina Mitevska, Zdenka Gold, Laurence Clerc e Olivier Thery Lapiney, per Produkcija 2006 Sarajevo/Studioul de Creatie Cinematogr./Sister & Brother Mitevski/Spiritus Movens/Alcatraz Films/Iadasarecasa/Arte France Cinéma. Distr.: Parthénos. Durata: 173 min.

È il 10 gennaio 2015, tre giorni dopo l'attacco terroristico avvenuto negli uffici del settimanale parigino "Charlie Hebdo" e quaranta giorni dopo la morte del padre del protagonista del film, Lary, un medico di quarant'anni che si prepara a trascorrere il sabato con la sua famiglia d'origine per commemorare, appunto, il capostipite defunto. Ma le cose non vanno secondo le previsioni e la ricorrenza diviene una pura e semplice circostanza per fare i conti col passato, privato e pubblico. Messo alle strette, Lary affronta le sue paure e le sue insicurezze, anche rispetto al ruolo che eredita in famiglia. E così si trova costretto a raccontare la sua versione della verità.

Sieranevada

         La strategia del ragno incombe in tutti i passaggi della Storia e mette sempre in atto piani per dichiarare scacco matto ai nostri scopi e ragioni, alle nostre storie. E tutto questo si compie di solito "nel mezzo del cammin di nostra vita". Sin dalle prime sequenze di Sieranevada, lo spettatore avverte a pieno la sensazione di trovarsi insieme alla macchina da presa, proprio lì come di passaggio a osservare e a rubare immagini e dialoghi passeggiando fra le trame invisibili di una città. Sembra non esserci stato affatto set e le sequenze scorrono come "senza guida", autorevoli grazie alla loro spontaneità e naturalezza data soprattutto dalla recitazione degli attori e dallo stile nouveau del regista che per questo film mette insieme numerosi e diversi punti di vista a confronto: il cinema nelle sue mani diventa così crocevia e sintesi possibile di soggettività in cerca di se stessi. Tra pensiero e azione, tra quello che stiamo facendo e quello che stiamo pensando c'è quasi sempre un incontro rimandato, un appuntamento dove uno dei due arriva in ritardo mentre l'altro è già andato via.

         E questo riguarda anche il dire, il comunicare, il parlarsi soprattutto fra due, anche in auto così come vediamo all'inizio di Sieranevada, tramite lo specchietto retrovisore interno dall'abitacolo che conduce i protagonisti Lary (Mimi Branescu) e Laura (Catalina Moga). Lary guida nel traffico di Bucarest, i suoi occhi si riflettono nello specchietto mentre Laura, lato passeggero, gli parla con veemenza quasi rimproverandolo. I due sono lì, ma anche altrove. Ciò che si dicono in fondo non interessa a nessuno dei due: è un modo per non dirsi altro, per rimandare ancora una volta il silenzio, la quiete, il solo guardarsi tra loro. Si parlano senza pause, senza tregua, riempiendo così il tempo e lo spazio che condividono. Questo è appena l'inizio dei 173 minuti di cinema che Cristi Puiu ci dona per poi mostrarci un Carnage non più a quattro, bensì esteso a un allargato Gruppo di famiglia in un interno.

         Dal chiuso di un'auto si passa alle limitate quadrature di un piccolo appartamento dove si affollano i membri del nucleo familiare di origine di Lary che si ritrovano per il pranzo commemorativo in occasione della morte di suo padre. Nelle strozzature dei passaggi tra le sedie e i mobili, tra il corridoio e le camere, in una cucina poco abitabile che sembra il "passare dal via!" (tipico del gioco da tavolo "Monopoli") dove ogni congiunto non fa che più volte ritrovarsi, tutti i personaggi coinvolti non hanno più vie di fuga e, come schiacciati a un angolo di un ring, non possono più nascondersi. Mentre la radio manda in onda "Dolcenera" di De André e "Maledetta primavera" di Loretta Goggi come anche "All That She Wants" degli Ace of Base. E così tutto s'intreccia: passato, presente e futuro, con l'intero loro rispettivo portato, insieme si condensano e sono come imprigionati. Quasi manca ossigeno e si va in apnea quando si discute dell'attentato alla sede del giornale satirico francese "Charlie Hebdo" e di quelli dell'11 settembre 2001 negli Stati Uniti d'America: qual è la verità?

         Qual è la realtà oggettiva delle cose? E così ancora si cela qualcosa, c'è tuttavia molto da svelare. Secrets and lies devono ancora emergere, risalire fino a prendere forma attraverso le espressioni dei loro volti, le conversazioni che non possono più rimanere sospese, gli occhi che non hanno più modo di distrarsi. Ora non resta che solo l'aria a separare i protagonisti tra di loro, ognuno con le proprie storie dentro, e la trasparenza indefinibile non tarda ad arrivare. Questo intermezzo che è l'aria è anche il cinema che si frappone e prova a farci vedere che sempre siamo dritto e rovescio insieme, che ci risolviamo anche un po' in un continuo riavvolgimento. Eppure, nonostante in un contesto sia pur familiare ma sempre plurale sembrano esserci tutte le condizioni per fare fino in fondo i conti con se stessi e con chi c'è accanto, per Puiu non può che tornare l'abitacolo a due, dove Lary e Laura, lontani dai rumori del mondo e davvero lì in trappola, non esitano a dirsi.

         E di nuovo torna lo specchio retrovisore e, come Un incendio visto da lontano, lo spettatore ri-percepisce, ri-percorre e ri-scrive tutta la sua storia, parti del suo vissuto, i suoi legami in quelle immagini che scorrono manifeste di fronte ai sedili posteriori dell'auto: ecco il cinema, anche il cinema di Puiu. Tutto poi finirà davanti ai primi piatti di portata del pranzo, con una persistente e virale risata che coinvolge i soli uomini che alla fine riescono ad accomodarsi a tavola e a sedare così gli appetiti, almeno, della gola. Alla lettera, lo spettatore di questo film torna lì dove non è mai arrivato. Nel senso proprio del susseguirsi, ovvero del non essere mai nello stesso punto. In questo modo, Puiu è riuscito con questo film a ripercorrere non il proprio canovaccio, ma una sorta di canovaccio altrui. E qui per altrui si vuole intendere, via Nietzsche, di tutti gli altri e di nessuno. Guardiamo e ci aggrappiamo a quello che non sappiamo. Tutti gli altri hanno percorso la loro storia e sono stati lì.

         Ciò nonostante, qualunque cosa si ri-afferri, il massimo che può succedere è reperire appena una cosa. Altrimenti, anche di non trovarla neppure: questa è la fatalità che accompagna sin dalle origini le immagini filmiche. Perché Sieranevada, domanda un giornalista al regista: "Perché volevo che ci fosse un luogo nel titolo, uno spazio fisico, un posto in cui si è presenti ma qualcun altro non è più presente [...]. In definitiva, Sieranevada è un titolo universale, che magari farà passare ai distributori internazionali la voglia di cambiare i titoli dei film". Ecco servito chi si era incuriosito già a partire dal titolo. (Domenico Spinosa)

 

 


SegnoFilm n. 205

Elle
(Elle)

Regìa: Paul Verhoeven Orig.: Fr./Germ./Belg., 2016

Sogg.: dal romanzo Oh... di Philippe Djian. Scenegg.: David Birke. Fotogr.: Stéphane Fontaine. Musica: Anne Dudley. Mont.: Job ter Burg. Scenogr.: Laurent Ott. Costumi: Nathalie Raoul. Suono: Jean-Paul Mugel, Alexis Place, Katia Boutin. Interpr.: Isabelle Huppert (Michelle), Laurent Lafitte (Patrick), Anne Consigny (Anna), Charles Berling (Richard), Virginie Efira (Rebecca), Christian Berkel (Robert), Judith Magre (Irène), Jonas Bloquet (Vincent), Alice Isaaz (Josie), Vimala Pons (Hélène), Raphaël Lenglet (Ralf), Arthur Mazet (Kevin), Lucas Prisor (Kurt). Prod.: Saïd Ben Saïd e Michel Merkt, per Entre Chien et Loup/SBS Prods./Twenty Twenty Vision Filmproduktion GmbH/France 2 Cinéma. Distr.: Lucky Red. Durata: 130 min.

Michelle viene stuprata nella sua casa da un uomo mascherato. La donna non denuncia l’accaduto alla polizia e continua a vivere la sua vita: il lavoro come manager di una casa di produzione di videogiochi, i rapporti complessi con la madre che si riempie di botox e amoreggia con un toy boy, un ex marito frustrato di cui è ancora gelosa, un figlio imbelle padre di un figlio non suo, uno stupido amante marito della sua più cara amica. Lo stupratore intanto torna a farsi vivo, Michelle lo smaschera: è il vicino di casa. Fra loro s'instaura una relazione pericolosa dalla quale l’uomo ne uscirà morto.

Elle

“Ce l’ho con una società che mi ha educato
senza mai insegnarmi a ferire un uomo
se mi allarga le cosce di prepotenza,
mentre mi ha inculcato l’idea
che si tratta di un crimine da cui devo riprendermi”
(Virginie Despentes, King Kong Girl, Einaudi 2007)

         L’interiezione Oh..., titolo del romanzo di Philippe Djian da cui il film è tratto, si trasforma in Elle, il pronome racchiuso sia nel nome della protagonista Michelle che in quello della sua straordinaria interprete Isabelle, come a enfatizzare la capacità dell’attrice di farsi autrice del proprio ruolo. Sin dagli esordi della sua carriera la Huppert ha dato corpo a personaggi tormentati, gravati da profonde turbe psichiche: è una parricida in Violette Nozière, un’abortista in Affair de femmes, un’assassina in La cérémonie, una perversa sado-masochista in La pianiste. In Elle, invece, è lei a subire la mostruosità altrui di cui però rifiuta di sentirsi vittima. Dopo lo stupro Michelle s'impone un rigido controllo: emblematica è la macchia di sangue che affiora nella vasca dove s'immerge: con un movimento della mano fa sì che il rosso della violenza subìta si disperda nel bianco della schiuma informe. Il film è costruito in modo da rendere inizialmente incomprensibile tale controllo. Un atteggiamento distaccato, che oscilla fra durezza e ironia, è mantenuto dalla donna anche nelle relazioni complicate e grottesche con i familiari, i dipendenti, l’amante, gli amici. Una calibrata sceneggiatura è attenta a dipanare gradualmente il trauma pregresso che l’ha come intorpidita, come se il peggio lo avesse già vissuto e il resto non fosse che un corollario che non riesce a scalfirla.

         Di violenza estrema e di tortuosa sessualità è intriso il cinema di Verhoeven; e anche Elle - più vicino ai film del primo periodo olandese (soprattutto a Il quarto uomo) che alla spettacolare ferocia dei film d’azione della fase americana - ne è sostanziato sin dalle battute iniziali. Dopo i titoli di testa che scorrono sulle note delicate degli archi dell’adagio di Anne Dudley, lo spettatore è aggredito da urla, spasimi, rumori di oggetti che si rompono: lo schermo è ancora buio, ma è inequivocabile: è la scena di uno stupro. La stessa scena è più volte scaraventata sullo schermo anche con la variante di un epilogo diverso che vede Michelle immaginare di colpire a morte il suo aggressore, mentre reale e altrettanto brutale è il secondo stupro dal quale riesce a difendersi smascherando l’uomo e ferendolo con le forbici. Da strumento di evirazione nelle mani della donna-mantinde - nell’incubo del protagonista de Il quarto uomo (e non si può non pensare al rompighiaccio in Basic Instinc) - le forbici diventano un’arma per difendersi, come in Dial M for Murder di Hitchcock.

         Elle tuttavia non è un rape-revenge movie alla Wes Craven (The Last House on the Left) o come in Showgirls dello stesso Verhoeven; in Elle la relazione fra il carnefice e la vittima è più complessa e sfocia in una perturbante relazione. Prima ancora di conoscerne l’identità, Michelle è attratta dal suo aggressore, il compunto vicino di casa che insieme alla fervente moglie cattolica allestisce nel giardino un presepe con statue a grandezza d’uomo. Lo scruta vogliosa dalla sua finestra con un binocolo - ovvia allusione a Rear Window di Hitchcock - come se vedesse in lui qualcosa di familiare. Pur non al limite della blasfemìa de Il quarto uomo (dove un crocifisso è trasformato in oggetto di desiderio), Verhoeven non esita ad accostare cattolicesimo e perversione. Anche il padre di Michelle era un bravo cattolico, un premuroso padre di famiglia che, dopo aver ucciso ventisette persone, torna a casa e chiede alla figlia di appena dieci anni di aiutarlo a bruciare il mobilio di casa. Una foto data in pasto ai giornali e alle televisioni che ne fanno una sorta di complice la ritrae coperta di cenere con lo sguardo perduto. Da allora Michelle ha espunto dalla propria vita ogni rapporto con il padre. La madre vorrebbe invece che la figlia lo andasse a trovare in carcere, perché alcuni legami non si spezzano, perché lei ha conosciuto non solo il mostro, ma anche l’uomo, ora ormai vecchio e malato. Dopo la morte della madre, Michelle si risolve a incontrare il padre ma questi, dopo l’ennesimo rifiuto di una richiesta di grazia, preferisce suicidarsi piuttosto che affrontare lo sguardo della figlia.

         Michelle è comunque ormai decisa a un confronto con la mostruosità e accetta l’invito a cena da parte del suo aggressore. La discesa nei sotterranei della casa è come una discesa agli inferi: prevalgono i rossi del fuoco della caldaia che brucia a combustione inversa; e qualcosa di inverso, di perverso accade, una folie à deux che vede i corpi di entrambi subire e arrecare violenza in un godimento torbido ed estremo. Nello scontro Michelle vede il mostro che è anche in lei, e che era in suo padre, e che, a vari livelli, è dentro tutti, pronto ad aggredire se non si sa riconoscerlo e tenerlo a bada. Michelle, riconoscendolo, ne prende le distanze ed è pronta a denunciare l’uomo.

         In Elle Verhoven costruisce una riflessione sul senso della violenza nei suoi film e la scelta di ricorrere alla grammatica dei videogiochi - non a caso Michelle non è una sceneggiatrice come nel romanzo - si muove in tale direzione. Le immagini del videogioco che irrompono sullo schermo intero con la stessa improvvisa aggressività delle scene dello stupro mostrano una storia parallela: un orco penetra con i suoi tentacoli la carne di una fanciulla sul cui volto si sovrappone a un tratto, nella manipolazione di uno dei video-makers, il volto di Michelle. Quanto la violenza delle immagini di finzione è specchio della realtà e quanto la realtà della violenza è materia per la finzione filmica? Affinché il videogioco abbia successo, afferma Michelle, il giocatore deve sentire il sangue caldo e denso scorrergli fra le mani. Fino a che punto ci si può spingere? Quanto vanno sfruttate le oscure e morbose fantasie dello spettatore? E perché? Per far sì che, al sicuro di una poltrona, riconosca le altrui e le proprie mostruosità?

         Un gatto, immagine dello sguardo del regista e/o dello spettatore, assiste allo stupro iniziale: resta immobile a guardare e se ne va non appena l’atto è compiuto; lo stesso gatto più tardi infierisce su un piccolo uccello ferito. Ma ha le sue ragioni; “tutti hanno le loro ragioni”, è la celebre frase tratta da La règle du jeu di Renoir, espressamente menzionata nel film. Quando Michelle chiede al suo stupratore il perché della sua violenza, questi risponde che “era necessaria”; e prima di morire sussurra “perché?”, come se non capisse il motivo del colpo mortale che, infertogli dal figlio di Michelle, pone fine alla sua compulsiva violenza. Eppure c’è un momento in cui la storia poteva cambiare direzione; ed è quando l’uomo, preoccupato per una tempesta in arrivo, accorre in casa di Michelle per aiutarla a chiudere le finestre: il vento infuria, scompiglia i capelli, insieme sembrano sfidare i pericoli del mondo; e, dopo aver vinto il vento, lui l’accarezza, come convertito alla tenerezza; ma non ce la fa, e fugge via verso la sua follia.

         Michelle, come l’eroina del videogioco, esce vincitrice dallo scontro con il mostro, porta un mazzo di fiori sulla tomba del padre e al cimitero incontra la sua amica con la quale, forse, la sua vita avrà un nuovo inizio. (Eliana Elia)

 

 


SegnoFilm n. 204

Vi presento Toni Erdmann
(Toni Erdmann)

Regìa: Maren Ade             Orig.: Germania/Austria, 2016

Sogg. e Scenegg.: Maren Ade. Fotogr.: Patrick Orth. Musica:Patrick Veigel. Mont.: Heike Parplies. Scenogr.: Silke Fischer. Costumi: Gitti Fuchs. Suono: Bernhard Maisch. Eff. Vis.: Manfred Büttner (superv.) Interpr.: Peter Simonischek (Winfried Conradi/Toni Erdmann), Sandra Hüller (Ines Conradi), Michael Wittenborn (Henneberg), Thomas Loibl (Gerald), Trystan Pütter (Tim), Hadewych Minis (Tatjana), Lucy Russell (Steph), Ingrid Bisu (Anca), Vlad Ivanov (Iliescu), Victoria Cocias (Flavia), Alexandru Papadopol (Dascalu). Prod.: Janine Jackowski, Maren Ade, Jonas Dornbach, Bruno Wagner e Antonin Svoboda, per Komplizen Film prod./Coop99/KNM/Missing Link Films/SWR/WDR/Arte. Distr.: Cinema. Durata: 162 min.        

Winfried Conradi ha un aspetto da orco, una vecchia madre, un cane malato, una figlia troppo impegnata con il lavoro, e il gusto del travestimento e della battuta anche caustica. Quando va a trovare la figlia, manager in carriera a Bucarest, comincia a seguirla, presentandosi, con parrucca e dentiera fasulla, ai suoi colleghi, alle sue amiche e ai suoi conoscenti come il sedicente ed eccentrico Toni Erdmann. La figlia sopporta pazientemente le sue pagliacciate, ma alla fine Toni riesce a destabilizzare sia le sue convinzioni che l’ambiente che la circonda. Finirà con una festa in cui (quasi) tutti si mettono a nudo, e con un funerale. 

Vi presento Toni Erdmann       

         Vada come vada, Toni Erdmann è già uno dei film europei più importanti dell’anno, essendo il vincitore del premio Fipresci a Cannes, del Lux (premio dell’Unione europea andato in precedenza a opere come Mustang o Ida), di tutti i principali premi Efa per il cinema europeo (film, regìa, sceneggiatura, attore e attrice protagonisti), di numerosi altri premi in giro per l’Europa e per il mondo, e candidato sia ai Golden Globe che agli Oscar come miglior film straniero. Il rapporto padre-figlia al centro del film e la comune ambientazione nella Romania dei nostri giorni richiamano immediatamente alla mente un altro film recente, Un padre, una figlia; ma Toni Erdmann ne è una sorta di rovesciamento. Se il primo infatti racconta la storia di un padre disposto a qualsiasi cosa per salvaguardare il futuro della figlia, garantendole i migliori studi in vista della successiva carriera, il protagonista del film tedesco appare invece del tutto intenzionato a sabotarne la carriera che sembra avviata a un brillante successo1.

         Toni Erdmann è infatti un personaggio fittizio, che il protagonista, Winfried Conradi, s'inventa quando si rende conto che la figlia Ines, completamente dedita al suo lavoro - che consiste nel formulare progetti di ristrutturazioni aziendali che in genere implicano sanguinose riduzioni di personale - non è per nulla felice. Non ha tempo né testa per se stessa, continuamente all’inseguimento di impegni di lavoro che sconfinano anche nella sua vita privata, e che per giunta non sempre sono così gratificanti. È così che Winfried, già incline al travestimento e alla burla, si presenta inaspettatamente a Bucarest, dove la figlia si trova per lavoro. La visita a sorpresa si trasforma ben presto in una sorta di stalkeraggio in cui spesso, con parrucca dai lunghi capelli e dentiera dai denti sporgenti, Winfried si trasforma nell’eponimo Toni Erdmann, sedicente life coach, portando lo scompiglio o quanto meno il disorientamento nella vita della figlia e nei suoi appuntamenti di lavoro, inclusi quelli più critici, delicati e determinanti per il suo futuro.

         Con qualche risultato: a poco a poco la fredda determinazione della figlia comincia a vacillare e a sgretolarsi, e alla fine tutti si troveranno a una festa bizzarra: chi nuda per un impulso improvviso, inaspettato e incosciente a liberarsi di tutte le sovrastrutture e gli abiti delle convenzioni sociali, e a ritrovare un’essenziale, spoglia e sfidante umanità, e chi questa liberazione la raggiunge portando al culmine la strategia del travestimento, occultato sotto spoglie animalesche (in realtà un costume del folklore bulgaro) che impedisce fino di pronunciare una parola, al grado (sotto)zero di qualsiasi possibilità di comunicazione sociale. La regista Maren Ade per parlare della vita contemporanea, dominata dai miti sterili (e in questo caso nubili; ma a proposito di sterilità si veda la deformazione grottesca cui è portato l’atto sessuale nella scena in albergo tra Ines e il suo collega-amante) del successo e della realizzazione professionale, sceglie la chiave della commedia.

         Guardando il film si sorride, si sogghigna, e a volte, soprattutto nel sorprendente finale, si ride apertamente. Ma qui entrano in gioco i 162 minuti di durata del film. Perché Toni Erdmann non è una screwball comedy, come avrebbe potuto essere (e come non è detto che possa essere in qualche futuro eventuale remake hollywoodiano), non ha una sceneggiatura fluida, serrata e perfetta come avrebbe dovuto avere un prodotto di questo genere. Al contrario, lungo una durata abnorme, soprattutto per una commedia, tra una scena e l’altra s'insinuano continuamente tempi morti, gag che non trovano sbocco, momenti d'imbarazzo, intere scene che appaiono inessenziali. Sembra che, come Winfried vuole sabotare la riuscita di Ines, la regista voglia sabotare il proprio stesso film, conducendolo spesso sulle secche o in vicoli ciechi, spezzandone il ritmo con digressioni inconcludenti o trascinando le scene oltre le buone convenzioni del genere, trasformandola in una a tratti esilarante apologia del disagio e dell’imbarazzo2.

         Gradualmente, ci si rende conto che proprio questa alternanza di toni comici e di momenti neutri se non sgradevoli, di vuoti e di pieni, di buffonerie e di malinconie, costituisce la cifra del film e gli conferisce  sincerità e originalità. La vita non è una commedia, sembra dirci il film, anche se dobbiamo fare di tutto perché lo sembri per renderla sopportabile, per cercare di scongiurare il pensiero della morte (reale e dell’anima); per cercare di riguadagnare una dimensione umana, al di fuori dell’obbligo del successo, misurato sulle gratificazioni professionali e sull’accumulazione di denaro, e che davvero non rende felici, soprattutto se non si ha più neppure il tempo e la voglia per esserlo. Paradossalmente, Winfried esercita la sua funzione di padre, consapevolmente anacronistica, rinunciando a essere il padre di Ines, e camuffandosi in maniera grottesca; e il suo tentativo di salvare la vita della figlia si esplica in un tentativo di distruggerne la carriera.

         Molto precisa appare nel film la strategia della scelta degli spazi: se a predominare sono i non-luoghi sul cui sfondo si svolge la vita artificiale di Ines (alberghi, uffici, locali notturni, locali pubblici, ecc.), gli spazi domestici sono i soli a poter ospitare la residua o riscoperta umanità dei rapporti: come nella bella scena in casa di una sconosciuta famiglia rumena, in cui per la prima volta le incrinature nella corazza caratteriale di Ines diventano uno squarcio da cui fuoriesce una sofferta e inaspettata interpretazione canora di Greatest Love of All. In effetti per la riuscita del film sono determinanti le performance dei due protagonisti: l’impresentabile Peter Simonischek, con la sua corporeità goffa e ingombrante, e la vibrante Sandra Hüller, che rende bene l’oscillazione tra l’esibita freddezza della business woman e la vulnerabile fragilità che gradualmente (e letteralmente) riporta alla luce la donna sepolta sotto la patina professionale.

         Non è dato sapere se la gli sforzi di Winfried avranno duraturo successo; quello che è certo è che Ines difficilmente potrà dimenticare l’incontro con Toni Erdmann, e quello che quel grottesco pagliaccio ha voluto dirle da parte di suo padre, prima di scomparire dalla sua vista. (Mauro Caron)

 

1 Curiosamente, entrambi i film finiscono con una fotografia: quella che consegna a un futuro incerto Eliza e i suoi compagni di classe e quella fuori tempo massimo di cui rimane in attesa l’inquieta Ines.
2 D’altra parte la regista ha ammesso che il nome dell’alter ego del protagonista è un omaggio a Toni Clifton, il personaggio non-comico, scorretto e spiazzante inventato dallo stralunato Andy Kaufman (la cui storia fu portata sullo schermo da Milos Forman in un film intitolato Man on the Moon).

 

 


SegnoFilm n. 203

La La Land
(La La Land)

Regìa: Damien Chazelle             Orig.: U.S.A., 2016

Sogg. e Scenegg.: Damien Chazelle. Fotogr.: Linus Sandgren. Musica: Justin Hurwitz. Mont.: Tom Cross. Scenogr.: Sandy Reynolds-Wasco. Costumi: Mary Zophres. Suono: Steven Morrow. Eff. Vis.: Crafty Apes. Interpr.: Ryan Gosling (Sebastian), Emma Stone (Mia), Jonathan Kimble Simmons (Boss), Finn Wittrock (Greg), Sandra Rosko (Dream Audience), Sonoya Mizuno (Caitlin), John Legend (Keith), J.K. Simmons (Boss). Prod.: Fred Berger, Gary Gilbert, Jeffrey Harlacker, Jordan Horowitz e Marc Platt, per Leone Film Group/Rai Cinema pres./Impostor Pictures/Gilbert Films/Marc Platt Prods. Distr.: 01 Distribution. Durata: 127 min.        

Los Angeles, tempo presente. Mia Dolan, aspirante attrice, si guadagna da vivere in un caffè frequentato da celebrità di Hollywood. Sebastian Wilder, musicista jazz, fa altrettanto in locali dove lo obbligano a suonare esecrabili canzonette per un pubblico distratto. I due giovani s'incontrano, s'innamorano, decidono di condividere il loro sogno di successo nelle rispettive arti. Sebastian trova finalmente lavoro con un gruppo jazz alla moda, ma anche lì deve adeguarsi a uno stile che non è il suo. Le lunghe tournées lo allontanano da Mia, che trova finalmente la sua strada dopo mille infruttuosi provini. I sogni sono diventati realtà per entrambi, ma Mia e Sebastian non sono più insieme. 

La La Land       

         La resurrezione del “cinema di mestiere” si chiama La La Land, materiale sicuro da premio Oscar. Damien Chazelle ha appena trentadue anni; il suo terzo lungometraggio dimostra una maturità di stile e una padronanza del mezzo con pochi termini di paragone nel panorama americano di questo decennio, e già si corre a rivedere Whiplash (2014) e Guy and Madeline on a Park Bench (2009, anch’esso un musical) per capire da dove viene questo talento che ha cominciato facendo quasi tutto da solo - direttore della fotografia, montatore, sceneggiatore - cimentandosi con buoni risultati anche nella scrittura di genere horror. A vederlo e sentirlo parlare sembra un ragazzino, ma ha studiato il cinema sul serio (a Harvard), e anche la musica, che avrebbe dovuto essere l’oggetto del suo futuro professionale. Figlio di un professore francese di cibernetica, ama il jazz da quando andava a scuola media. Potrebbe essere il ritratto di un enfant prodige, e quasi lo è.

         La La Land sembra fatto da qualcuno che ha almeno vent’anni più di lui. La sua disarmante freschezza non ha alcun retrogusto post-moderno, ed è per questo che il film ha sedotto i palati più sofisticati, sospettosi di trovarsi di fronte a un sottoprodotto di scuola Baz Luhrmann. Si esce dalla sala con le ali ai piedi, riconciliati con il cinema commerciale e convinti che non vi sia inganno, come nella stupefacente sequenza di apertura dove il numero musicale introduttivo si svolge in una sola inquadratura in piena autostrada; se c’è stato impiego di effetti digitali, non si vedono (buona parte del film è girata nei magici minuti dopo il tramonto). C’è invece un messaggio immediato: La La Land vuole esprimersi in un linguaggio risolutamente classico - quello del musical americano dei tempi d’oro, e della sua controparte francese (soprattutto Jacques Demy in Les parapluies de Cherbourg, 1964) - ma con il vocabolario culturale del ventunesimo secolo, dai telefoni portatili all’ansia del successo che è tipica dell’etica neo-capitalista. È all’interno di questa cornice che il film affronta di petto il suo tema centrale, il rapporto fra modernità e nostalgia: l’una è incarnata dall’industria dello spettacolo a Los Angeles, l’altra dalla passione del protagonista maschile per la musica jazz.

         Curiosamente, l’opinione di entusiasti e detrattori del film si biforca proprio a questo punto. Sebastian è innamorato di Mia, ma prima di lei ci sono Miles Davis e lo swing, coltivati con dischi in vinile e l’ossessiva devozione dell’apprendista conoscitore. Si tratta per lui di grande musica e basta; il fatto che sia una musica attualmente fuori moda è per lui nient’altro che una sfortunata coincidenza, destinata a risolversi non appena lui riuscirà a spiegare la sua arte a un pubblico per ora indifferente. All’inizio del suo sfortunato tentativo di reinventarsi quale membro di un gruppo musicale più adatto ai tempi, la conversazione fra Sebastian e Keith, leader afro-americano della band, sgombra il campo da ogni equivoco: a Sebastian non interessa celebrare il passato o rifuggire ciò che è nuovo, perché il suo jazz (cioè quello di Miles Davis e di Sidney Bechet) parla per lui al tempo presente, e non è colpa sua se il resto del mondo la pensa altrimenti. La colonna sonora del film (il suo compositore, Justin Hurwitz, ha lavorato con Chazelle dagli esordi) è lo specchio fedele di questa fiducia in una musica senza tempo, orecchiabile come quella dei tempi d’oro eppure orchestrata con timbri e i ritmi contemporanei.

         Sul piano musicale, La La Land dà l’impressione di scavalcare il dibattito sull’argomento ignorandolo tout court, come già aveva fatto Scorsese in uno dei suoi film più belli e sottovalutati, New York New York (1977), un altro musical al quale Chazelle si è chiaramente ispirato. Le sue melodie sono tuttavia saldamente ancorate al contesto storico del film, mentre La La Land gioca a rimpiattino con la tradizione facendo muovere i suoi personaggi nella Los Angeles di oggi, ma con le cadenze di un film di Minnelli. Lo si nota, per difetto, nelle due scene in cui Chazelle si muove con passo più incerto: all’inizio del film, nel breve e pasticciato turbinare della m.d.p. al centro di una piscina intorno alla quale si attarda una folla festeggiante; e più avanti, nel numero di danza intorno a una panchina sul colle antistante la città, durante il quale l’obiettivo sembra di colpo intimidirsi di fronte ad Emma Stone e Ryan Gosling, rivelando i limiti di una coreografia altrimenti impeccabile anche in contesti scenografici particolarmente impervi. Gli scettici hanno qui gioco facile, perché Stone e Gosling sono bravi attori ma non ballerini di prim’ordine: provano a rifare Gene Kelly e Cyd Charisse, con tanta buona volontà e con poche speranze di paragone.

         È un peccato, ma né loro né Chazelle potevano fare di più. I pareri sono divisi anche sull’ultimo quarto d’ora del film: c’è chi lo vede come il momento più alto di La La Land, in cui la levità di eloquio del film si rapprende in un’accorata elegìa del tempo perduto; c’è chi lo valuta, per converso, come la concessione più esplicita ai canoni narrativi del musical degli anni Cinquanta, una rinuncia in dirittura di arrivo alla spumeggiante leggerezza di tono che aveva caratterizzato i novanta minuti precedenti. Per entrambi i punti di vista, l’ingrediente della nostalgia prende qui il sopravvento, e si sente. Se ciò impedisce a La La Land di affermarsi come un grande film, l’improvvisa svolta del suo finale non compromette quel senso di coesione drammatica che si avvertiva lungo tutto il resto del percorso. Va fatta inoltre giustizia delle lamentele rivolte ai due interpreti principali: Emma Stone, in particolare, si rivela un’attrice di classe superiore, e la sua evoluzione rispetto al ruolo che le era stato affidato in Birdman (2014) promette una carriera ben diversa da quella della caratterista di genio. Quanto a Chazelle, si tratta solo di vedere se Hollywood gli darà il tempo di crescere senza stritolarlo nell’autorialità a grosso budget. (Paolo Cherchi Usai) 

 

 


SegnoFilm n. 202

Cafè Society
(Café Society)

Regìa: Woody Allen             Orig.: U.S.A., 2016

Sogg. e Scenegg.: Woody Allen. Fotogr.: Vittorio Storaro. Musica: motivi vari. Mont.: Alisa Lepselter. Scenogr.: Santo Loquasto. Costumi: Suzy Benzinger. Suono: David J. Schwartz. Eff. Vis.: Brainstorm Digital; Erin Dinur (superv.) Interpr.: Jesse Eisenberg (Bobby), Kristen Stewart (Vonnie), Steve Carell (Phil Stern), Blake Lively (Veronica), Corey Stoll (Ben Dorfman), Parker Posey (Rad Taylor). Prod.: Letty Aaronson, Stephen Tenenbaum e Edward Walson, per Gravier Prods. pres./Perdido prod. Distr.: Warner Bros. Durata: 96 min.        

Bobby Dorfman è un giovane ebreo newyorkese in cerca di fortuna nella Hollywood degli anni Trenta. Suo zio Phil, potente manager delle star, lo introduce nell’ambiente del cinema e gli affida come guida la sua segretaria Veronica (“Vonnie”). Tra Bobby e la ragazza nasce una relazione, ostacolata dall’amore persistente di lei per un suo ex amante. Così Bobby ritorna a casa, fonda un locale alla moda e sposa un’altra donna di nome Veronica. L’equilibrio nella sua vita pare perfetto, finché improvvisamente Vonnie, ormai sposata, arriva a New York. 

Cafè Society       

         Café Society si apre e si chiude sui toni del ciano che, oltre a essere per antonomasia il colore della tristezza, è anche il cromatismo dell’anima che esprime al meglio il tempo davanti a sé. In questo modo lo denota Vittorio Storaro nel suo monumentale Scrivere con la luce, che ci offre gli strumenti per cogliere i simbolismi con cui il cinematographer, in accordo con la regìa e in coerenza con la sua poetica, ha “scritto” il film. Nel finale per il protagonista Bobby l’orizzonte è il fondale azzurro di un’orchestra jazz, una profezia di futura infelicità. Woody Allen riprende Jesse Eisenberg di spalle, con il medesimo taglio d'inquadratura riservato poc’anzi al fratello gangster, condannato alla pena capitale. Il parallelismo tra i due personaggi è eloquente e conferisce una nota di mestizia aggiuntiva a un film desolato ma non privo di speranza.

         Anche la ricostruzione degli anni Trenta, che Allen aveva filmato nella sua indigenza in La rosa purpurea del Cairo e poi celebrato in Radio Days, è priva di sincera nostalgia: è l’allestimento di un teatrino vintage, posticcio e irreale, ormai smarrito nelle nebbie della Storia e della disillusione, che il cineasta risuscita senza la devozione frizzante di Midnight in Paris. È il periodo in cui una coppia della Café Society cena con Adolf Hitler e in cui in Oklahoma, ricorda Veronica, serpeggia l’antisemitismo. Ma è nella rievocazione della Hollywood dell’epoca che Allen denuda le sue riserve su quell’apparente mondo dorato che la storia del cinema rivelerà essere già compromesso e stagnante. A differenza di Midnight in Paris e della sua sfilata di scrittori-feticcio, in Café Society lo star system viene citato ma non convocato sulla scena e, snocciolando grandi nomi in absentia, Allen sembra proporci un raduno di spettri. Lo suggerisce un preciso movimento di macchina, dal Chinese Theatre, in cui Bobby ha appena visto Swing Time con Astaire-Rogers, alla firma sulla strada di Gloria Swanson, la miglior personificazione del divismo al tramonto grazie a Billy Wilder.

         Bobby si muove tra New York e Los Angeles come Alvy Singer in Io e Annie ma, anche se la sua amata Vonnie preferirà restare a ovest proprio come Annie Hall, i tempi (per Allen) sono cambiati: la classica dicotomia tra le due metropoli, che tanto ha segnato l’immaginario globale, non si riduce più, con un certo orgoglio filoeuropeo, alla superiorità intellettuale della Grande Mela. Sono entrambe le città dei compromessi (NY) e delle illusioni infrante (LA), gemellate da mondanità setose ed effimere. Storaro immerge la prima in tonalità più smorzate, tendenti al seppia, che talvolta paiono frutto della sua esperienza con Il conformista, mentre avvolge la seconda in colori caldi e abbaglianti, a un passo dall’allucinazione.

         D’altronde, la vicenda di formazione di Bobby pare pervasa da codici onirici poco frequentati nella filmografia del regista. Quella doppiezza che temono i personaggi di Café Society, in particolare Vonnie, investe la trasferta del protagonista da una costa all’altra e trionfa nell’amore per due donne omonime, una bruna e l’altra bionda. Ricorre però anche nella vertiginosa ascesa imprenditoriale di Bobby nel jet set newyorkese e nella sua nuova spregiudicatezza con le donne, che lo rendono di fatto un clone dello zio. La logica della ripetizione con variazione e alcune soluzioni figurative suggeriscono come il film sia contaminato dalle fantasticherie di un sognatore anacronistico, che proietta nel presente i mitici bagliori del decennio passato e che, disarmato, ne trova solo gli ultimi fuochi, proprio quando il suo epocale cantore, Francis S. Fitzgerald, vive a Hollywood il suo tracollo personale.

         La relazione sentimentale fra i protagonisti è il piano del racconto privilegiato dalla regìa, che intreccia con grazia anche altre storie minori sulla famiglia Dorfman, rivelando la natura originaria di Café Society: concepito come un romanzo sugli anni Trenta, Allen ha convertito il suo materiale in un film che gli permette di sfiorare tematiche a lui care: la morale e il crimine, il delitto con castigo, Dio e l’Ebraismo. Un umoristico filosofeggiare per postille che fa trapelare una segreta aspirazione abortita, quella di dipanare questi episodi secondari in film a sé stanti. Ad Allen non resta quindi che lavorare sulla passione per Vonnie, un simulacro di felicità che Storaro opacizza in un’antica e bianca luce soffusa, simbolo di “purezza e saggezza”[1], o colora di arancio, che rappresenta “il tepore accogliente, la dolcezza, il fascino introverso”[2]. Un’aura di sacralità smentita nella seconda parte, dove Kristen Stewart, ormai promossa in ruoli di assistenti intriganti, conferisce un’umana ambiguità di fondo al suo personaggio, senza intaccarne il candido carisma.

         Come in Eyes Wide Shut, ci si interroga sulla attività onirica nella vita di coppia e si affaccia in sogno la paura di un tradimento, mentre il disincanto di Bobby (“i sogni sono solo sogni”) sarà poi contraddetto dal volto di Vonnie in sovrimpressione, un espediente semplice ma necessario per tradurre lo stato d’animo finale su cui il regista ha costruito l’intero film.

         Nella notte di Capodanno Bobby pensa con afflizione a quel desiderio reciproco ormai impossibile, che con le nozze Vonnie ha sacrificato barattando un po’ di felicità per molta sicurezza (Freud docet); a distanza contemporaneamente, invece, la ragazza sublima il pensiero per l’altro e il casto amore che li lega a un porto di calore e consolazione nella monotonia dell’esistenza. Una possibile soluzione alla complessità dei rapporti uomo-donna inedita nel cinema di Woody Allen, che ha reso Café Society, se non del tutto privo di smagliature, almeno sincero e seducente. (Martina Volpato)

 

[1] Vittorio Storaro, Scrivere con la luce. I colori, Vol. 2, Electa-Milano, Accademia dell’Immagine-L’Aquila, 2003, p. 125.
[2] Ivi, p. 55.

 

 


SegnoFilm n. 200

Julieta
(Julieta)

Regìa: Pedro Almodóvar             Orig.: Spagna, 2016

Sogg. e Scenegg.: Pedro Almodóvar, dai racconti Fatalità, Fra poco, Silenzio di Alice Munro. Fotogr.: Jean-Claude Larrieu. Musica: Alberto Iglesias. Mont.: José Salcedo. Scenogr.: Antxón Gómez. Costumi: Sonia Grande. Suono: Sergio Bürmann. Eff. Spec.: El Ranchito. Interpr.: Emma Suárez (Julieta Arcos), Adriana Ugarte (Julieta Arcos giovane), Daniel Grao (Xoan Feijóo), Inma Cuesta (Ava), Darío Grandinetti (Lorenzo), Michelle Jenner (Beatriz), Rossy de Palma (Marian), Pilar Castro (Claudia, madre di Beatriz), Nathalie Poza (Juana), Susi Sánchez (Sara, madre di Julieta), Joaquín Notario (Samuel, padre di Julieta), Priscilla Delgado (Antía adolescente), Blanca Parés (Antía a 18 anni), Tomás del Estal (l'uomo del treno). Prod.: Agustín Almodóvar e Esther García, per El Deseo/FilmNation Entert./Echolake Entert./Blue Lake Media Fund. Distr.: Warner Bros. Pictures Italia. Durata: 96 min.        

Julieta, un’insegnante di filologia greca, lascia il suo compagno Lorenzo e torna ad abitare nello stesso palazzo dove aveva vissuto con la figlia Antía fino a quando la ragazza, compiuti i diciotto anni, non era partita per un ritiro spirituale senza più tornare. Dopo dodici anni di silenzio, Julieta ha notizie di Antía: si è sposata e ha tre bambini. Fra la speranza riaccesa di rivederla e la disperazione per la sua persistente assenza, Julieta le scrive la storia della sua vita, dall'incontro in treno con Xoan, con cui concepisce Antía e con il quale poi va a vivere in Galizia, alla rivelazione della domestica Marian sui rapporti che intercorrono tra la scultrice Ava, sua amica, e Xoan, alla morte di quest'ultimo in mare, fino a quando, insieme con Lorenzo, si mette in viaggio per andare a trovare Antía finalmente fattasi viva. 

Julieta       

         “ Il corallo è assai più rosso del rosso delle sue labbra”
(Shakespeare, Sonetto 130)

         È interessante analizzare come Almodóvar abbia piegato ai propri bisogni espressivi i tre racconti di Alice Munro (Fatalità, Fra poco, Silenzio), dai quali il film è tratto; non solo per aver trasferito in Spagna le ambientazioni e per aver cambiato situazioni e relazioni fra i personaggi, ma soprattutto per l’impiego espressivo dei colori che sembrano “tingere” e dare vigore alle algide pagine della scrittrice canadese. Le pieghe palpitanti d’un tessuto rosso (il vestito di Julieta mosso dal suo respiro) riempiono lo schermo nella prima inquadratura e, come i sensuali petali della pittrice Georgia O’Keefe, alludono con pudica audacia al sesso femminile. Fra le mani di Julieta è una piccola scultura stilizzata di un uomo nudo seduto con il membro eretto. Ritorna il confronto almodóvariano tra il femminile e il maschile ed evidente è la sproporzione.

        Come nel film muto all’interno di Parla con lei, l’uomo “piccolo” si muove sull’enorme corpo della donna fino a incunearsi nella sua vagina in una sorta di “terribile” regressus ad uterum. Per Almodóvar la donna è “grande” nel sentire, nel soffrire, nel creare la vita. La statua dell’uomo seduto è significativamente presente anche mentre Julieta comunica di essere incinta: la tiene ancora una volta fra le mani, anzi è Ava a porgergliela per poi riprendersela (è il simbolico passaggio di Xoan dall’una all’altra donna); e mentre Julieta racconta di come gli dei hanno creato gli esseri viventi, Ava forgia i glutei di un’altra figura maschile. Nella scena iniziale Julieta, come a volersene prendere cura, avvolge nella carta l’uomo seduto che, nella casa vuota di Madrid, diventa il muto e sempre presente testimone delle parole che scrive alla figlia.

        L’incontro in treno fra Xoan e Julieta, che nel racconto della Munro (Fatalità) si conclude con un sobrio bacio, si sviluppa nel film in un crescendo di passione. Le suggestive immagini al ralenti del cervo che corre sulla neve accanto ai binari alla ricerca della femmina, preludono alle immagini riflesse nel finestrino dello scompartimento dove i due giovani fanno all’amore con quel trasporto che Almodóvar - da Matador a Gli abbracci spezzati - rende palpabile e intrinsecamente legato alla morte: il suicidio del passeggero è avvenuto solo poco prima. La morte della moglie di Xoan precede di un giorno l’arrivo di Julieta; quella di Xoan coincide con l’innamoramento di Antía. La malattia e la morte della madre di Julieta è per il padre l’occasione per una nuova relazione con la cameriera (episodio assente nel racconto Fra poco); la morte di Ava segna l’incontro fra Julieta e Lorenzo. Mostrando una sorta di ferale accanimento nel rendere più che mai sadico il ruolo del destino, Almodóvar arriva persino a inventarsi la morte per annegamento di uno dei figli di Antía per spiegare le ragioni che la inducono a scrivere alla madre: la crudeltà della perdita subìta le fa comprendere quella da lei inflitta alla madre. Il regista spagnolo rigetta il persistere del silenzio fra le due donne che conclude il racconto della Munro. Come ampiamente dimostra la sua filmografia, i legami familiari e, in primis, quelli fra madri e figlie, per quanto difficili e complessi, non vengono mai recisi.

        Almodóvar trasforma inoltre l’amicizia fra Antía e Bea in una relazione amorosa per sviluppare un discorso più ampio sul senso di colpa. A provarlo non è solo Julieta, che si sente ingiustificatamente responsabile della morte dell’uomo sul treno e, soprattutto, di Xoan ma anche Antía “colpevole” di essere stata felice con la sua amica mentre suo padre moriva. Durante il ritiro la ragazza non solo avrebbe trovato una dimensione spirituale, come viene detto a Julieta da una donna che, nelle parole della Munro, nasconde “cattiveria dietro una squallida facciata di melensa religiosità”; ma, secondo quanto Antía ha raccontato a Bea, ha soprattutto imparato a provare vergogna per la loro relazione, giudicandola deplorevole. È come se Almodóvar non fosse più interessato alla teatralizzazione degli aspetti provocatori e irriverenti dell’omosessualità, quanto alle profonde ferite determinate dalla sua stigmatizzazione.

        Se l’irresolutezza dell’identità sessuale è propria dei protagonisti di tanti suoi film - Tacchi a spillo, La mala educación, Tutto su mia madre, La pelle che abito - in Julieta è appena accennata: la macchina da presa inquadra solo rapidamente un amico di Bea dallo sguardo conturbante, dai capelli arancioni e dalle labbra rosse: ma è solo un personaggio secondario, una semplice comparsa. In Julieta Almodóvar segue invece l’evoluzione dell’identità del personaggio. Il ricorso a due diverse attrici non è finalizzato all’espressione della doppiezza del personaggio femminile (così come appare allo sguardo maschile ne L’oscuro oggetto del desiderio di Buñuel), ma alla sua inevitabile trasformazione. L’asciugamano marrone che copre il volto giovane di Julieta-Ugarte per poi scoprire senza soluzione di continuità quello maturo di Julieta-Suárez è la spugna che ha assorbito le sferzate del tempo, gli spasmi del dolore e li ha impressi ineluttabilmente sul volto della donna.

        Almodóvar ha la capacità di far sentire il gusto della narrazione e, come da lui stesso dichiarato, Hitchcock continua a essere faro e sostanza del suo cinema. La cameriera Marian, resa ancor più perfida rispetto al testo della Munro, è un chiaro riferimento alla governante in Rebecca. Le scene in treno rimandano a North by Northwest, a The Lady Vanishes, ma soprattutto a Strangers on a Train, per via dell’esplicito riferimento a Patricia Highsmith fatto da Lorenzo che si paragona a uno dei suoi personaggi quando racconta a Julieta di averla pedinata dopo essere stato da lei abbandonato.

        Con fluidità narrativa il regista muove il racconto nel tempo e nello spazio. Nella casa in Galizia significativa è la presenza del mare (altro rimando a Rebecca) nella sua duplice personificazione femminile, Thalassa, e maschile, Pontos, come la stessa Julieta spiega ai suoi alunni. Da un lato l’azzurro del mare calmo visibile dalla casa, dall’altro quello tempestoso che ingoia Xoan e che le sue ceneri tingono di grigio. I colori hanno la capacità di raccontare e veicolare emozioni. Nella casa di Bea, dove Julieta comunica ad Antia la morte del padre, predomina il nero delle sculture e degli arredi; i colori sgargianti delle tipiche carte da parati almodóvariane “anni ’80” sono in sintonia con la giovane passione fra Antía e Bea; bianche sono invece le pareti della casa dove Julieta si trasferisce nel vano tentativo di cancellare il ricordo della figlia.

        È il rosso, tuttavia, a prevalere e a rendere vitali le immagini del film: lo smalto rosso sulle unghie di Julieta; il rosso del tatuaggio sul braccio di Xoan; il rosso dei sedili sui quali fanno all’amore; il rosso della lingua di Willem Dafoe nel manifesto di The Old Woman di Bob Wilson. E, ancora, il rosso di un’anguria di ceramica; il rosso delle scarpe di Julieta, di sua madre e di sua figlia quando si affacciano insieme in giardino; il rosso dell’alberello di carta che Antía invia alla madre; il rosso della torta che Julieta compra per il compleanno; il rosso della macchina che s'inerpica sul verde delle montagne. Il rosso fuoco, vibrante e senza scandalo delle labbra di Julieta. (Eliana Elia)

 

 


SegnoFilm n. 199

Le Mille e una notte - Arabian Nights
(As mil e uma noites)

Regìa: Miguel Gomes             Orig.: Portog./Fr./Germ./Svizz., 2015

Volume 1. Inquieto (Volume 1, o inquieto); Volume 2. Desolato (Volume 2, o desolado); Volume 3. Incantato (Volume 3, o encantado). Sogg. e Scenegg.: Miguel Gomes, Mariana Ricardo, Telmo Churro. Fotogr.: Sayombhu Mukdeeprom. Mont.: Telmo Churro, Pedro Filipe Marques, Miguel Gomes. Scenogr.: Bruno Duarte, Arthur Pinheiro. Costumi: Silvia Grabowski, Lucha D'Orey. Suono: Vasco Pimentel. Interpr.: Volume 1: Crista Alfaiate (Sherazade), Adriano Luz (Luis, il sindacalista/Luís), Américo Silva (l'uomo del FMI), Carloto Cotta (il traduttore), Rogério Samora (Primo Ministro); Volume 2: Crista Alfaiate (Sherazade/Génie/Oliveira), Luísa Cruz (giudice), Gonçalo Waddington (Careto), Joana de Verona (Vania), Teresa Madruga (Luísa); Volume 3: Crista Alfaiate (Sherazade), Américo Silva (Gran Visir), Carloto Cotta (Paddleman), Chico Chapas (cacciatore), Jing Jing Guo (Lin Nuam). Prod.: Luis Urban, Sandro Aguilar, Thomas Ordonneau, Jonas Dornbach, Janine Jackowski, Maren Ade, Elena Tatti, Thierry Spicher e Elodie Brunner, per O Som e a Fúria/Shellac Sud/Komplizen Film/Box Prods./Agat Films. Distr.: Milano Film Network. Durata: 125 min. (Vol. 1), 132 min. (Vol. 2), 126 min. (Vol. 3).        

Il regista portoghese Miguel Gomes è in crisi d'ispirazione. Intende realizzare un film sul Portogallo contemporaneo, vittima degli effetti della crisi economica, ma non sa collegare un episodio che filma con un altro. Gli viene in aiuto, da Baghdad e dal passato, la principessa Sherazade, che inizia una narrazione favolosa ma concentrata su un Portogallo specchio della globalizzazione, in cui gli uomini, le donne, i bambini e gli animali vivono di orizzonti oltre i quali è impossibile stabilire cosa davvero ci sia. Da tale iniziale blocco d'ispirazione, vengono fuori ben tre film. 

Le mille e una notte       

        

        Tre film, Inquieto - Desolato - Incantato, compongono le sei ore abbondanti di Le Mille e una notte - Arabian Nights (distribuito coraggiosamente dalla Milano Film Network, attraverso uscite mirate, e cadenzate nel tempo), in cui materiali vivi, tratti da persone e fatti realmente accaduti (raccolti su incarico del regista dal lavoro annuale di tre giornalisti), sono orchestrati dalla narrazione di Sherazade (l'attrice Crista Alfaiate), e visualizzati in scope dalla cinepresa di Sayombhu Mukdeeprom (il direttore della fotografia di Apichatpong Weepasethakul). Attori che interpretano più di un personaggio e non-attori che recitano se stessi, il mare di Marsiglia che simula l'arcipelago asiatico in cui si rifugiano Sherazade e le sue ancelle, atmosfere millenarie che intersecano il presente e la sua aria, la fiaba in cui s'incastonano, in costume ma non in maschera, le cose davvero avvenute, questo è il cinema d'autore contemporaneo (che in Italia può andare da Gianfranco Rosi a Pietro Marcello, da Elisa Amoruso a Gianfranco Pannone, da Sergio Basso ad Alina Marazzi), in cui il confine tra fiction e non-fiction è eluso, grazie a  "the methods of news reportage and documentary applied to the fabrication of narrative" (Film Comment).

        La cinepresa di Miguel Gomes viaggia per un anno attraverso il Paese, perché le storie raccolte e selezionate (ma tutte, quelle scartate e le promosse, vengono poi raggruppate in un website apposito, per uso di memoria) siano nuovamente costruite, in un rapporto tra messa in scena e dato di cronaca, in cui spesso è l'intervento finzionale quello meno incredibile, ossia quello utilizzato per smorzare il vero meravigliosissimo del fatto realmente accaduto.

        Nel primo film, Inquieto, si racconta la visita della troika della finanza internazionale in Portogallo, in cammello tra maghi e pietraie (l'episodio meno felice), poi il caso di un gallo posto sotto processo dagli abitanti limitrofi perché cantava fuori orario (caso "vero e meravigliosissimo", con i veri cittadini a recitare se stessi tranne il gallo, una star ormai irraggiungibile anche per il cinema...), e poi il rito degli operai di un'azienda della costa di fare il bagno il 1° gennaio, e le confessioni in macchina di chi ha perso il lavoro o non lo ha mai trovato davvero. L'inquietudine del titolo è quella di una popolazione abbandonata da ammortizzatori sociali che non funzionano più, in preda all'austerità programmata da chi detiene il potere, e il cinema che cerca di essere lì, dove raccontare significa ancora reperire i segni del possibile nelle spire dell'ineluttabile.

        Nel secondo film, Desolato, più compatto, il centro è occupato dallo straordinario episodio del giudice, una donna, chiamata a sentenziare su un reato che a poco a poco ne chiama tantissimi altri, in una sorta di effetto Butterfly della piccola disperata criminalità, tanto da provocarne l'arrendevole pianto. Il processo si svolge di notte, alla luce di tre lune, in un piccolo e raccolto anfiteatro romano, con imputati e testimoni (anche animali) spesso caricati di maschere "tragiche". È il culmine, appunto, della desolazione, perché il giudice, che alla sentenza sostituisce un pianto dirotto per la miseria della condizione umana, è innanzitutto presentato come madre esemplare, in contatto telefonico con la figlia che ha appena ceduto la verginità al proprio uomo, il cui nome però clamorosamente salterà fuori al processo.

        Nel terzo film, Incantato, come dice il titolo, è il canto stesso che prevale, quello di Sherazade, di cui, al di là delle novelle notturne narrate per fermare la mano omicida del sultano, come vuole la tradizione, si segue l'amore solare e felice per un giovane biondo. E poi il canto dei fringuelli, che appassionati cittadini allevano per addestrarli a partecipare a gare canore (che si tramuta in un coro di bambini che chiude il film). E infine può essere anche il canto dell'inno della Rivoluzione dei Garofani (avvenuta nel 1974, che pose fine al regime reazionario di destra vigente in Portogallo), eseguito dalla popolazione per protestare contro un governo supino e passivo nei confronti dell'Europa delle banche.

        Insomma, tale è l'ambizione. Fare delle sei ore abbondanti di Arabian Nights il primo grande film del mondo globalizzato. L'intreccio tra ficition e non-fiction conduce alla destinazione naturale del cinema d'autore, ovvero, per riattivare categorie critiche di cinquanta anni fa (Pasolini/Aprà), un cinema di poesia. All'insegna della poesia, poesia materica (è la materia stessa del mondo, che risuona) proveniente dai materiali della cronaca, il confine tra realtà e fantasia, in un momento, si abolisce. Inesatto, pertanto, parlare, come nella precedente citazione da Film Comment, di sola istanza narrativa. La narrazione può librarsi sulla notizia o sull'informazione (i luoghi tipici, mediatici, della rappresentazione della realtà) solo assumendo forma poetica, che fa, come per esempio avviene in Leopardi, della desolazione il canto della terra e degli esseri viventi, umani e animali, che ancora la compongono.

        Tale cinepresa cantante (nel film quasi tutti cantano canzoni in e over, canta Sherazade, cantano i fringuelli, cantano il vento e le acque, cantano le testimonianze dei disoccupati...) stabilisce la natura del cinema d'autore contemporaneo, che è una natura radicalmente orale. Esaurite tutte le immagini, le figure, i profili, le prospettive e i colori, la cinepresa è un plettro con cui inquadrature, travelling e dissolvenze risuonano nelle maglie e nelle corde altrimenti "mute" della cronaca. Dietro la macchina da presa, più che uno sguardo, così, risuona una voce, che chiede alle immagini, più che osservare e mostrare, di sciogliere, pizzicare e vibrare le "cariche di tensione" (M. Gomes) inscritte nel circuito della realtà globale contemporanea. L'immagine, infatti, in Arabian Nights, non "mostra" quasi mai: né rivela, né scopre, né squaderna. L'immagine, dunque, intona le mille e una "corda" del tessuto sonoro del mondo, che la globalizzazione vuole affievolire fino al silenzio.

        Certo, ciò è parte dell'eredità del neorealismo italiano, che ancora qui si fa sentire. Ormai abbandonato il versante "pieno di grazia" della rivelazione del reale, resta come rinvigorito l'impulso all'oralità di un cinema/reportage (A. Bazin), che è racconto, ma qui e adesso soprattutto canto. Come ogni flusso sonoro della durata di sei ore, in Arabian Nights, ci sono stasi e impennate, picchi e cadute, melodie e rumori. Questo fa parte del destino di un film così teorico, come da tempo non si vedeva. Compiaciuto di se stesso, tendente a non finire mai (le riprese dopo un anno, s'interrompono perché si chiudono i cordoni della borsa): integralmente inscritto nella propria testarda, incaponita, talvolta sfibrante ritualità, che è in fondo il vero obiettivo dell'ispirazione. Come riguardando a Jancsó, o Anghelopoulos, ma anche al Buñuel de La via lattea (Gomes è stato fino al 2000 studioso e critico cinematografico), la tecnica e il rito del cinema puntano diritti a un'antropologia, che è l'esito contemporaneo del pensiero occidentale, vedi le Sfere di Peter Sloterdijk. Il canto dell'uomo sulla Terra, della vita e della morte, nelle forme e nei modi che le strutture del Potere accettano o soffocano.

          Spetta così al cinema, a un secolo dalla nascita, raffigurare una sfera antropologica sonora, per dare voce al canto: come scrive McLuhan, "la sfera complessiva e oscillante dello spazio uditivo, il cui centro è ovunque, e la cui estensione non è in nessun luogo". Così avviene in Arabian Nights: i giornalisti inviati dal regista che ascoltano storie, il regista che le ascolta a propria volta e le seleziona, e dichiarandosi incompetente affida il racconto al suono vocale di Sherazade, la quale introduce le voci delle persone/personaggi, che riecheggiano lo spazio e il tempo in una geografia e in una cronologia illimitate e simultanee, che affidano al sentire dello spettatore qualunque ipotesi d'itinerario o pellegrinaggio.

        E' stato detto, discutendo del film, che, in materia d'arte, tale è la direzione in cui il cinema va. Mi limito volentieri a precisare che questa, dell'arte, è la situazione in cui il cinema sta. (Flavio De Bernardinis)

 

 


SegnoFilm n. 198

Carol
(Carol)

Regìa: Todd Haynes             Orig.: U.K., 2015

Sogg.: basato sul romanzo The Price of Salt di Patricia Highsmith. Scenegg.: Phyllis Nagy. Fotogr.: Ed Lachman. Musica: Carter Burwell. Mont.: Affonso Goncalves. Scenogr.: Judy Becker. Costumi: Sandy Powell. Suono: Geoff Maxwell. Eff. Vis.: Goldcrest, the Mill. Interpr.: Cate Blanchett (Carol Aird), Rooney Mara (Therese Belivet), Sarah Paulson (Abby Gerhard), Jake Lacy (Richard Semco), John Magaro (Dannie McElroy), Cory Michael Smith (Tommy Tucker), Carrie Brownstein (Genevieve Cantrell), Kevin Crowley (Fred Haymes), Nik Pajic (Phil McElroy), Kyle Chandler (Harge Aird). Prod.: Film4/StudioCanal/Hanway Films/Goldcrest/Dirty Films/InFilm pres./Karlsen/Woolley/Number 9 Films/Killer Films/Larkhark Films Limited prod. Distr.: Lucky Red. Durata: 118 min.        

New York, 1952. Therese, giovane e timida commessa di umili origini, nota fra i suoi clienti l’affascinante Carol, madre e moglie sulla via del divorzio. Tra le due nasce prima un’inconfessata attrazione, poi una frequentazione rischiosa, poiché Carol, con alle spalle un’altra relazione omosessuale, potrebbe perdere l’affidamento della figlia. Imprudentemente decide di aspettare il processo concedendosi una fuga romantica con Therese. Ma l’ineluttabile le attende al varco... 

Carol       

        

        Nel long take di apertura che mette in campo una New York poco rassicurante, fosca e fumosa, degna di un dipinto di Edward Hopper, la regìa pedina un passante, un personaggio inconsistente nell’economia narrativa del film, ma in grado d'invadere ben presto le vite delle protagoniste e di minare una ricomposizione degli affetti. È il destino di quasi tutti gli uomini che popolano Carol, prevedibili e ottusi, insensibili e vendicativi, mediocri ma rovinosi. Senza astio né polemica, Haynes affresca due universi - maschile e femminile - non comunicanti e mette in scena il tentativo da parte di Carol e Therese di dimenticare, con approcci e sensibilità differenti, le opprimenti convenzioni dell’America perbenista degli anni Cinquanta che condanna l’omosessualità.

        Dopo il fluido incipit la cinepresa si focalizza su Therese, ispirandosi alla raffinata scrittura di David Lean in Breve incontro, uno dei numerosi film di cui è intessuta la cinefilia di Carol, frutto della puntigliosa conoscenza di Haynes del mélo, già sperimentato nell’acclamato Lontano dal paradiso. In particolare, Viale del tramonto, paradigma di molto cinema contemporaneo, che Therese vede con gli amici, sembra aver suggerito la struttura circolare dell’opera con flashback incastonato, così come alcune venature noir. La rievocazione della storia d’amore, meccanismo caratterizzante il mélo, pare innescarsi dalla memoria di Therese, ma non le appartiene propriamente, come denotano alcuni momenti della vicenda di Carol di cui la giovane non può essere a conoscenza. Ella, tuttavia, si configura come il personaggio privilegiato di una narrazione che sovente assume il suo punto di vista per disvelare percorsi di senso.

        Le ricorrenti soggettive di Therese su Carol, che inaugurano il loro primo incontro ai grandi magazzini, designano la donna matura come oggetto del desiderio della ragazza, la cui propensione alla visione è già connaturata in sé e tangibile nel talento per la fotografia. Tra gli scatti d’autore di cui sarà inevitabile protagonista Carol, la contemplazione di un trenino elettrico, il trasporto per i film e per la musica, la fascinazione per i paesaggi sconosciuti della provincia più profonda, emerge una mente sensibile, elettrizzata e trasognata, che nell’omonimo libro di Patricia Highsmith sconfina anche in fantasticherie pericolose.

        Con meticolosità ed eleganza Haynes lavora sui dettagli e sulle minime misure registiche per raccontare un coinvolgimento sbilanciato, in cui la controparte, Carol, svolge un ruolo di potere che esercita con gentilezza borghese, come raffinata conquistatrice e come magnifica ossessione. Cate Blanchett costruisce infatti il suo personaggio con vezzi seduttivi, come allontanare una ciocca di capelli o maneggiare oggetti (i guanti, le sigarette, gli assegni, un Martini) di cui la proletaria Therese non dispone. Più che una storia di passione (saffica), è un intimistico e sfumato viaggio su quella crescita e su quella presa di coscienza del mondo che solo la delusione del primo innamoramento può favorire. L’abbandono fiducioso di Therese all’altra è così totale e accecante da non concedere neppure opportunità di protagonismo, fin dal titolo.

        Therese Belivet. Un nome che Carol ripete e assapora come Humbert Humbert nelle righe iniziali di Lolita, romanzo che trova più corrispondenze nella seconda parte dell’opera, quando la più matura sradica la giovane compagna dal suo modesto appartamento e la trascina con sé verso ovest, in una fuga di libertà. È una delle numerose mosse con cui Carol con spontanea sicurezza riesce a catturare Therese nello sterile ambiente luccicante di cui è padrona assoluta, tanto da dominarne lo spazio: sovente Haynes incornicia Blanchett con stipiti o finestrini per alimentare il senso di generale claustrofobia e soprattutto per rimarcare la distanza sociale che Therese deve percorrere. I campi e i controcampi che la regìa privilegia, a discapito dei piani d’insieme, per filmare i progressivi sviluppi della loro relazione accentuano la frammentazione dello spazio amoroso. Inoltre, nella villa di Carol la collocazione di Therese in uno spazio subalterno rispetto a quello della signora e di suo marito concorre a definire un sostrato politico più recondito, in cui l’opposto tentativo di Therese d'irrompere nell’ambiente di Carol e di attirarla nel suo mondo è abbozzato in un finale sospeso, con un vertiginoso sguardo in macchina della Blanchett: polisenso ed enigmatico, memore di Harriet Andersson in Monica e il desiderio di Bergman.

        Nelle ultime scene Haynes inverte il gioco delle visioni, poiché Carol, a cui l’attrice conferisce vibrazioni di mascolina ambiguità nello strumentalizzare la giovane come un simulacro della figlia perduta, scruta a sua volta l’altra e diventa un soggetto desiderante, implorante e fragile. Il rovesciamento dei ruoli coincide con la maturazione emotiva di Therese e culmina in un suo rifiuto che scaturisce dall’esperienza dell’indifferenza e dell’abbandono; qualche dono, però, permane: le foto artistiche che l’hanno promossa da venditrice di balocchi a giornalista professionista (in un metaforico passaggio dalla fanciullezza all’età adulta) e un’inedita reazione d'intraprendenza.

        Rooney Mara ritrae una giovane “fuori dallo spazio” (letteralmente), ma non dal tempo, poiché sul suo volto appuntito e diafano si affacciano le inquietudini giovanili degli anni futuri e fluttuano la febbrilità, le titubanze, le inadeguatezze, le speranze di chi cerca il riconoscimento di se stesso nell’altro. Il cinema di Haynes, del resto, è un cinema dell’identità, di cui il Bob Dylan di Io non sono qui e Therese sono cittadini onorari. Una recitazione d'incandescente interiorità che affiora in pose composte, sguardi pudichi, voce sussurrata, con lievi e rispettosi cenni a un passato solitario e infelice. Le magnetiche interpretazioni si sommano alla perizia fotografica di Ed Lachman, che con la costumista Sandy Powell lavora sul verde e sul rosa dai toni pallidi e decadenti e sfrutta questa cifra cromatica per suggerire le disposizioni d’animo delle due donne e per dipingere un’America crepuscolare.

        Dunque un film perfetto, in cui ogni elemento della messinscena risulta studiatissimo ed estetizzante. Per questo motivo Carol lascia un retrogusto di insoddisfazione, in balìa del sospetto di un esercizio virtuosistico e compiaciuto, di una rifinitura così controllata da apparire artificiosa e laccata, non corrispondente alla vita. Si percepisce l’assenza di una deviazione delle aspettative, di un debordante fremito di trasgressione, di un’aspirazione a eternare questa passione; meriti in possesso invece dell’ineccepibile In the Mood for Love di Wong Kar-wai. Un verso di Wislawa Szymborksa parla di “idiozia della perfezione”; l’opera di Haynes elude l’idiozia, ma non rasenta la grandezza a cui ambisce. (Martina Volpato)

 

GOING WEST

        Ancora geografia che diventa mito nell'andare verso ovest di Carol e Therese per dare ampiezza al loro innamoramento, dopo il segnale di via libera del trenino elettrico galeotto. E ancora  mancanza di un centro, di un luogo di appartenenza che non sia nell'incontro tra anime che si sentono straniere, e prigioniere, tra i muri di una casa. Ma anche coazione a ripetere per il cinema americano, sulle piste di una frontiera eternamente mobile, sulle tracce di un sempre sfuggente sogno di libertà, alla ricerca, dentro l'enorme archivio di film "sulla strada" di personaggi, spazi, stereotipi, figure di senso, dispositivi scenici per un'erranza ancora possibile.

        Dopo la fine dei generi, e in particolare di quello topologico per eccellenza - il western - il viaggio continua a riaffiorare, accompagnando non solo il movimento nello spazio (tra carte geografiche da decifrare, chilometri di nastri stradali da srotolare, improbabili località da ricordare, con il corredo di stanze d'albergo, reception e diner di volta in volta anonimi, confortevoli, squallidi che segnano le varie tappe, che marcano incontri imprevedibili, passaggi rischiosi, richiami a ciò che si è lasciato alle spalle), ma sottolineando anche il girovagare attraverso  il tempo di una lunga tradizione cinematografica mai stanca di farci scorrazzare da una parte all'altra degli States.

        Rimanendo alla coppia femminile, immersa da Haynes nelle stereotipate atmosfere dei '50, non sfugge il rimando al film simbolo della trasgressione che Ridley Scott nei primi anni '90 trasforma in una sorta di summa “alla rovescia” dei generi del viaggio. Thelma e Louise, caratterizzate inizialmente nei ruoli contrapposti d'ingenua acquiescente e problematica dominante, tra gangster e western movie, sfuggono al mondo opprimente e gretto, dominato dal maschile, della provincia, a bordo di una decapottabile che le conduce dentro la grandezza leggendaria del paesaggio americano; Carol e Therese nei panni, l'una di un'enigmatica e tristissima femme fatale, l'altra di un'incantata e spiazzante adolescente, vanno melodrammaticamente incontro alla loro Waterloo (nello Iowa...) dopo aver esplorato lo sconfinato spazio dei corpi e dei sentimenti, lontano dai rigori newyorkesi.

        Ad accomunare queste donne la voglia di affermare la propria identità, il coraggio di lasciar andare pezzi importanti di vita non scelta, la complicità solidale che si materializza nel dettaglio di una mano ferma su una spalla prima della separazione al ristorante o di dita che s'intrecciano prima del salto nel vuoto. (Daniela Zanolin)

 

 


SegnoFilm n. 197

Francofonia
(Francofonia)

Regìa: Alexandr Sokurov             Orig.: Fr./Germ./Ol., 2015

Sogg. e Scenegg.: Alexandr Sokurov. Fotogr.: Bruno Delbonnel. Musica: Murat Kabardokov. Mont.: Alexei Jankowski, Hansjörg Weissbrich. Costumi: Colombe Lauriot Prevost. Suono: Ansgar Frerich. Interpr.: Louis-Do de Lencquesaing (Jacques Jaujard), Benjamin Utzerath (Franz von Wolff-Metternich), Vincent Nemeth (Napoleone Bonaparte), Johanna Korthals Altes (Marianne). Prod.: Pierre-Olivier Bardet, Thomas Kufus e Els Vandevorst, per Idéale Audience/Zero One Film/N279 Entert./Arte France Cinéma/Le Musée du Louvre. Distr.: Academy Two. Durata: 87 min.        

Il 14 giugno del 1940 l’esercito nazista entra a Parigi. Il conte Franz von Wolff-Metternich, emissario del Führer, si reca in visita presso il direttore del Louvre Jacques Jaujard. La passione per l’arte unisce Metternich e Jaujard più di quanto le differenze ideologiche li dividano. I due uomini finiscono così per collaborare al fine di preservare le collezioni del Louvre dai bombardamenti e dai saccheggi. 

Francofonia       

        Chissà perché, nel filmare la vicenda di Metternich e Jaujard - il tedesco e il francese impegnati a salvare i tesori del Louvre durante l’occupazione nazista di Parigi - Alekandr Sokurov decide di fare ricorso al formato 4:3 e di lasciare visibile la colonna sonora sulla sinistra dello schermo. Forse si tratta di un modo per distinguere, anche visivamente, questa specie di biopic, che ha cadenze da vecchio sceneggiato, dai tanti altri fili che s'intrecciano a formare Francofonia. Fra le varie vicende messe in scena, vi è innanzitutto la concitata video-chiamata fra Sokurov, seduto alla scrivania di casa propria, e un tale Dirk, il capitano di una nave che trasporta preziose opere d’arte solcando il mare in tempesta. Questo plot marinaresco è soltanto abbozzato, ma consente comunque a un altro avatar di Sokurov - la voce narrante - d'illustrare l’analogia fra la storia dell’umanità e il mare in tempesta e di suggerire un’ulteriore metafora: “un essere umano ha un oceano in lui”.

        La voce narrante di Sokurov è in effetti il principale collante fra materiali eterogenei che costituiscono Francofonia: il dispositivo mediante cui il cineasta riflette sul film stesso, esplicitando una dimensione meta-cinematografica che le immagini occasionalmente esibiscono a loro volta, ad esempio quando rivelano i ciak. Insomma, Francofonia non è tanto un film sul Louvre quanto piuttosto un film su un cineasta cui è stato commissionato un film sul Louvre, e che s'interroga su quel che potrebbe o dovrebbe fare, affastellando una varietà di materiali preparatori - poi assemblati dal montaggio e raccordati dalla voce narrante. Fra questi materiali vi sono sia i filmati di repertorio che registrano l’ingresso dei nazisti a Parigi, sia le riprese della Parigi odierna trasfigurate dalla fotografia fiabesca di Bruno Delbonnel e dal ricorso agli effetti digitali. In certi momenti particolarmente riusciti le immagini del presente e quelle del passato sembrano fondersi in un’unica dimensione sovratemporale, come ad esempio nella lunga panoramica a 360 gradi all’esterno del Louvre - uno dei passaggi più convincenti del film.      

        In altri passaggi il ricorso al digitale trasforma invece il film in uno slideshow d’autore, ad esempio quando si mostra una cartina geografica con la svastica a indicare i territori francesi occupati dai nazisti, oppure quando il maresciallo Pétain viene ritagliato dall’interno di un video e trasferito in una diapositiva. Anche le visite guidate al Louvre hanno un che di eccessivamente didascalico, sebbene Sokurov s'ingegni a proporre alcuni percorsi tematici, come ad esempio i dipinti meta-pittorici sul Louvre medesimo, i quadri su Napoleone, oppure i reperti delle antiche civiltà mediorientali. Per vivacizzare i passaggi più didascalici, Sokurov ricorre a due abitanti immaginari del museo, la Marianne e Napoleone, ma questa duplice inserzione oscilla pericolosamente fra l’umorismo che non fa ridere e il kitsch involontario, e pare un po’ stonata se confrontata con la ricercata solennità del resto del film.

        Una parte importante di Francofonia è consacrata alle riflessioni di Sokurov sul parallelismo fra l’invasione nazista della Francia e quella della Russia. Qui il film si fa più interessante perché la voce narrante abbandona i panni d'imperturbabile e un po’ pedante dispensatore di sapere, assumendo un tono più accorato, a tratti polemico, ma comunque sincero. Anche le immagini, nel passaggio da Parigi a San Pietroburgo, guadagnano in schiettezza e vigore. I tedeschi hanno invaso la Francia per incorporarla - sostiene Sokurov - mentre hanno invaso la Russia per distruggerla. L’Hermitage non ha avuto il suo Metternich, il suo Schindler dei beni culturali: il popolo russo ha salvato l’Hermitage, e la propria patria, soltanto con le proprie forze. Non è dunque lecito comparare la sofferenza in minore della Francia a quella - decisamente più tragica - della Russia. D’altra parte, Napoleone aveva a sua volta cercato di annientare la Russia, con un secolo di anticipo su Hitler. La vera contrapposizione, per Sokurov, non è dunque quella della Francia contro la Germania, bensì quella della Francia e della Germania, con la loro idea condivisa di Europa, contro la totale alterità della Russia.

        Francofonia è attraversato da un capo all’altro da questa tensione. Da una parte Sokurov celebra le figure di Metternich e Jaujard, il tedesco e il francese separati dalla realtà della guerra ma uniti dall’ideale dell’arte. Dall’altra, Sokurov contrappone se stesso, in quanto cineasta cantore dello spirito russo, alla cultura europea di cui Metternich e Jaujard sono entrambi esponenti. Questa tensione raggiunge il suo culmine, e infine il suo scioglimento, nel momento in cui Metternich e Jaujard, dopo essere riusciti a salvare il Louvre dalla devastazione, si ritrovano in una specie di macchina del tempo, dove incontrano letteralmente la voce narrante di Sokurov che, con benevolenza mista a ironia, illustra loro il futuro che li attenderà nel dopoguerra. Questo finale sancisce quel che d’altronde era già ben chiaro fin dall’inizio: l’ego smisurato del cineasta sovrasta l’individualità storica dei personaggi, dei luoghi e degli eventi. Che si tratti di Metternich o Jaujard, del Louvre o della Seconda guerra mondiale, tutto quanto scolorisce al cospetto della voce che dice: io. Francofonia è un film che ha per soggetto essenzialmente il suo autore. (Enrico Terrone)

 

 


SegnoFilm n. 196

Inside Out
(Inside Out)

Regìa: Pete Docter, Ronnie Del Carmen             Orig.: U.S.A., 2015

Sogg.: Pete Docter, Ronnie Del Carmen. Scenegg.: Pete Docter, Meg LeFauve, Josh Cooley. Fotogr.: Patrick Lin. Musica: Michael Giacchino. Mont.: Kevin Nolting. Scenogr.: Ralph Eggleston. Suono: Ren Klyce. Interpr.: Personaggi in animaz. digit. Prod.: Jonas Rivera, per Walt Diseny Pictures pres./Pixar Animation Studios prod. Distr.: The Walt Disney Company Italia. Durata: 95 min.        

Il cervello umano è regolato da cinque Emozioni (Gioia, Tristezza, Paura, Disgusto e Rabbia), che a una console gestiscono i sentimenti e i ricordi di ognuno di noi. Nell’undicenne Riley si crea un pericoloso scompiglio quando, dopo un traumatico trasloco dal Minnesota a San Francisco, un incidente determina la scomparsa di Gioia e Tristezza. Per tornare al quartier generale e scongiurare lo stato di apatia di Riley, le due dovranno compiere un viaggio nella mente alla scoperta del Treno dei Pensieri, della Cine-Produzione Sogni, del Subconscio, della Memoria a Lungo Termine e di molti eccentrici personaggi. 

Inside out       

Ad un cuore spezzato
nessun cuore si volga
se non quello che ha l’arduo privilegio
d’avere altrettanto sofferto
(Emily Dickinson)

       “Quando penso a mia moglie penso sempre alla sua testa. Immagino di aprirle quel cranio perfetto e di srotolarle il cervello”. L’incipit di uno dei titoli migliori della scorsa stagione, L’amore bugiardo, sembrerebbe trovare un ideale e alquanto involontario interlocutore nell’ultimo evento planetario di Disney-Pixar, Inside Out, pur nella bizzarria che distanzia le ossessioni di un marito spacciato e i dilemmi comuni di una ragazzina in crescita. Se in Fincher gli interrogativi d’apertura fluttuano sospesi e inquietanti dopo una burrasca di ambiguità e l’enigma del femminino rimane illeso nella sua ieraticità, il film d’animazione gioca con il disvelamento di fantasiosi meccanismi celebrali all’insegna del canonico e colorato intrattenimento per adulti e bambini. Emerge infatti il tentativo di rivolgersi a un pubblico più anagraficamente trasversale possibile, una strategia caratterizzante il collaudato marchio Disney-Pixar insieme al connubio tra un immaginario meraviglioso, fanciullesco e pop e una dose di condivisibile saggezza che diventa talvolta poesia.

        Con una maturazione significativa però, poiché Inside Out è un prodotto per lo più comprensibile da parte degli spettatori adulti, in grado di cogliere il velo metaforico che avvolge quella disavventura emotiva che è il passaggio sfuggente dall’infanzia all’adolescenza, i cui futuri sviluppi sono accennati con inconsapevole sarcasmo in un finale che prenota un possibile sequel. Ma in Inside Out il percorso di formazione è duplice e complementare e coinvolge, oltre Riley, una delle cinque Emozioni, Tristezza, che solo alla fine si erge a sorpresa come unica dea ex machina e vera protagonista; esclusa dal podio gestionale e accudita con commiserazione, troverà la sua nobile e mite rivalsa regalando alla ragazza un pianto liberatorio e salvifico. Proprio la coppia Gioia-Tristezza (un ossimoro che ritorna nel titolo) personifica la morale deduttiva secondo cui nella vita tra felicità e sconforto s'istaurano sfumate contaminazioni e addirittura una paradossale dipendenza della prima dalla seconda: ne deriva un sereno elogio della tristezza come presupposto cognitivo essenziale per il godimento del suo opposto, ma anche come veicolo dell’espressione dell’io.

        Una tesi senza dubbio evolutiva rispetto alla leggerezza conclusiva del primo lungometraggio di Docter, Monsters & Co., in cui il sistema produttivo di emozioni infantili finiva per privilegiare l’ilarità più disinvolta alle paure primordiali, e anche rispetto all’invito di Up di liberarsi letteralmente dell’ingombrante bagaglio di un dolente passato per un ritorno a nuovi affetti. Inoltre, il discorso psicanalitico si apre a risvolti più profondi, nella caratterizzazione della sonnacchiosa e impacciata Tristezza come adiuvante acculturata, perspicace, buffa e malinconica, nonché come genuina terapeuta distante dall’irritante retorica ottimista di Gioia. In questo modo, una delle maggiori industrie mondiali nell’audiovisivo si rivela fautrice di una voce impopolare dai sottintesi politici inediti, contraria all’imperialismo della positività e del successo, alla logica di rimozione forzata e conformista del malessere, alla non-condivisione di un dolore.

        In compenso, la contagiosa vivezza di Inside Out, che ha come antecedente il corto disneyano Reason and Emotion (1943), risiede nella forza di scrittura di altri fluorescenti personaggi comici ed empatici nella loro ironica tipizzazione, che devono molto ai cartoon di Tex Avery, Chuck Jones, Jack Kinney e ai fumetti, in particolare ai Peanuts nel duo anomalo protagonista, ricalcato sulla complicità tra l’esuberante Piperita “capo” Patty e l’occhialuta Marcie e memore anche di altre stridenti coppie della Pixar Animation Studios. La sceneggiatura si sposa favorevolmente con l’apparato iconografico di magistrale perizia tecnica e di estro creativo, nella figurazione libera e visionaria delle dinamiche della psiche, scevra delle contorsioni intellettuali di Charlie Kaufman e non insensibile alle ricerche scientifiche. Infatti, come dichiarato dagli autori, questo universo fantasmagorico con tanto di catabasi nel Subconscio, oltre che dai testi di Freud e Jung, nasce dalla consulenza di neurologi e psichiatri e la critica statunitense ha già colto un dialogo con gli studi di Damasio e Sacks.

        Inoltre, in un film che innesca lievi strategie di introspezione offrendo un quadro variopinto e confortante su una realtà insondabile, si stagliano due memorabili trovate registiche. La prima è la correlazione tra film e sogni (girati in uno studio hollywoodiano da troupe sgangherate degne di Boris), un’intuizione gustosamente inscenata ma non originale vista la vasta bibliografia sull’argomento: piuttosto, si apprezza l’esattezza di Docter & Co. di proiettare il materiale onirico sullo schermo del quartier generale, in cui le Emozioni sono spettatrici, poiché, come scrive Borges nel Libro dei sogni: “l’anima quando sogna, libera dal corpo, è al tempo stesso il teatro, gli attori e il pubblico... è anche autrice della storia a cui assiste”. In secondo luogo, la sequenza in cui, nella sezione del Pensiero Astratto, i personaggi subiscono un’angosciosa metamorfosi di destrutturazione fino a ridursi a mere forme geometriche colorate sembra ripercorrere il cinema astratto d’animazione, detto assoluto, nato negli anni Dieci e Venti in Germania: pellicole di ascendenza pittorica e d’avanguardia, che trovano come esponenti Viking Eggeling con Diagonal Symphonie (1924) e Oskar Fischinger con An Optical Poem (1938), futuro curatore visivo di Toccata e fuga in Re minore di Bach in Fantasia di Disney.

        Un capitolo di storia del cinema d’animazione incastonato in un’opera che per ingegnosità del soggetto, raffinatezza di idee, virtù tecniche e forza così visionaria da sconfinare nella mitologia popolare è già una tappa irreversibile di questo percorso filmico. (Martina Volpato)

 

 


SegnoFilm n. 194

Il racconto dei racconti

Regìa: Matteo Garrone             Orig.: Ital./Fr./U.K., 2015

Sogg.: liberamente tratto da Lo cunto de li cunti di Giambattista Basile. Scenegg.: Edoardo Albinati, Ugo Chiti, Matteo Garrone, Massimo Gaudioso. Fotogr.: Peter Suschitzky. Musica: Alexandre Desplat. Mont.: Marco Spoletini. Scenogr.: Dimitri Capuani. Costumi: Massimo Cantini Parrini. Suono: Leslie Shatz. Eff. Spec.: Leonardo Cruciano Workshop, Makinarium. Interpr.: epis. La regina: Salma Hayek (Regina di Selvascura), John C. Reilly (Re di Selvascura), Christian Lees (Elias), Jonah Lees (Jonah), Alba Rohrwacher (Circense), Massimo Ceccecherini (Circende), Laura Pizzirani ), Franco Pistoni (Negromante); epis. La pulce: Toby Jones (Re di Altomonte), Bebe Cave (Viola), Guillaume Delaunay (l'Orco), Eric MacLennan (Medico), Nicola Sloane (Damigella); epis. Le due vecchie: Vincent Cassel (Re di Roccaforte), Shirley Henderson (Imma), Hayley Carmichael (Dora), Stacy Martin (la giovane Dora), Kathryn Hunter (Strega), Renato Scarpa (Barbiere). Prod.: Matteo Garrone, Jeremy Thomas, Jean e Anne-Laure Labadie, per Archimede/Le Pacte/Rai Cinema/Recorded Picture Company. Distr.: 01 Distribution. Durata: 128 min.        

Il film s'ispira a tre favole de Lo cunto de li cunti di Giambattista Basile. La cerva fatata: la regina di Selvascura partorisce l’agognato figlio dopo aver mangiato il cuore di un drago. A procurarglielo è il re suo marito, che muore nell’impresa, e a cucinarlo è una serva che resta anche lei incinta. I due figli del drago, gemelli albini, crescono legati da un profondo affetto che la regina tenta invano di ostacolare. La vecchia scorticata: il re di Roccaforte s'innamora della voce di una donna, ma quando si accorge che si tratta di una vecchia la fa buttare dalla finestra. Una maga le ridona la bramata giovinezza, il re la sposa e la sorella si fa scorticare credendo fosse quello il modo per ritornare giovane. La pulce: il re di Altomonte, più interessato ad allevare una pulce che ai bisogni della figlia Viola, lascia che sia un orco a sposarla, salvo poi pentirsi e cedere la corona alla fanciulla che intanto ha ucciso l’orco.

Il racconto dei racconti       

       

 “Quello che voi avete mangiato è stato veramente il cuore… che io con queste mani strappai” (Boccaccio, Decamerone, IV, 9)

 

       Matteo Garrone, senza soluzione di continuità, prosegue la propria indagine sulla “mostruosità” attingendo non più alla cronaca nera (L’imbalsamatore, Primo amore), alla criminalità mafiosa (Gomorra) al trash televisivo (Reality), ma all’arcaico mondo delle fiabe. L’effetto di “meraviglia” che suscita la scrittura barocca di Basile, così ricca di metafore e di invenzioni sorprendenti, è resa mirabilmente dal regista attraverso la sontuosità e la bellezza delle immagini. Non più gli ambienti degradati del Villaggio Coppola e di Scampia, ma l’eleganza del Castello di Donnafugata col suo labirinto di pietra, il castello di Roccascalegna aggrappato alla cima di una sporgenza rocciosa, Castel del Monte con le sue mura compatte e le perfette geometrie, le ammalianti Gole dell’Alcantara e tanti altri luoghi reali ma fotografati con maestrìa in modo da apparire irreali e fiabeschi.

       Eppure dentro tanta bellezza, emergono i temi da sempre masticati da Garrone: la violenza, la volontà di dominio, la manipolazione dell’altro, la trasformazione dei corpi. Così il regista finisce col “manipolare” lo stesso contenuto delle fiabe che si incupisce, si tinge di horror e irrimediabilmente si perdono le gioiose bizzarrie, l’ingenuo candore e la leggerezza che attraversano le pagine de Lo cunto de li cunti. L’opera di Basile aveva la stessa funzione che avevano i teatranti di strada, i giullari, gli acrobati: intrattenere le corti e sollecitarne il riso. Nel “cunto” d’apertura - che genera gli altri “cunti” - si narra di una principessa triste che il padre tenta di far ridere chiamando “quelli che camminano sui bastoni, che saltano nel cerchio… giullari… giocolieri”. In tal senso è assai significativo che il film cominci proprio con l’immagine dei circensi che dalla strada si ritrovano a Palazzo per far ridere con lazzi e acrobazie la regina sterile.

       Un eccellente lavoro di sceneggiatura unisce i personaggi delle favole in due momenti diversi: dietro al feretro del re di Selvascura sfilano nelle carrozze la vedova-regina, l’infoiato re di Roccaforte con due amanti, il re di Altomonte con la figlia piccola vezzeggiata con lo stesso nomignolo che sedici anni più tardi rivolgerà alla pulce; nel finale, quando i personaggi si ritrovano alla festa dell’incoronazione di Viola. A legare le fiabe sono però soprattutto i circensi presenti in tutte e tre le corti: saltimbanchi, sputafuoco, domatori di orsi. Il regista contrappone il mondo fantasioso ricco di colori e di movimento dei circensi alla staticità degli uomini di corte, spesso brutti, grassi, nani, vestiti di scuro con le rigide gorgiere come in certi ritratti di gruppo tipici della pittura olandese del Seicento.

       La cultura popolare è trasformata in festa aristocratica per ridare vigore alla cultura di una corte ingessata e sterile; a essere incinta è la circense e il suo ventre gravido indispone la regina. Il punto di vista de La cerva fatata è pertanto spostato: non è l’uomo a essere assillato dal desiderio di diventare padre, ma la donna, affetta da merversion[1], la fissazione di diventare madre prescindendo dal legame amoroso; un’ossessione sempre esistita e oggi maggiormente assecondata dalla possibilità di procreare senza l’incontro sessuale dei corpi. La donna, pur bella, è ritratta nella sua mostruosità: lascia che il marito intraprenda l’impresa pericolosa di uccidere il drago (nella fiaba di Basile l’uomo non ha il compito di farlo e resta in vita), non batte ciglio quando lo vede morto sulla spiaggia o quando ne segue il feretro; mangia il cuore del drago, un enorme muscolo rosso e viscido e il suo volto, insozzato di sangue, è messo in contrasto con il nitore degli stucchi moreschi.

       Diventata madre, sottomette il figlio al proprio godimento. Il labirinto è il simbolo della prigione affettiva nel quale lo insegue e vorrebbe recluderlo, ma il ragazzo trova i suoi spazi di libertà e con il fratello nuota e respira nell’acqua, là dove il drago bianco aveva la sua dimora. La donna è disposta anche ad uccidere: con una mazza di ferro si aggira fra le carni macellate sotto sale, si trasforma in un gigantesco pipistrello - nella fiaba a minacciare la vita dei fratelli è invece un orco nelle sembianze di una cerva - ma alla fine è lei a rimanere uccisa: la sagoma della donna si delinea mentre si sfaldano le membra dell’orrido volatile e, accovacciata come un bimbo, suscita uno sguardo pietoso; lo stesso che il regista rivolgeva al corpo-feto del tassidermista inerme e senza vita nel finale de L’imbalsamatore.

       Ne La vecchia scorticata il mostro contro cui combattere è la vecchiaia. L’ossessione della giovinezza,  antica come il mondo è oggi più che mai foraggiata dalla possibilità di interventi “miracolosi”, non importa quanto invasivi e dolorosi. Il regista esaspera i tentativi di una delle due sorelle per rendersi appetibile agli occhi del re. Non si limita a succhiarsi il dito o a tenere la pelle tirata e legata con uno spago dietro le spalle come nella fiaba, ma si piaga il corpo con bolliture e colle. Il volto scorticato della sorella è un altro volto femminile sfigurato e sanguinante come quello della regina e come quello tragico e dolente di Viola, di ritorno a casa con la testa dell’orco che consegna al padre come a restituirgli la sua parte malata contro cui ha dovuto lottare.

       Se ne La pulce la fanciulla si salva grazie ai poteri magici, nel film è salvata da se stessa: l’innocente fanciulla, come uscita da una tela di Vermeer, si trasforma nella tremenda Giuditta che taglia la testa a Oloferne e la Bestia, per un attimo intenerita dall’abbraccio della sua Bella, si lascia ingannare e muore. La favola si carica nel film di una ferocia insostenibile quando i circensi, accorsi con generosità per salvare la fanciulla dall’abisso, vengono trucidati dall’orco; è come se a essere uccisa fosse l’innocenza, la possibilità di gioire e di ridere. Lo sguardo della madre dei saltimbanchi, seduta nel carrozzone, ricorda per un momento lo stupore e lo sgomento della Gelsomina felliniana.

       Anche ne La vecchia scorticata la fine non è lieta: la donna, pur avendo goduto dei piaceri della giovinezza, ritorna vecchia e si allontana dalla festa. La sua metamorfosi è visibile e immediata come nella vecchia-giovane-vecchia protagonista de I vampiri di Mario Bava, il maestro di geniali trucchi cinematografici prima dell’era digitale alla cui tradizione Garrone s'ispira. Le creature mostruose de Il Racconto dei racconti suscitano meraviglia in quanto “vere”: non si tratta di computer-generated imagery, ma di mostri costruiti in maniera artigianale ai quali solo in seguito sono stati aggiunti ritocchi digitali. Il drago, più che richiamare quelli appiattiti de Lo Hobbit, di Harry Potter o di Game of  Thrones , rimanda al drago realizzato da Rambaldi per il film Sigfrido; così come il gigantesco orco ricorda il Polifemo di Bava nell’Odissea televisiva. La scena dell’uccisione del drago, girata all’insegna della lentezza - l’immersione del re con lo scafandro, il suo muoversi goffo, la visione offuscata dall’elmo - ha affinità non tanto con gli odierni film d’azione, ma con le magìe infantili dei film di Karel Zeman.

       La scena finale si svolge nel cortile di Castel del Monte. La forma ottagonale, nel suo essere né quadrato né cerchio, simboli della terra e del cielo, segna il passaggio dall’una all’altro. E verso l’alto guardano i personaggi dove, su un filo infuocato, avanza un funambolo. La scena è struggente, ricorda Chaplin, esilarante funambolo ne Il circo, e l’indimenticabile Matto ne La strada di Fellini. Il funambolo è immagine perfetta della bellezza e della fatica del vivere, dell’inesausta ricerca di un equilibro per non cadere nel vuoto del non senso. Il regista lo inquadra solo per alcuni istanti e la brevità, il filo che brucia aggiungono alla “meraviglia” che suscita l’immagine, lo sgomento per il suo rapido dissolversi. (Eliana Elia)

 

[1] Neologismo adottato da J.-P. Lebrun, esito della crasi di mère e perversion. Cfr.: M. Recalcati, Le mani della madre, Feltrinelli, 2015, p. 78.

 

 


SegnoFilm n. 193

Mia madre

Regìa: Nanni Moretti             Orig.: Ital./Fr., 2015

Sogg.: Gaia Manzini, Nanni Moretti, Valia Santella, Chiara Valerio. Scenegg.: Nanni Moretti, Francesco Piccolo, Valia Santella. Fotogr.: Arnaldo Catinari. Musica: brani di Arvo Pärt. Mont.: Clelio Benevento. Scenogr.: Paola Bizzarri. Costumi: Valentina Taviani. Suono: Alessandro Zanon. Interpr.: Margherita Buy (Margherita), John Turturro (Barry Huggins), Giulia Lazzarini (Ada), Nanni Moretti (Giovanni), Beatrice Mancini (Livia), Stefano Abbati (Federico), Enrico Ianniello (Vittorio), Anna Bellato (attrice), Tony Laudadio (produttore), Lorenzo Gioelli (interprete), Pietro Ragusa (aiuto regista), Tatiana Lepore (segretaria di edizione), Monica Scamassa (medico), Vanessa Scalera (infermiera), Renato Scarpa (Luciano). Prod.: Nanni Moretti, Domenico Procacci e Olivier Père, per Sacher Film/Fandango/Rai Cinema/Le Pacte - Arte France Cinéma. Distr.: 01 Distribution. Durata: 106 min.        

Una regista d'impegno civile, Margherita, condivide con il fratello Giovanni gli ultimi giorni di vita della madre, Ada, professoressa di latino in pensione. Contemporaneamente gira un film, con la partecipazione di un attore hollywoodiano, sul tema dei licenziamenti in fabbrica. Le due situazioni si fondono in un unico flusso di coscienza, che conduce, a lutto consumato, verso dubbi e automatici ripiegamenti.

Mia madre       


       Ogni volta, l'attesa è tale, che il vero "film di Natale" non è più il cine-panettone, o quant'altro, ma ogni singolo film di Nanni Moretti. Invece di essere un "film di festa", però, l'autore rovescia il genere: è un "film di crisi". Tutte le ambizioni di Moretti cineasta convergono nel sentirsi un autore europeo, perché è solo del grande autore borghese europeo trattare il tema della crisi (Bergman con Persona, Resnais con La guerra è finita, Antonioni con La notte...).

       In Mia madre, all'interno della poetica del regista (e non si può che circolare, senza uscite, nelle spire "autarchiche" dell'universo morettiano), l'autore accetta ciò che nelle pellicole precedenti era solo sperimentato: la lateralità. Moretti si fa da parte, e interpreta il fratello Giovanni, che è appena una "spalla" per la protagonista Margherita. La stessa Margherita lo dichiara a chiare lettere, quando, sul set, sostiene che "l'attore deve mettersi accanto al personaggio". Moretti, così, si cala in un personaggio particolare, che è se stesso, e con serena e consapevole disciplina si mette accanto a tutti gli altri, che sono gli attori del suo film. In questo modo, però, Moretti persona vigila e custodisce ogni singolo personaggio presente in Mia madre.

       Il personaggio del titolo, ossia la madre (una bella Giulia Lazzarini, attrice strehleriana, l'Ariel svolazzante nella celebre edizione de La tempesta), è lei, senza esitazioni, il centro aereo del racconto. La Madre. Un centro che partecipa infatti della tipica morettiana struttura narrativa a incastro: l'agonia della Madre s'incastra nella lavorazione del film sulla resistenza operaia, ed entrambi s'incastrano nella fantasia onirica del personaggio di Margherita. Ma il tempo è passato da quel Leone d'oro veneziano del 1981, e i "sogni d'oro" sono trasudati in "sogni di piombo". Un esempio, fra tanti, di "incastro". Giovanni e Margherita pressano la mamma che deve essere ricoverata in ospedale e non vuole. Davanti al diktat dei figli, la signora, pur riluttante, alza le braccia e risponde sarcastica: "Fucili puntati". Stacco. Il set del film di cui Margherita è regista: un camera-car in cui l'attore americano (un disciplinato John Turturro) è alla guida dell'automobile ma (tale è la gag) non vede la strada, perché, dal parabrezza, ha tre cineprese "puntate" verso di sé, proprio come fucili.

       Alla fine del film, dopo il decesso, una ex alunna racconta come la professoressa fosse davvero come una madre, ricordando l'episodio, durante una gita scolastica, in cui, con estrema naturalezza, si era messa a ballare assieme a tutti i "suoi" ragazzi. Il momento s'incastra con un momento precedente, che sembrava soltanto di pausa e riposo, in cui Turturro, sul set, aveva improvvisato una danza esotica con una carnosa, "felliniana", costumista. L'incastro tra il set del cinema e il teatro del dolore è qualcosa di più che un accattivante espediente narrativo. Nei "sogni di piombo" di Margherita (una puntuale Margherita Buy), la figura della Madre pesca nel personaggio dell'attore americano il proprio doppio. Il montaggio del giovane Clelio Benevento va in questa direzione: come il film che Margherita sta realizzando racconta la storia di alcuni operai che perdono il posto di lavoro, così Margherita, nella vita privata, è in procinto di perdere sua madre, e Giovanni, borghese benestante, per accudire l'inferma al lavoro persino rinuncia. La nemesi, allora, per questi borghesi teneri e un po' viziati, è puntuale. Quella Madre non è stata, o meglio non sarà mai soltanto "loro": anche tutti gli ex alunni, da sempre, sono stati, e continueranno a essere, "suoi" figli.

       L'"estraneità" della mamma professoressa, così, è lo specchio dell'"estraneità" dell'attore americano, il quale è sia disciplinato professionista sia imprevedibile istrione, esattamente come la madre è sia docente inappuntabile sia anarchico temperamento. Turturro è il "Madre padrone", di lingua inglese, della fabbrica di oggetti, come Ada, è "Madre padrona", di lingua latina, della fabbrica degli affetti. È pur sempre la struttura di Sogni d'oro, dove Remo Remotti interpretava un attore che si credeva un pazzo che si credeva Freud (e il film nel film aveva per titolo La mamma di Freud), e al tempo stesso funzionava anche da doppio del protagonista Apicella. Con i sogni, a occhi chiusi o aperti, a funzionare da sentinella della creatività e della morale.

       Un'altra scena, quella del Capranichetta, approfondisce la questione. Per chi non lo sapesse, il Capranichetta è una sala cinematografica d'essai romana, ormai chiusa, con una caratteristica particolare: si trova di fronte alla Camera dei Deputati. Chiaro, no? La politica guardi al cinema, e ci vada (e infatti i deputati, al Capranichetta, ci andavano eccome, entrando gratis). Nella scena, una fila chilometrica di spettatori in attesa si snoda al di fuori (i modelli sono sempre rigorosamente europei, gli amati Buñuel per la sur-realtà, e Kieslowski per il tono e le atmosfere). In quella sala si proietta Il cielo sopra Berlino, esempio di cinema europeo, poetico e politico al tempo stesso. Poiché il film di Wenders data 1987, ci troviamo prima della Bolognina e prima di Berlusconi. Dopo la Bolognina e dopo Berlusconi, allora, l'alienazione, l'estraneità subentrano fin dentro le mura domestiche. Come il figlio de La stanza del figlio, la Madre è innanzitutto "dato di natura", qualcosa di meraviglioso e inquietante al tempo stesso. La Madre, così, può anche arrivare a subire violenza: nel momento in cui proprio a lei, che è "natura" e deve essere protetta dai rischi del progresso, Margherita strappa la patente e sfonda la macchina.

       La famiglia, dunque, può ricomporsi solo se si esclude la Madre: l'unica scena davvero lieta, infatti, è quella in cui Giovanni e Margherita, fratello e sorella, sono in cucina e aiutano la figlia di lei, nipote di lui, a tradurre la versione di latino. Continuando l'opera materna, e in sua sostituzione, nel segno del "dativo di possesso", il nucleo familiare d'origine, senza estranei, assimilando il sacrificio materno, esplicita il corretto possesso di sé, nel trionfo, l'ennesimo, dell'autarchia. Il sacrificio della Madre è enorme: caricare su di sé tutta l'estraneità del mondo, e del cinema, tanto che, una volta tornata a casa, dopo aver aiutato nei compiti la nipote, indossa fiera la mascherina dell'ossigeno, e sentenzia: "Ora faccio i miei, di compiti".

       L'Italia post-berlusconiana, così, deve tornare a scuola, perché ha disimparato tutto. La scuola, infatti, è la Madre di tutte le civiltà. Gli italiani devono accettare la propria intollerabile estraneità al vivere civile, e sostenere questa formazione permanente che il regista/intellettuale fornisce dalla cattedra dello schermo. Come un Dante, il regista non può che raccontare il suo inferno e il suo esilio. Perché, rispetto a una Madre che si congeda, il sentimento dominante è quello di essere cacciati in esilio. In esilio da tutto, anche da qualsiasi forma d'amore, che non sia la cappa d'affetto filiale e fraterno. La "crisi" è così enunciata senza reticenze. Questo è infatti il tragico contemporaneo: se non c'è storia d'amore, non c'è  nemmeno storia di rivolta. Senza quello, è noto, non ci sta neanche questa. Saprà allora il cinema europeo di Nanni Moretti, fattasi ormai una ragione dell'esilio, accettare per davvero la lateralità, e raccontare finalmente una oggettiva storia d'amore? Che significa: una volta fuori dell'autarchia, briosa o spietata, aprirsi, con qualche gioia, alla sfida dell'Altro?

       Perché a queste condizioni, Mia madre, pur bello, nulla aggiunge al cinema europeo, e nulla toglie al cinema morettiano.  (Flavio De Bernardinis)


SegnoFilm n. 192

Turner

(Mr. Turner)

Regìa: Mike Leigh             Orig.: U.K./Fr./Germ., 2014

Sogg. e Scenegg.: Mike Leigh. Fotogr.: Dick Pope. Musica: Gary Yershon. Mont.: Jon Gregory. Scenogr.: Suzie Davies. Costumi: Jacqueline Durran. Suono: Tim Fraser. Eff. Vis.: LipSync Post; George Zwier (superv.). Interpr.: Timothy Spall (J.M.W. Turner), Dorothy Atkinson (Hannah Danby), Marion Bailey (Sophia Booth), Paul Jesson (William Turner), Lesley Manville (Mary Somerville), Martin Savage (Benjamin Robert Haydon), Joshua McGuire (John Ruskin), Ruth Sheen (Sarah Danby), David Horovitch (dr. Price), Karl Johnson (Mr. Booth). Prod.: Georgina Lowe, Michel Saint-Jean e Malte Grunert, per Film4/Focus Features Intl./BFI pres./Xofa Prods./Diaphana/France 3 Cinéma/Amusement Park Films. Distr.: BIM Distribuzione. Durata: 149 min        

Amori sconfitte promesse nell’ultimo ventennio della vita di Joseph Mallord William Turner, genio precoce che illumina e trasfigura paesaggi, marine, tempeste. Le luci e i colori che esplodono nelle tele si contrappongono a un’esistenza costellata da zone d’ombra, da rapporti conflittuali risolti in mugugni, frasi smozzicate, silenzi. Parallelamente vediamo l’artista al lavoro, immerso in paesaggi sublimi che diventano puro impasto cromatico prosciugato nelle forme, ora deliziato da adulatori incantati, ora umiliato da ottusi detrattori che non ne capiscono la modernità.

Turner       

        Non una biografia tradizionale dalle movenze cronologicamente definite, ma un tentativo d'interpretare l’opera di uno dei massimi artisti inglesi, inserendola in un contesto umano variegato, reinventando gli scenari naturali che hanno fatto da suggestione visiva a un pittore sempre e comunque osservato nel suo continuo vagare alla ricerca di soggetti da disegnare: giovani prostitute, navi in difficoltà nel mare in burrasca, locomotive sbuffanti, tempeste di neve. Mike Leigh usa il suo tocco trasparente, ma attento ai dettagli, operando delle scelte precise. Innanzitutto decide di concentrarsi solo sugli ultimi venti anni della vita di Turner, quelli in cui l’artista, al culmine della fama, raggiunge la pienezza della maturità, trasforma progressivamente il suo segno facendolo diventare pura materia, in un vortice di colori densi con cui anticipa l’impressionismo e l’astrattismo. Il periodo considerato va dal 1829 circa, anno in cui muore l’amato padre, ammiratore e fedele assistente, al 1851, anno in cui Turner esala l’ultimo respiro inneggiando al sole come unico vero dio nel villino di Cremorne New Road, condiviso con la compagna segreta, la vedova Booth.

        Lo scorrere degli anni però procede quasi invisibilmente, Leigh infatti non ricorre a didascalie o ad altri indicatori temporali evidenti. Vediamo solo l’inanellarsi degli eventi che uno dopo l’altro si srotolano, si susseguono placidamente. È il personaggio a fare i conti con il tempo che passa attraverso il suo decadimento fisico, attraverso la malattia e la morte di persone a lui più o meno care, attraverso le scoperte scientifiche e le innovazioni tecnologiche che cambiano prospettive e idee. Turner è affascinato dalla forza sprigionata dalla locomotiva - assoluta protagonista con il suo denso vapore in Pioggia, vapore e velocità - La Grande Ferrovia Occidentale; è incuriosito e intimorito a un tempo dalla fotografia, di cui intuisce le future applicazioni. Nello studio di un fotografo, J.J. Mayall, Turner infatti si fa immortalare nella lastra di un dagherrotipo, ma già pensa alla possibilità che la pittura possa svincolarsi dal mero figurativismo e permettersi di diventare finalmente puro gesto creativo; assiste agli esperimenti di Mary Somerville sul magnetismo della luce viola - basati su ipotesi infondate - per trarre ispirazione sugli impasti di colore; di fronte all’"audace" Temeraire, la nave da guerra che ha combattuto a Trafalgar, ormai avviata alla demolizione, invece che rimpiangere il buon tempo andato, invita a pensare positivamente al futuro incarnato dal fumo, dal ferro, dal vapore del rimorchiatore che trascina il relitto.

        Leigh, fedele al suo mandato di regista del reale, immerge Turner nella dimensione quotidiana, nelle sue diverse case, fra tele da preparare, colori da stendere, ritocchi da eseguire. Quello che vediamo è un Turner bifronte, capace di slanci affettuosi verso il padre, di cantare versi licenziosi con la sua vecchia amante, la vedova Booth con cui ha stabilito una relazione amorosa sincera; di commuoversi ad ascoltare Purcell, ma anche di mostrarsi duro, inflessibile, chiuso: spesso comunica solo con cenni del capo o con un borbottare incomprensibile. Gli succede sempre in occasione delle sporadiche visite di Sarah Danby, la donna da cui ha avuto due figlie, in apparenza mai amate e di cui sopporta malvolentieri la presenza; ha un rapporto brusco, afasico con la sua domestica- amante, Hannah, che nonostante tutto gli rimane fedele compagna anche dopo la morte. In generale il Turner che Leigh ci fa vedere comunica per brevi frasi, è spesso visto di spalle, come nei quadri di Hunt o Parrott, al lavoro, magari in pubblico dove una macchia di colore, con un veloce quanto imperscrutabile ritocco, diventa una boa che galleggia in un mare sconvolto dalle onde, o sulla soglia della porta pronto a partire per uno dei suoi numerosi viaggi.

        Oltre al lato umano, contraddittorio, di Turner vediamo anche i rapporti con colleghi, critici, membri della Royal Academy, committenti e pubblico. Anche in questa dimensione Turner vive in perenne conflitto, ora esaltato per la sua maestria, ora deriso, criticato per le sue innovazioni, accusato di essere addirittura cieco per aver abdicato alla forma. Infatti accanto a scene di intimità domestica, che ci vengono suggerite, quasi fossero spiate, ci sono nel film diversi episodi che ci mostrano quale fosse l’entourage artistico che ruotava attorno a Turner e quale lo sfondo storico-sociale in cui ha vissuto. Ci sono le visite nelle dimore sontuose di ricchi committenti, le esposizioni alla Royal Academy dove si respira la rivalità fra i diversi artisti, evidente quella tra Turner e Constable; c’è l’incontro con il giovane critico John Ruskin folgorato dall’arte di Turner, di cui fu strenuo ammiratore e bulimico collezionista; c’è il rifiuto di vendere a un ricco industriale il corpus delle sue opere, perché Turner sogna di poterle offrire alla nazione affinché tutti possano vederle gratuitamente; ci sono anche le critiche provenienti da mondi diversi - i colleghi sprezzanti, la regina Vittoria che di fronte alla tela dell’Alba con i mostri marini esprime il suo disgusto, lo spettacolo teatrale che irride alla tecnica usata da Turner e a coloro che comprano i suoi quadri.

        Leigh però si muove anche in una terza direzione, più sottile, immaginifica, lavorando con il suo Dick Pope alla fotografia per restituire sullo schermo le luci, i paesaggi, le sfumature di colore create dai tramonti sul mare o dalle rocce fredde che si riflettono nei laghi di montagna e che Turner ha trasferito dalla realtà nei suoi quadri. Da una parte infatti il film cerca di mostraci i luoghi in cui l’artista ha viaggiato per farci vedere ciò che in natura ne ha mosso l’ispirazione. Paesaggi che riempiono l’inquadratura come tele e in cui capita spesso di vedere apparire e poi scomparire il pittore con il suo fido taccuino di schizzi. Nella lunga sequenza d’apertura ad esempio campeggia un mulino a vento, due donne in costume olandese passano parlando tra loro, solo in un secondo momento con un impercettibile movimento di macchina in campo rientra anche il pittore che sta osservando quello stesso mulino, da una posizione diversa. Dalle finestre della casa di Margate durante le conversazioni con la vedova Booth, si vedono costantemente delle imbarcazioni con la vela quadrata colorata spiegata al vento come in tante marine che hanno riempito la ricca galleria di Turner.

        Sublime, straordinaria per composizione, è l’inquadratura dove il Temeraire viene trascinato tra gli sbuffi di vapore lungo il Tamigi. Leigh come Turner e con Turner dipinge con la luce: costruisce insieme la fonte del quadro, il quadro stesso e il pittore che sta dentro il quadro che sta per creare. Ne risulta un cortocircuito spazio temporale dove a trionfare è il puro piacere di vedere. (Mariolina Diana)


 

SegnoFilm n. 191

Adieu au langage - Addio al linguaggio

(Adieu au langage)

Regìa: Jean-Luc Godard             Orig.: Francia, 2014

Sogg., Scenegg. e Mont.: Jean-Luc Godard. Fotogr.: Fabrice Aragno. Musica: Phill Zagajewski (cantante playback). Costumi: Aude Grivas. Interpr.: Héloise Godet (Josette) Kamel Abdelli (Gédéon), Richard Chevallier (Marcus), Zoé Bruneau (Ivitch), Christian Gregori (Davidson), Jessica Erickson (Mary Shelley). Prod.: Alain Sarde, Brahim Chioua e Vincent Maraval, per Wild Bunch/Alain Sarde/Canal+/CNC. Distr.: BIM. Durata: 69 min        

Una donna giovane, sposata, di ritorno da un viaggio, in un porto, incontra un uomo, e tra loro inizia una relazione. I dialoghi sono colti, impegnativi, a volte esasperati. Il mondo che s'intravede attorno a questa storia, è fatto di turisti che sbarcano, giovani studenti, sparatorie che restano inesplicate, spostamenti notturni in autostrada. Il racconto frammentario sembra ricucirsi attorno al vagabondare contemplativo di un cane, che a un certo punto si fa adottare dai due.

Adieu au langage       

       Sembra impossibile dipanare le molteplici e complicate citazioni e allusioni intertestuali di Godard senza una visione attenta, reiterata nel tempo, o che almeno permetta una lettura pacata dei titoli di coda dove scorre la lista delle opere letterarie citate, seguita dalle diverse marche di foto e videocamere. Questo film, infatti, impone a qualsiasi interpretazione critica il modo condizionale, la premessa dubitativa del "forse". Perché Adieu au langage mette in questione lo spettatore, a partire dalla sua capacità di resistenza a visioni e ascolti plurimi, che si sdoppiano, triplicano o sovrappongono per divenire a volte porosi e volatili, per farsi leggere nella trasparenza simultanea dei vari strati dell'audio-visione o per cercare un terzo senso, tra le immagini. Un'esperienza complicata, quindi, che non trova appigli e viene anzi disconfermata a livello percettivo e sensoriale dai diversi ritmi sonori e visivi, tra accelerato e ralenti, nelle intersezioni delle immagini di archivio (in particolare sulla guerra), nei rumori carichi e nelle incursioni dei viraggi digitali.

        Il tutto montato fra le pieghe di un discorso dialogato coltissimo: storico, critico, filosofico. Quasi troppo alto, viene da pensare. Come se la misura fosse quella dell'eccesso e dello straordinario. Anche perché alle molte domande e disquisizioni intellettuali, sfrangiate e date per accenni, fa da contraltare una spietata ironia. Voci e commenti sono a volte quasi sussurrati, nel contrasto coi rumori al massimo volume, e il protagonista maschile persevera nel disquisire di estetica con la sua amante mentre sta seduto sulla tazza, tra peti e altri rumori. Alle proteste di lei, lui teorizza l'assoluta equivalenza tra "fare la cacca e filosofare", inteso (forse) come essere nel mondo.

        Lo spettatore vive un'esperienza con pochi appigli narrativi, tranne per alcune figure costanti, schiacciate però da un montaggio polifonico e "poliscopico". I due amanti, l'uomo e la giovane donna, spesso girano per casa iniziando a rivestirsi, o si fermano di fronte allo schermo piatto di una Tv sempre accesa in cui intravediamo, tra le altre, sequenze del primo Frankenstein con Boris Karloff (di James Whale, 1931). La narrazione per frammenti, interrotta e sincopata, si coagula a tratti attorno a un terzo attore, un cane vagabondo. Un osservatore silenzioso del mondo naturale e degli umani, che finisce col dormire beato sul divano dei due.

        Il film di Godard frusta e annichilisce le aspettative di coerenza dello spettatore, anzi aggiunge delle difficoltà al relazionarsi e all'empatizzare coi personaggi. Questo mentre l'uso del 3D apre un gioco d'interpellazione che ci chiama in causa e invade il nostro campo di visione. Si fatica dunque a tirare le fila, a condividere un punto di vista. Poiché, in effetti, ce ne sono almeno tre al contempo: quello della donna (forse una giornalista di ritorno dall'Africa), quello dell'uomo innamorato (forse un regista, certo un intellettuale) e, meno scontato, quello dell'animale. Il cane, snello e placido, è libero di muoversi tra il bosco e la città, o di nuotare nella corrente del fiume in piena. Solo lui sembra resistere, con i suoi silenzi e le sue azioni semplici, alla corrente impetuosa del film, innescando così un controtempo fatto di pause contemplative.

        Godard gioca sulle discontinuità del racconto, della costruzione stilistica, degli effetti digitali (visivi e sonori). Nel suo primo film in 3D cerca effetti di presenza, ma più spesso i paesaggi campestri, le architetture o le figure umane e animali diventano filtri spiazzanti, spessori paradossali tra lo spettatore e l'audiovisione. A "fuoriuscire" verso di noi nella tridimensionalità non c'è mai nulla di pericoloso, di meraviglioso o ultrarapido, come nei blockbuster americani, bensì la statica quiete di una panchina vuota o di un ormeggio di cemento, o di una grata su cui s'intrecciano le mani dei due amanti.

        Adieu au langage si configura come un'opera-mondo, una summa artistica e poetica. Cita in apertura Arcipelago Gulag di Solzenicyn, con la sua straordinaria definizione di "saggio d'inchiesta narrativa", e poi assomma considerazioni sulla seconda guerra, sulle camere a gas e Hitler, sulla storia francese, le idee del sociologo e teologo Jacques Ellul, passaggi da Sartre,  Benjamin, citazioni dello psicoanalista Otto Rank. Nella messe di citazioni artistiche inanella poesie di Apollinaire, Rilke, Lord Byron, scritti di Dostoevskij, Pavese (Prima che il gallo canti), il Frankestein di Mary Shelley. E le considerazioni sulla luce di Monet, la pittura di Gustave Courbet e quella, astratta e delicata, di Nicolas De Staël. Quest'ultima diventa una guida figurativa per molte scelte espressive del film, che più volte sfuma i contorni del mondo, tende all'astrazione o si sofferma su un campo gialloverde in cui esplode il rosso saturo dei tulipani.

        L'addio al linguaggio di Godard riguarda forse tutto il cinema, a partire dal proprio. Come nei suoi primi film, qui troviamo una relazione di coppia nascente, con un'evoluzione però non drammatica (nel finale si odono vagiti di un bimbo). Si intravedono possibili risvolti noir, in alcune scene al molo che restano inesplorate e, più volte, fa da controcanto (metaforico?) ai dialoghi della coppia l'immagine di una vasca da bagno in cui defluiscono fiotti di sangue. Come nei suoi film più politici, siamo in bilico tra documentario e finzione, vita quotidiana e rappresentazione ("detesto i personaggi", dice l'uomo), e sempre, à la Godard, le relazioni umane sono fitte di riferimenti alla cultura letteraria, filosofica e artistica. Come nei suoi film più sperimentali, dove convivono diversi formati video e sonori (a basso costo, elettronici, digitali), Adieu au langage mischia i regimi visivi, sperimenta frontiere del digitale (ad esempio raddoppia o capovolge l'inquadratura), o si permette cromatismi lisergici, tra De Staël e la Pop Art.

        Oltre la poesia, la letteratura e la pittura, i linguaggi da cui il film prende congedo sono, in effetti, la televisione e il cinema, la scultura e la musica classica: il film è allora anche un "addio", sotto forma di mash up (un "frullato" di fonti diverse), di pastiche e di interpolazioni, all'unicità delle forme artistiche del Novecento. Godard le discute da sempre, mentre pratica l'ibridazione dei linguaggi, perché "non c'è un'immagine, ci sono solo rapporti fra immagini". (Nicola Dusi)


 

SegnoFilm n. 190

Il regno d'inverno - Winter Sleep

(Kis uykusu)

Regìa: Nuri Bilge Ceylan             Orig.: Turch./Fr./Germ., 2014

Sogg. e Scenegg.: Ebru Ceylan, Nuri Bilge Ceylan. Fotogr.: Gökhan Tiryaki. Musica: Franz Schubert (Sonata n° 20). Mont.: Nuri Bilge Ceylan, Bora Göksingöl. Scenogr.: Gamze Kus. Suono: Andreas Mücke. Eff. Spec.: The Post Republic Interpr.: Haluk Bilginer (Aydin), Melisa Sözen (Nihal), Demet Akbag (Necla), Ayberk Pekcan (Hidayet), Serhat Kilic (Hamdi), Nejat Isler (Ismail), Tamer Levent (Suavi), Nadir Saribacak (Levent), Mehmet Ali Nuroglu (Timur), Emirhan Doruktutan (Ilyas). Prod.: Zeynep Öbatur Atakan, Alexandre Mallet-Guy e Mustafa Dok, per Zeynofilm/Bredok Filmproduction/Memento Films Production. Distr.: Parthénos/Lucky Red. Durata: 196 min.        

Aydin è un attore in pensione e ora gestisce un piccolo hotel in Cappadocia. Ci sono due donne nella sua vita: la giovane moglie, apparentemente fredda e distante, e la sorella, divorziata da poco tempo. In inverno, mentre la neve copre pian piano l'intera steppa, l'hotel diventa il loro rifugio, ma anche il teatro dei loro conflitti.

Il regno d'inverno         

        Film della maturità di uno dei più importanti registi contemporanei, premiato con la Palma d'oro al Festival di Cannes, Il regno d'inverno - Winter Spleep è la dimostrazione di come Nuri Bilge Ceylan sia un autore capace di rinnovare in continuazione le forme del proprio cinema. Dopo Tre scimmie (2008) e C'era una volta in Anatolia (2011) il regista turco ha trovato l'ispirazione del suo settimo lungometraggio in tre racconti di Anton Cechov, anche se il plot del film è riconducibile in gran parte a uno solo, Mia moglie (1892). In quello che è forse il meno “contemplativo” dei suoi film, Ceylan riprende le superbe e immaginifiche vette della Cappadocia per mostrare meglio l'isolamento dei personaggi e il ghiaccio che attanaglia il rapporto tra di essi, e come nella letteratura (e nel teatro) di Cechov la chiave per comprendere il mondo (moderno) sta nell'osservazione meticolosa dell'empatia che si crea tra gli esseri umani.
        La figura retorica scelta dal regista turco per entrare dentro questo “regno d'inverno”, isolato e fuori da ogni contatto con l'esterno, è il campo/controcampo. L'intera opera - la cui sceneggiatura è in gran parte costruita sul dialogo a due - è un meraviglioso esercizio sulle possibilità espressive di questa forma del linguaggio (e pensare che in tanti hanno parlato di un film “teatrale”!)[1]. Il regista turco sembra aver fatto propria la lezione di Ingmar Bergman: usare il campo/controcampo frontale (che dal totale va via via sempre più a stringersi al primo piano, grazie a dei lentissimi zoom, come avviene, ad esempio, nella lunga scena dello scontro verbale tra Aydin e sua sorella) serve a fare del volto del personaggio un'immagine astratta, che rompe il flusso dell'azione narrativa per aprire una finestra sui sentimenti e sull'anima. È proprio attraverso il montaggio che Ceylan dà sostanza visiva ai dialoghi del film, conducendo lo spettatore dritto al cuore dell'intimità più nascosta (e perversa) dei suoi personaggi.
        Aydin ha uno sguardo lucido e obiettivo sulla realtà che lo circonda, per lui gestire gli affari di famiglia o confrontarsi con le critiche e le provocazioni che gli rivolgono la moglie e la sorella è la stessa cosa. Ma la sua presunta indifferenza al mondo gli servirà a poco, se non per constatare la propria immensa solitudine. Del resto il disincanto che si porta dietro lo fa apparire per quello che non avrebbe forse mai voluto essere, e cioè un mostro che imbriglia i cavalli selvaggi dell'Anatolia nella stessa maniera con cui tiene legate a se le inutili pedine del suo mondo (le locandine dei suoi vecchi spettacoli, da Antonio e Cleopatra a Caligola, in bella mostra nel suo studio, sono lì a far da beffardo controcanto). L'unico sentimento vitale che pervade il film è quello dell'orgoglio, quello di Nihal che non accetta dal marito l'ennesima “elemosina”; quello di Ismail, che brucia il denaro che potrebbe salvare la sua famiglia per non cedere al ricatto morale; quello del piccolo Ilyas, che per vendicare il padre umiliato rompe un vetro dell'auto di Aydin, dando così il via all'intera vicenda.
        È così che Il regno d'inverno, da quadro apparentemente immobile diventa pura sostanza in movimento, anche se si tratta di scosse appena percettibili. In tal senso è rivelatore l'uso della musica: ogni sequenza di raccordo, ogni “movimento” - per l'appunto - del film, è accompagnato dall'andantino della Sonata n° 20 di Schubert (il compositore si serve dello stesso tema, ma arricchito da molte variazioni, seppur minime). Già utilizzato da Robert Bresson in Au hazard Balthazar (1966), il motivo musicale è ripreso da Ceylan anche in un'altra funzione: dare plasticità espressiva a uno spazio che il linguaggio verbale - per la sua finitizza intrinseca - lascia vuoto, quello della sofferenza causata dall'incomunicabilità. In questo senso l'uso della musica precede (e accompagna) il finale del film.
        Nella novella di Cechov, il protagonista, dopo aver rinunciato alla propria partenza, confessa alla moglie che non riesce a vivere senza di lei, nonostante la loro relazione non sia che l'ombra di quella che fu; ne Il regno d'inverno, invece, le parole di Aydin le sentiamo pronunciare dalla sua voce off e non sapremo mai se Nihal, che lo osserva dalla finestra, le ascolterà. Del resto, l'inverno è ormai arrivato e la neve inizia a ricoprire questo paesaggio lunare di un bianco silente e immenso. La neve, che "cade leggera su tutto l'universo, cade lenta, come la discesa della loro ultima fine, su tutti i vivi e sui morti". È  Joyce, ma sembra Ceylan. (Marco Luceri)

 [1] Cfr. Jean-Dominique Nuttens, Nuri Bilge Ceylan, Winter Sleep: champs et contrechamps, in “Positif”, nn. 641-642, Juillet-Août 2014, p. 97.  


 

 

SegnoFilm n. 188

Le meraviglie

Regìa: Alice Rohrwacher              Orig.: Ital./Germ./Svizz., 2014

Sogg. e Scenegg.: Alice Rohrwacher. Fotogr.: Hélène Louvart. Musica: Piero Crucitti. Mont.: Marco Spoletini. Scenogr.: Emita Frigato. Costumi: Loredana Buscemi. Suono: Christophe Giovannoni. Eff. Spec.: Ghos SFX. Interpr.: Maria Alexandra Lungu (Gelsomina), Sam Louwyck (Wolfgang), Alba Rohrwacher (Angelica), Sabine Timoteo (Cocò), Agnese Graziani (Marinella), Monica Bellucci (Milly Catena). Prod.: Carlo Cresto-Dina, Karl "Baumi" Baumgartner, Tiziana Soudani e Michael Weber, per Tempesta/Rai Cinema/AMKA Films Prods./Pola Pandora Film Prods./RSI/ZDF. Distr.: BIM Distribuzione. Durata: 111 min.

Capitanata da Gelsomina, l'adolescente figlia maggiore, una famiglia allargata e composita, dedita all'apicoltura nella campagna tra Toscana, Lazio e Umbria, lotta quotidianamente contro gli spari dei cacciatori, i veleni dei diserbanti, la corsa al denaro di contadini che svendono la terra per farne spettacolo e turismo, le complesse regole burocratiche dei nuovi mercati. Un mondo in bilico, un'ultima estate, un'infanzia giunta alla fine. Ma si affacciano altre meraviglie che fanno meritare tra l'altro al film il Gran premio della Giuria di Cannes 2014.


        Un mondo a parte, precario, fragile, sotto assedio, sfuggente a ogni regola di ordine e di utile. Ruvido, materico, aspro, ma capace di animare e tradurre in gioco circense e magia favolistica la luce, l'acqua, la roccia, la polvere. La fatica quotidiana di una Italia antica, che sopravvive nella post-utopia familiare rivisitata da Alice Rohrwacher, ottiene una pozione preziosa dai toni dell'ambra, trasformando gli insetti-che-pizzicano in amichevoli gioielli che adornano volti di madonna trecentesca. È la vita indistinta, fusionale, protetta di un'età infantile che in questo caso coinvolge anche il mondo degli adulti: una famiglia sgangherata, raccolta in se stessa, dopo le illusioni comunitarie degli anni di lotta, dove convivono quattro figlie bambine (di età e spinte centrifughe differenti, raggruppate a due a due, le piccoline allo stato brado, le due più grandi sempre in lotta per trovare un posto a fianco dei genitori), lo stralunato e burbero padre tedesco Wolfgang, la dolce e rassegnata Angelica madre dalle intonazioni umbre che comunica con il compagno in francese, e l'amica Coco, bizzarra e sognante ospite per caso dal girovagare d'Europa.
        A provocare la crisi di questo involucro incredibilmente sicuro, nonostante le dissonanze che trovano espressione nelle continue urla imprecanti del maschio, l'irrompere di una realtà esterna dalle molteplici forme. Gli squarci di luce nel buio e nel silenzio della notte, e sullo schermo nero prima dei titoli di testa, violano l'intimità misteriosa che si annida nella cadente casa colonica sperduta nella campagna deserta. Lo stormo di jeepponi che trasportano uomini armati in tuta mimetica, accompagnati da cani latranti, ha l'impatto mostruoso e devastante delle ruspe di Olmi sulle rive del grande fiume e al contempo la forza intrusiva di abbaglianti fari che ispezionano a tratti la notte anatolica di Ceylan in cerca di verità nascoste. Dentro la casa addormentata si confondono i corpi, si mescolano gli odori, si aggregano sogni e bisogni.
        Ma dal tutto indistinto emerge una figura scultorea che prende forma potente: Gelsomina, interpretata con intensità dall'esordiente Maria Alexandra Lungu, alle soglie della giovinezza, caparbia, forte, direttiva, controllata, responsabile. Nel groviglio di relazioni, contatti, comunicazioni che si manifestano in libertà risalta la potenza di un dialogo quasi muto fra il padre apicoltore-resistente e questa figlia sottratta al ruolo filiale, alla dimensione infantile e alla femminilità in movimento, e proiettata al compito di sostituto capofamiglia. Alice Rohrwacher mette in immagini la sua anomala e complessa storia familiare riservando una commossa attenzione ai vari componenti (tratteggiando con delicatezza ad esempio la figura della sorella minore), ma soffermandosi in particolare sul momento di passaggio della protagonista verso l'affermazione di sé e la differenziazione dell'età adulta.
        In Corpo celeste (2011) la tredicenne Marta navigava solitaria nello spazio, cercando la sua strada tra i frammenti e le macerie di un paesaggio urbano degradato, oltre le previste adesioni a una religiosità spettacolarizzata secondo i più beceri modelli televisivi e profondamente corrotta. Qui Gelsomina insegue il suo destino di libertà creativa arricchendo con autonomi desideri il mondo-fuori dal mondo che la sovraccarica di responsabilità e la fissa su richieste infantili di evasione fantastica tra le gobbe di un cammello. Dapprima è il volgare mondo di un local-reality, che allestisce un improbabile “paese delle meraviglie” tra necropoli etrusche e prosciutti dop, ad aprire una crepa; sono i capelli “come la schiuma del mare” di una stanca fata (una Monica Bellucci mai così bella e convincente) a regalarle una possibilità di trasgressione; poi è il giovane Martin arrivato per seguire un percorso di rieducazione sostitutivo del carcere minorile che le offre uno spiraglio espressivo, oltre le parole con l'armonia di fischi virtuosi.
        Due viaggi verso l'altro mondo dell'isola impervia che emerge dalle acque turchine del lago di Bolsena, per trovare se stessa dentro grotte che liberano le ombre del profondo. Al ritorno Gelsomina è pronta a sostenere lo sguardo del padre, da grande, da persona capace di emettere suoni distinti nella koinè familiare, e così finalmente diventa figlia infilandosi per un'ultima volta nell'accogliente lettone all'aperto prima che svanisca quella stagione straordinaria, confusa, contaminata che riguarda le radici di tutti noi.
        Se nella lontana Calabria di Corpo celeste la Rohrwacher stentava a trovare la giusta distanza per cogliere il raccordo (o il disaccordo) tra il mondo interiore della giovane vita e l'invasivo mondo di fuori, in questa seconda prova la regista dosa sapientemente lo sguardo incollato sulla protagonista con la dimensione panica della terra d'Etruria, dove è avvertibile la forza materica di un paesaggio che ancora (per quanto?) assorbe i colpi degli spari dei cacciatori, il caos delle fiere mediatiche tra festoni luminosi e riflettori dentro caverne antichissime, il frastuono dei richiami da imbarcazioni variopinte a pelo d'acque di velluto.
        Se è vero che la struttura narrativa avverte il peso delle numerose piste che ne fanno parte, rendendo arduo talvolta il percorso dello spettatore, le meraviglie prendono il sopravvento e fanno sgranare gli occhi, anche oltre le immagini finali della casa abbandonata che continua a custodirle. (Daniela Zanolin) 


 

SegnoFilm n. 187

Grand Budapest Hotel  (The Grand Budapest Hotel) 

Regìa: Wes Anderson              Orig.: U.S.A./Germania, 2014

Sogg.: Wes Anderson, Hugo Guiness. Scenegg.: Wes Anderson. Fotogr.: Robert Yeoman. Musica: Alexandre Desplat; Randall Poster (superv.) Mont.: Barney Pilling. Scenogr.: Adam Stockhausen. Costumi: Milena Canonero. Suono: Pawel Wdowczak. Eff. Vis. e Spec.: LOOK! Effects, LUXX Studios, ReelEye Company. Interpr.: Ralph Fiennes (M. Gustave), Tony Revolori (Zero Moustafa), F. Murray Abraham (Mr. Moustafa), Mathieu Amalric (Serge), Adrien Brody (Dimitri), Willem Dafoe (Jopling), Jeff Goldblum (Kovacs), Harvey Keitel (Ludwig), Jude Law (Junger Schriftsteller), Bill Murray (M. Ivan), Edward Norton (Henckels), Saoirse Ronan (Agatha), Jason Schwartzman (M. Jean), Léa Seydoux (Clotilde), Tilda Swinton (Madane D.), Tom Wilkinson (l'Autore), Owen Wilson (M. Chuck). Prod.: Wes Anderson, Scott Rudin, Steven Rales, Jeremy Dawson e Jane Frazer, per Fox Searchlight Pictures/Indian Paintbrush/Studio Babelsberg pres./American Empirical Picture prod. Distr.: Twentieth Century Fox Italia. Durata: 100 min.

Un’imprecisata nazione dell’Europa centrale, tempo presente: una ragazza depone un mazzo di chiavi davanti al busto di un ignoto scrittore. Tiene in mano un libro dal titolo Grand Budapest Hotel. 1985: l’autore del libro ricorda la sua esperienza al Grand Budapest Hotel. Eccoci così al 1968: l’ignoto scrittore incontra Zero Moustafa, direttore dell’albergo, e ascolta la sua storia. 1932: Zero Moustafa è apprendista all’hotel diretto da monsieur Gustave nella repubblica di Zubrowka, minacciata da un’imminente dittatura. Una cliente dell’albergo, Madame Céline Villeneuve Desgoffe-und-Taxis, muore in misteriose circostanze. C’è di mezzo un testamento, nonché un quadro d'inestimabile valore. Con sprezzo del pericolo, Zero e la sua fidanzata Agatha, provetta pasticciera, lo aiutano a risolvere il mistero, ma Gustave non vivrà a lungo.


        Sotto lo zucchero di Grand Budapest Hotel c’è una robusta dose di arsenico. I dialoghi del film sono costellati di rutilante turpiloquio; le sue immagini includono fra l’altro una testa mozzata, uno strangolamento, quattro dita tagliate e una breve scena di sesso orale, più vaghe ma sicure tracce assortite di deformità, feticismo, necrofilia e animali sfracellati. Il protagonista è un bisessuale dichiarato: ruba un antico ritratto e lo sostituisce con un quadro a soggetto lesbico. La dichiarata passione di Wes Anderson per Ernst Lubitsch va dunque intesa come affinità elettiva, non come gemellaggio. Lubitsch, maestro di eleganza, è uno storyteller che ha conosciuto in prima persona la creatività berlinese e la tragedia della guerra; trasferitosi a Hollywood, vi ha ulteriormente affinato l’arte del sottinteso. Anderson, nato nel profondo Texas, non ha dietro di sé un simile bagaglio esistenziale e non è un cantastorie per vocazione; la sua Europa esiste prima di tutto al cinema e sui libri, nelle cartoline colorate e nelle miniature trompe-l’oeil. L’incontro fra il regista e l’argomento del suo film va dunque interpretato come la convergenza fra una visione del mondo e la sua espressione letteraria, la parola tradotta in immagini, l’utopia in fiaba, e per quanto concerne Anderson la fiaba ha ogni diritto di esprimersi in forma cruenta.
        Ci sono altre ragioni per invocare Lubitsch. Grand Budapest Hotel è un film a orologeria ma non si preoccupa di essere puntuale: pur muovendosi a una velocità forsennata, le sue lancette corrono a ritroso. Se si tolgono dal conto i titoli di coda, la sua durata è di soli 94 minuti. È un film a scatole cinesi; inizia in un imprecisato tempo presente, retrocede subito al 1985 con la pseudo-autobiografia filmata dello stesso scrittore, da lì scivola subito al 1968 (nell’albergo dai tristi colori sovietici) e infine al 1932, quasi a metà strada fra le due guerre mondiali. Il 1932, l’anno anteriore all’ascesa di Hitler al potere, è anche lo spartiacque narrativo del più toccante libro di Stefan Zweig, Die Welt von Gestern, completato nel 1941 e uscito postumo nel 1944 (in italiano nel 1945, con il titolo Il mondo di ieri). Le sue pagine costituiscono il vero fulcro ideologico di Grand Hotel Budapest. Le scatole cinesi del film hanno tre misure diverse: Panavision 1:1,85 per le sequenze in tempo presente; Cinemascope per il 1968; formato Academy per gli anni Trenta; e quest’ultima scatola assume perfino una tonalità monocroma nel bianco e nero dell’episodio finale sul treno.
        Quasi a dispetto del suo lussureggiante apparato scenografico e dei frequenti cambi di mascherino, Grand Budapest Hotel è il film più “declamato” di Anderson, con incessanti botta e risposta in punta di penna; Il mondo di ieri, per converso, è l’opera di Zweig che più colpisce per la pregnanza evocativa delle sue immagini, dalla descrizione dei viaggi in treno - ripresi da Anderson pressoché alla lettera - all’orgogliosa coreografia delle buone maniere nel crepuscolo viennese. Le pagine dedicate da Zweig all’amico Hugo von Hofmannsthal sembrano un ritratto ante litteram di Anderson: ossessiva ricerca della simmetria e del ritmo perfetto, lieve malinconia, languida seduzione musicale, manoscritti dalla calligrafia impeccabile. Anderson afferma di essere rimasto affascinato dall’unico romanzo di Zweig, Ungeduld des Herzens, pubblicato per la prima volta nel 1939 in inglese come Beware of Pity (L’impazienza del cuore nella traduzione di Umberto Gandini, edita da Frassinelli nel 2004), ed è vero che l’inizio a cornici concentriche di Grand Budapest Hotel è molto simile a quello del libro.
        C’è una frase che ricorre due volte nel film, prima per bocca di monsieur Gustave, poi dell’anonimo scrittore: c’è ancora un barlume di modi civili in quel barbaro macello che siamo soliti chiamare umanità. Questo miraggio di un’Europa agognata e poi rimpianta da Zweig somiglia alla pasticceria di Anderson, meravigliosa decorazione che prova a spacciarsi per struttura. C’era un’idea forte in Moonrise Kingdom, una storia d’amore pre-adolescente; al suo posto, in Grand Budapest Hotel, c’è quello che Hitchcock chiamava “MacGuffin”, un pretesto narrativo che funge da motore d’avviamento della storia e da specchio della Storia: un’anziana cliente dell’albergo, la sua morte misteriosa, il suo quadro d'inestimabile valore, gli omicidi e le loro conseguenze all’emergere di un regime totalitario. Preso alla lettera, il film è soltanto un lungo inseguimento, un mosaico di sequenze a sé stanti: il museo; il convento; la stazione sciistica; la sua autentica ragione d’essere è la rievocazione - più esattamente, la reinvenzione - di uno stato d’animo collettivo, di una temperie culturale che non ci appartiene più ma di cui si percepisce ancora l’eco.
        Su di essa aleggiano i fantasmi del cinema europeo, in particolare quello di Carol Reed (The Third Man [Il terzo uomo], 1949). Le celebrità del film (Murray, Dafoe, Swinton, Brody, Amalric) vi compaiono come figurine volutamente a due dimensioni, ritagliate apposta per essere riconosciute nella meticolosa planimetria di Grand Hotel Budapest. Più che citare, Wes Anderson ama rifare ex novo: dopo aver rubato l’inestimabile “Ragazzo con la mela” dell’inesistente pittore fiammingo Johannes van Hoytl il Giovane, monsieur Gustave e Zero lo sostituiscono con un quadro che sembra di Egon Schiele ma è in realtà “Two Lesbians Masturbating” (2013) di un certo Rich Pellegrino. Che il van Hoytl sia davvero un MacGuffin è confermato dall’ultima comparsa del quadro alla fine della storia. È appeso dietro al banco della reception, ed è pure sbilenco. Nessuno se ne preoccupa più, ed è il regista a dirlo per primo. Quella tela era un mezzo, non il fine del racconto.
Così lavora Wes Anderson. Per sua stessa ammissione ("Cahiers du Cinéma", marzo 2014, p. 42) la meticolosa e scanzonata colonna sonora è la più efficace metafora del suo cinema che gioca a rimpiattino con il passato, e i titoli di coda del film sono lì a dimostrarlo; i dialoghi originali di Grand Budapest Hotel inventano dialetti e accenti diversi per ciascun personaggio; quello di Gustave mischia la forbita pedanteria alla più scatenata volgarità: “È successo, mio caro Zero, che ho rotto il culo a un botolo piagnucoloso che risponde al nome di Pinky Bandinski”, dice monsieur Gustave senza fare una grinza; “Ich war gespannt wie ein Fritzlburger” (“ero eccitato come un fritzlburger”), motto pronunciato dallo scrittore all’inizio del film, è puro nonsense. C’è qualcosa d'infantile nella gioia con cui Wes Anderson si diverte con parole, suoni, dipinti e immagini che si muovono, e l’osservazione va presa come un complimento. Nel 2004 aveva diretto uno spot pubblicitario per la American Express dal titolo My Life, My Card, oggi consultabile su internet. La sua musica di fondo è la stessa di La Nuit américaine (Effetto notte, 1973); la sua azione si svolge davanti a un palazzo molto simile al grande albergo appollaiato sulle montagne della repubblica di Zubrowka.
        Wes Anderson avrebbe voluto partecipare a quel “fare cinema” celebrato da Truffaut in modo così appassionato, ma “quel mondo si è dissolto molto prima che lui vi mettesse piede; certo è che ha saputo coltivarne l’illusione con una grazia meravigliosa”. Il vecchio signor Zero Moustafa usa queste parole a proposito di monsieur Gustave; Stefan Zweig le avrebbe fatte proprie senza discutere. Andrebbero a pennello anche al regista di Grand Budapest Hotel, euforico cantore del tempo trascorso. (Paolo Cherchi Usai)


 

SegnoFilm n. 186

12 anni schiavo (12 Years a Slave)

 

Regìa: Steve McQueen              Orig.: U.S.A./U.K., 2013

Sogg.: basato sul libro Twelve Years a Slave di Solomon Northup. Scenegg.: John Ridley. Fotogr.: Sean Bobbitt. Musica: Hans Zimmer. Mont.: Joe Walker. Scenogr.: Adam Stockhausen. Costumi: Patricia Norris. Suono: Kirk FRancis. Eff. Vis.: Wildfire Post NOLA, Crafty Apes; Dottie Starling (superv.). Interpr.: Chiwetel Ejiofor (Solomon Northup), Michael Fassbender (Edwin Epps), Benedict Cumberbatch (Ford), Brad Pitt (Bass), Alfre Woodard (sig.a Shaw), Paul Dano (Tibeats), Garret Dillahunt (Armsby), Paul Giamatti (Freeman), Scoot McNairy (Brown), Lupita Nyong'o (Patsey), Adepero Oduye (Eliza), Sarah Paulson (sig.a Epps), Chris Chalk (Clemens), Taran Killam (Hamilton), Bill Camp (Radburn). Prod.: Brad Pitt, Dede Gardner, Jeremy Kleiner, Bill Pohlad, Steve McQueen, Arnon Milchan e Anthony Katagas, per Regency Enterprises/River Road Entert. pres./River Road/Plan B/New Regency prod./Film4. Distr.: BIM Distribuzione. Durata: 134 min.

America metà 1800. Il nero Solomon Northup vive libero nello Stato di New York. È un ottimo violinista, ha una moglie e due figli. Due falsi agenti di spettacolo con un inganno lo rapiscono. Solomon finisce in Louisiana, dove rimarrà schiavo per 12 anni, prima di ritrovare la libertà e poter tornare a casa, grazie all’aiuto di un bianco abolizionista. Il film è tratto dalla biografia del protagonista.


        Quando Steve McQueen portò, nel 2008, Hunger a Cannes era un video-artista affermato (Biennale di Venezia, ma non solo): il suo film si portò a casa la Camera d’or e in tanti restammo folgorati dal modo duro e radicale di rappresentare una storia politica crudele e controversa, senza sentire il bisogno di cedere a una morbidezza che potesse accontentare anche lo spettatore più semplice. Con Shame il regista newyorkese contaminò il suo sguardo così asciutto con un tema (il sesso) spesso sdrucciolo: restavano le geometriche malinconie dei personaggi, quel senso di maledettismo che si congegnava con una solitudine urbana, identificabile con quelle architetture asettiche e implacabili. Ma c’era più mood che angoscia, e il nudo esuberante di Fassbender ha fatto il resto. Fatto sta che Shame sembrava, a chi soprattutto aveva adorato Hunger, un cedimento a un cinema che cercasse un pubblico vasto, anziché il contrario.
        Ora con questo 12 anni schiavo che punta dritto alla santificazione degli Oscar il problema sembra complicarsi, perché il ritorno a un tema forte (la schiavitù dei neri negli Usa del Sud) ha creato l’aspettativa di ritrovarsi con un’opera significativamente autoriale, specie da un regista di colore, dove una spaventosa storia personale (il film è puntualmente tratto da una vicenda realmente accaduta) s'intreccia con la Storia faticosa di un Paese, in cerca di una democrazia solida e consapevole. E purtroppo non bisogna certo attendere gli ultimi 10 minuti, quasi inspiegabili per chi ha girato Hunger, per dire che il percorso artistico cinematografico di Steve McQueen sembra procedere al ribasso. La scenetta finale di lui finalmente libero che torna a casa, vede la figlia grande, il marito, il nipotino in braccio, mentre parte una cascata di lacrime diffuse sullo schermo (e probabilmente in sala) fa a pugni con il celebre piano sequenza interminabile di Hunger, tra Bobby Sands e Padre Moran, e allora la domanda è: ma davvero è lo stesso regista? Questo teatrino maldestro (e così incautamente commovente) sarebbe stato meglio sopprimerlo al montaggio, magari chiudendo il film su uno dei tantissimi primi piani che McQueen concede a Chiwetel Ejiofor, anche quando comprende che la sua sconvolgente schiavitù è terminata.
        Per fortuna nei dettagli infatti McQueen si salva, penetra dentro lo sguardo, ci fa sentire la carne dolorosa e offesa, ma lo fa con parsimonia, perché spesso s'intestardisce con le frustate e con la schiena rigata. E non è nella rappresentazione visiva che si può dire qualcosa di più e di meglio che non sia già stato detto. Lo sa bene Spielberg che con Lincoln sposta la questione sulla battaglia etica e politica degli individui (e d’altronde aveva già fatto Amistad, e quindi basta e avanza); lo sa ancora meglio Tarantino, che ha lucidamente riportato nelle sue coordinate beffarde questo dramma dell’umanità (si pensi a come riduce il KKK a una banda di idioti). Invece McQueen avanza con i suoi personaggi perfettamente inquadrati (l’invasato carogna, il proprietario dal cuore d’oro, quello spietato, il bianco illuminato, quello che invece tradisce, la moglie crudele), figure che si stagliano nel panorama classico dei campi di cotone, tra echi di spirituals e cicale, con puntuali momenti tragici, dove la violenza scoppia improvvisa.
        Se il film, nella sua portata tutto sommato sterile (anche in termini d'indignazione), riesce a catturare un suo preciso e forte significato, è perché comunque McQueen, qua e là, rispolvera la sua capacità di esasperare alcune dinamiche di tensione drammatica: il tentativo d'impiccagione all’inizio, che si prolunga per un tempo insostenibile con il povero Solomon costretto a una specie di balletto con la morte, mentre tutti intorno (ripresi anche in campo lungo) si attardano a compiere le loro azioni, disinteressandosi del pericolo, in una sequenza che tocca una crudeltà tragica, perché imposta per terrore; o, nella seconda parte, al chiarore luciferino di una lanterna, l’abbraccio prolungato degno di un rettile che stritola, tra Fassbender e Ejiofor, dove quest’ultimo trova la forza di ribaltare con astuzia, davanti al perfido padrone, una pressoché prevedibile condanna, dopo il tradimento del bianco a cui aveva affidato una lettera per essere rintracciato da parenti e amici; e infine il percorso di ricostruzione della propria identità, tramite l’annullamento e i privilegi di un tempo negli Stati già civili, con una sua alta drammaticità, che però ogni tanto si scioglie nella costruzione più corale degli avvenimenti, alcuni dei quali totalmente risaputi e convenzionali.
        Resta uno spettacolo che passa (troppo) agevolmente dal desiderio di colpire il grande pubblico (anche in funzione degli Oscar) allo sguardo più selettivo del cinefilo (in percentuale minore), in un’altalena però sfiancante, dove niente si fa veramente carico di un respiro storico e forse nemmeno esistenziale. E non bastano certo le scritte finali, sui titoli di coda. Solomon torna a casa, perché 12 anni dopo il “rapimento” (un tempo che nel film si deve intuire, ma questo non è certo un problema), ritrova la sua antica identità, di uomo nero libero e, rispetto agli altri, fortunato, perché può già vivere in un luogo dove l’ostilità è terminata, mentre gli altri continuano a raccogliere cotone, cantare spirituals, sentire le cicale e augurarsi che il padrone, magari per una chiassosa, isterica discussione con la moglie non decida di ucciderli. Aspettando che la Storia faccia il suo corso. E magari anche un film migliore. (Adriano De Grandis)


 

SegnoFilm n. 185

La vita di Adele - Capitoli 1 & 2 (La vie d'Adèle - Chapitres 1 & 2)

Regìa: Abdellatif Kechiche              Orig.: Fr./Belg./Sp., 2013

Sogg.: liberamente tratto dal libro Il blu è un colore caldo di Julie Maroh. Scenegg.: Abdellatif Kechiche, Ghalya Lacroix. Fotogr.: Sofian El Fani. Mont.: Albertine Lastera, Camille Toubkis, Jean-Marie Lengellé, Ghalya Lacroix. Scenogr.: Julia Lemaire. Costumi: Sylvie Letellier. Suono: Jérôme Chenevoy. Interpr.: Léa Seydoux (Emma), Adèle Exarchopoulos (Adèle), Salim Kechiouche (Samir), Mona Walravens (Lise), Jérémie Laheurte (Thomas), Alma Jodorowski (Béatrice), Aurélien Recoing (il padre di Adèle), Catherine Salée (La madre di Adèle), Fanny Maurin (Amélie), Benjamin Siksou (Antoine), Sandor Funtek (Valentin). Prod.: Brahim Chioua, Abdellatif Kechiche, Vincent Maraval e Laurence Clerc, per Quat'sous Films/Wild Bunch/France 2 Cinéma/Scope Pictures/Vértigo Films/RTBF. Distr.: Lucky Red. Durata: 175 min.

Adèle è una liceale di Lille, vorace di conoscenza, d’amore e di cibo. L’irresistibile richiamo alla passione e il forte senso dell’assoluto la conducono nei territori inesplorati di Emma, un'aspirante artista più grande di lei. L'incontro fatale le costerà perdite, paure, disagi, ma le offrirà la possibilità di dare sfogo alla sua prorompente vitalità. Il lento riconoscimento delle differenze, dopo l'iniziale totale adesione, prelude a una dolorosa crisi da cui emergerà una persona adulta.


        Abdel Kechiche prende alla lettera il titolo Le bleu est une couleur chaude della graphic novelist Julie Maroh (ora edito anche in Italia da Rizzoli Lizard) a cui si ispira per i due capitoli della Vita di Adèle, e pervade proprio di questa cifra cromatica la sua rappresentazione di un'appassionata storia di giovane donna. E non ci si riferisce soltanto agli antagonisti capelli blu di Emma (Léa Seydoux) che irrompono all’inizio come segno di predestinazione nella quotidiana materiale terrigna adolescenza di Adèle (Adèle Exarchopoulos): tutta la tela del film s'impregna di dense pennellate elettriche a contrasto, sia che si tratti di una parete che fa da sfondo ai corpi e ai volti delle protagoniste, sia che si tratti di un dozzinale abitino indossato da Adèle per il rito finale. Il rimando alla pittura non è solo di superficie: nella sua quinta opera cinematografica il regista, che conosciamo per la capacità di accompagnare nel tempo e nello spazio il flusso dinamico della sua figurazione, fa entrare il sistema statico di figurazione pittorica nel confronto-scontro presentato dalla narrazione.
        La storia di Emma è quella di un’aspirante artista che vampirizza la vita (una sorta di nemesi la rivolta delle attrici protagoniste - e dei tecnici - che hanno pubblicamente denunciato il vampirismo di Kechiche sul set dopo la Palma d'oro di Cannes!) in cerca di realizzazione e che ottiene alla fine soddisfazione nel successo delle sue opere pittoriche imbevute dell’esperienza vissuta con Adèle. La componente pittorica, oltre a punteggiare i dialoghi con richiami a Klimt e a Schiele, o ad arricchire il plot con gli schizzi domestici a matita e le tavole esposte di Emma, o a impreziosire il set con la visita alla piscine-musée di Roubaix, diventa occasione di sospensione, di contrappunto, di riequilibrio: dall’effetto-quadro dei picnic sull’erba in evidente citazione o di altri momenti di pausa a contatto con la natura (sulle panchine al riparo di grandi alberi frementi, o a galla a pelo d'acqua con le chiome flottanti al ritmo delle onde), alla selettività cromatica e agli effetti luministici e di organizzazione spaziale che definiscono gli interni dei tanti incontri a due e che contengono la forza dirompente di una storia intrisa di lacrime, umori, gesti, movimenti seguiti nella loro reale durata e nella loro mutevolezza.
        È come se già questa prima forma di coabitazione nella rappresentazione filmica di due diverse strutture di figurazione anticipasse altri tentativi di convivenza e di amalgama. La mise en abîme dei rimandi duplici che il regista mette in atto dà il capogiro, a partire dalla contaminazione fra letteratura e vita con la continua materializzazione di brani letterari (la lettura a scuola da La vie de Marianne, romanzo incompiuto e scritto da Marivaux a partire dal 1728, che apre il film in continuità ideale con l’allestimento scolastico de Le Jeu de l'amour et du hazard dello stesso autore in L’Esquive, oppure i rimandi degli insegnanti all’Antigone, a Sartre...). Adèle ed Emma hanno età e fisicità molto diverse, appartengono a mondi culturali e sociali lontani tra loro; le loro aspirazioni e i loro sogni hanno poco in comune, ma entrambe sentono che al loro cuore manca qualcosa, che può trovare compimento solo nel loro incontro fatale. Il coup de foudre le spinge l’una verso l’altra e lo spettatore che decide di abbandonarsi sembra rimanere prigioniero di questa fusione totalizzante, garantito tuttavia dallo sguardo distaccato alla giusta distanza di Kechiche che non manca di rilevare differenze, asperità, scarti, disarmonie.
        E così il brusco passaggio (anche temporale) dal primo al secondo capitolo della vita di Adèle con la rappresentazione di un inesorabile e doloroso processo di allontanamento e differenziazione non ci coglie di sorpresa mantenendoci dentro il flusso che si dipana. Si potrebbe insistere con questa chiave di lettura accentuando la contrapposizione tra i due milieu di appartenenza che nasconde il razzismo di fondo presente nella società e a cui il regista dalla personale naturalizzazione irrisolta rimanda anche negli altri capitoli della sua filmografia (Emma è di estrazione borghese, coltiva interessi più raffinati, assume atteggiamenti e compie scelte più facilmente trasgressivi, Adèle ha origini più modeste, è più naive, non conosce i riti degli ambienti alla moda e deve fare i conti con un ambiente più retrivo); ma in questo caso ci sembra che la debolezza della protagonista nel gioco dei rapporti di forza sia molto più legato alla sua particolare età della vita che al sopruso di classe.
        Abbandonando dunque il filo del doppio fin qui seguito, rimane da considerare il processo d'individuazione di Adèle nel momento di passaggio dall’adolescenza all’età adulta. Il suo viaggio è il viaggio di Kechiche che la indaga con gli sguardi multipli delle mdp, la segue da vicino ritagliandone il volto, la bocca, le parti del corpo scosso dal dolore o dal piacere in primi e primissimi piani che ci portano il movimento delle sue ciocche selvagge, l’odore dei suoi umori, la consistenza del sugo di pomodoro che le colora le labbra, la sottopone alla malìa degli occhi e dei capelli blu di Emma, in un processo che non permette di distinguere quanto il regista sia artefice che plasma quella forma di donna o spettatore-voyeur di una forza femminile che compie, attraverso le mani in con-tatto con il corpo della propria partner, l’atto del creare. In ogni caso una presenza del desiderio femminile ben lontana dall'immagine eterea e ambigua di Emile Brooks-Lulù, nella Weimar degli anni '20 di Pabst, proiettata sullo schemo allestito a sfondo della festa in giardino che segna nella storia d’amore tra Adèle ed Emma l’inizio della loro vita in comune e anche la prima presa di coscienza della loro differenza.
        A offrire forse una soluzione le sequenze “scolastiche” (una sorta di film nel film in evidente sintonia con La schivata che affidava però non al corpo ma al linguaggio la funzione di amalgama delle differenze) in cui Adèle, lontana dal ruolo di modella o di artista, si dedica a realizzare il sogno di diventare maestra con il compito di donare a chi verrà quel sapere tanto agognato che la scuola un tempo le ha offerto. Per dirla con Recalcati la "giusta erede" (Adele in arabo significa giustizia), diseredata del miraggio di colmare in libertà la propria sete di vita, decide di umanizzare la vita trasmettendo la Legge della parola come Legge del desiderio. (Daniela Zanolin)


 

SegnoFilm n. 184

GRAVITY (Gravity)

 

Regìa: Alfonso Cuarón              Orig.: U.S.A./U.K., 2013

Sogg. e Scenegg.: Alfonso Cuarón, Jonás Cuarón. Fotogr.: Emmanuel Lubezki. Musica: Steven Price. Mont.: Alfonso Cuarón, Mark Sanger. Scenogr.: Andy Nicholson. Costumi: Jany Temime. Suono: Chris Munro. Eff. Vis.: Framestore, Rising Sun Pictures, Nhance; Tim Webber (superv.). Interpr.: Sandra Bullock (dr. Ryan Stone), George Clooney (Matt Kowalsky). Prod.: Alfonso Cuarón e David Heyman, per Warner Bros. Pictures pres./Esperanto Filmoj/Heyday Films prod. Distr.: Warner Bros. Entertainment Italia. Durata: 90 min. 

Durante le operazioni di riparazione del telescopio Hubble, l’ingegnere Ryan Stone, alla sua prima missione nello spazio, e il comandante di lungo corso Matt Kowalsky, vengono investiti dai detriti generati dall’esplosione di un satellite. L’impatto distrugge lo Shuttle, uccide gli altri membri dell’equipaggio e interrompe le comunicazioni con Houston. Costretti a inventarsi una via di rientro sulla Terra, Stone e Kowalsky affrontano il vuoto siderale e lo spettro del proprio passato.


        Anche Gravity, come tutte le storie per lo schermo ambientate nello spazio, è un film sul senso del vuoto. Nell’accezione figurata, sull’abisso siderale in cui fluttua la vita umana, con le sue recondite preoccupazioni e le sue aspirazioni, la tensione verso l’enigma dell’infinito e dell’indefinito. Nell’accezione letterale, sulla possibilità di far vivere allo spettatore lo stesso disorientamento, lo stesso sradicamento, la stessa sospensione che i personaggi-astronauti sperimentano nelle loro missioni. La sfida, da cui l’opera di Alfonso Cuarón non si sottrae, è sempre ricomprendere un senso nell’altro, il significato del vuoto nella sensazione di vuoto.
        Gravity segna però anche una cesura, forse un punto di non ritorno, nella storia del genere. La strategia d’ingaggio dello spettatore infatti enfatizza sino all’estremo una serie di situazioni e soluzioni che il film di esplorazione spaziale ha progressivamente conformato come specifiche del proprio stile estetico e narrativo. Il genere ha un vantaggio intrinseco: al cinema - ancor più se, come in questo caso, la proiezione è in 3D - s'instaura una continuità non solo simbolica ma anche spaziale fra il vuoto cosmico della rappresentazione e il buio della sala; se non addirittura una prossimità fisiologica fra lo stato corporeo dell’astronauta e le reazioni dello spettatore.
        Si pensi al ruolo della tuta aerospaziale: un involucro protettivo che permette di agire in un ambiente inospitale, ma anche un ingombrante scafandro che rende i movimenti goffi e rallentati; un medium di contatto e di separazione, che incide sulla sensibilità tattile e sulla capacità prensile. L’insistenza sulla difficoltà degli astronauti di afferrare con le proprie mani guantate gli oggetti che fluttuano nel vuoto, o il loro arrancare nello spazio senza gravità per raggiungere un appiglio e sfuggire alla deriva, riesce a comunicare allo spettatore la stessa desensibilizzazione e la stessa mancanza di controllo del movimento.
        La suspense percepita dallo spettatore è una vera e propria sospensione: un sentirsi, come il personaggio, non soggetto alle forze che ancorerebbero il corpo al suolo: i cavi di collegamento reciproco non reggono, si spezzano, lasciando i corpi in balia della propria inerzia. A questo disancoramento si aggiunge il disorientamento che insorge di fronte ai corpi (fermi o in movimento, e in particolare dei volti) degli astronauti mostrati a testa in giù o con un orientamento inclinato rispetto allo schermo. La soluzione stilistica del capovolgimento, legittimata dall’assenza nel mondo finzionale della forza di gravità come principio di orientamento oggettivo, ha l’effetto (piacevole, entro certi limiti temporali e quantitativi) di suscitare nello spettatore un senso di disequilibrio e di relatività.

 

        La tuta aerospaziale condiziona anche la relazione diretta fra i personaggi, mantenendoli inevitabilmente a distanza, e trasformando i loro dialoghi in comunicazioni radiofoniche. Il loro volto è sempre incorniciato in un altro schermo, la visiera trasparente del casco. Ma è proprio dentro il casco che il film riesce a portare lo spettatore: a livello visivo, insinuando proprio dietro la visiera, e senza soluzione di continuità, i movimenti della steadycam che si originano all’esterno; a livello sonoro, dando salienza al respiro affannato del personaggio, sempre alle prese con un rapido esaurimento della razione di ossigeno. Queste “doppie soggettive” - assieme ottiche e acustiche - riescono efficacemente a intensificare la percezione dello spettatore, ricercando una sincronizzazione anche a livello fisiologico.
        Il complesso di queste intensificazioni rimanda costantemente all’incombenza di un pericolo essenziale, esplicitamente e implicitamente sempre presente alla mente dello spettatore: l’eventualità che l’astronauta vada alla deriva, che si allontani senza possibilità di ritorno nell’abisso e ne venga inghiottito. Il pericolo fisico ed esistenziale della deriva viene riproposto, forse persino all’eccesso, con rilanci di tensione basati sull’esaurimento delle risorse disponibili (il tempo, l’ossigeno, le opportunità di salvezza) che fanno di Gravity un recovery movie pienamente hollywoodiano. Hollywoodiano purtroppo anche nei dialoghi/monologhi riflessivi e un po’ patetici che interrompono quello che avrebbe potuto essere un unico stupefacente piano sequenza nello spazio.
        Alla deriva come esito fatale del senso del vuoto - e cioè qualcosa di cui il significato è inconcepibile - si oppone una necessità radicale: il bisogno di ritornare sulla Terra, di ritrovare l’orientamento, di ristabilire un ancoramento, di dare senso all’esperienza del vuoto. Anche il “ritorno a casa” viene tematizzato dal film in almeno due sensi. Si tratta anzitutto del “ritorno a casa” nel senso che l’immaginario e la realtà della cultura americana hanno sempre assegnato, in forma di missione e di imperativo, alla volontà e al destino degli eroi esploratori - in particolare, come in questo caso, quelli gettati nelle lande desolate oltre l’atmosfera. In Gravity il mito della nuova frontiera è ormai in declino e i cowboy moderni dello spazio si limitano a riparare i guasti delle stazioni orbitanti, a consolidare l’esistente senza pretendere di conquistare nuove mete, tanto che per battere il record di passeggiata spaziale girano attorno a sé stessi, come fa l’esperto e annoiato capitano Kowalsky all’inizio del film.
        Di fronte al sogno ormai sbiadito della conquista, nell’era post-spaziale la vera avventura è riuscire a tornare indietro, scampare ai frantumi del proprio fallimento - i detriti di satelliti impazziti e distrutti dai loro stessi creatori. In una logica di circolare, progressiva e reiterata difficoltà - inedita non tanto nello schema, tipico nei film d’azione mainstream come questo, quanto piuttosto per il passo serrato dell’escalation - la dottoressa Stone riesce rocambolescamente a salvarsi. Come da copione: affrontando il presente e la minaccia di un futuro fatale ma non prima di essersi riconciliata con il passato (il trauma della morte della figlia). Una volta rimarginata la ferita e ritrovate consapevolezza e forza d’animo (grazie all’apparizione fantasmatica di Matt, cioè l’America, dopo la morte per deriva), l’istinto di sopravvivenza torna a orientare l’azione dell’eroina e a guidarla verso il “ritorno alla vita”.
        Dunque “ritorno a casa” come “ritorno alla vita”, in un senso quasi evoluzionistico, forse biologico, certamente antropologico. Quando, finalmente imbarcata sulla capsula di rientro, la dottoressa Stone riapproda sulla Terra, il viaggio regressivo dell’Uomo verso la propria origine è pienamente compiuto: la dottoressa Stone piomba dallo spazio in un bacino d’acqua, l’equivalente del brodo primordiale in cui la vita cellulare si è generata all’alba dei tempi, ed emerge sulla riva, stringendo fra le mani la terra nuda su cui poi, in un’istante che ricapitola l’intera filogenesi animale, si (ri)alza in posizione eretta e cammina verso il suo futuro, verso il suo passato rimarginato. (Adriano D’Aloia)


 

SegnoFilm n. 182

TO BE OR NOT TO BE

 

 

Regìa: Ernst Lubitsch              Orig.: U.S.A., 1942

Titolo Ital.: Vogliamo vivere! (1945). Sogg.: Melchior Lengyel, Ernst Lubitsch. Scenegg.: Edwin Justus Mayer. Fotogr.: Rudolph Maté. Musica: Werner R. Heymann. Mont.: Dorothy Spencer. Scenogr.: Vincent Korda. Costumi: Irene. Suono: Frank Maher. Eff. Spec.: Lawrence W. Butler. Interpr.: Carole Lombard (Maria Tura), Jack Benny (Joseph Tura), Robert Stack (ten. Stanislav Sobinski), Felix Bressart (Greenberg), Lionel Atwill (Rawitch), Stanley Ridges (prof. Siletsky), Sig Ruman (col. Ehrhardt), Tom Dugan (Bronski), George Lynn (aiutante attore), Henry Victor (cap. Schultz), Maude Eburne (Anna), Halliwell Hobbes (gen. Armstrong), Miles Mander (magg. Cunningham). Prod.: Ernst Lubitsch e Alexander Korda, per United Artists. Distr.: Teodora Film (versione orig. restaurata con sottotit. ital.). Durata: 99 min. 

Durante l'occupazione nazista di Varsavia, un gruppo di attori collabora con i partigiani per impedire che una spia riesca a comunicare alla Gestapo informazioni decisive per lo smantellamento della Resistenza.


        La prima volta che ho visto To Be or Not to Be è stato agli inizi degli anni Novanta (poteva essere il 1990 o il 1991), all'interno di una rassegna di film in v.o. sottotitolata, trasmessi su Rai Tre a cura di Vieri Razzini. Se per la generazione di cinéphiles cresciuta a pane e videocassette negli anni Novanta il “Fuori orario” nottambulo di Enrico Ghezzi rappresentava il riferimento imprescindibile - la sine qua non della cinefilia - le rassegne in seconda serata di Vieri Razzini erano piuttosto un polo dialettico, un'alternativa minoritaria, uno stile di visione inattuale in rapporto al paradigma egemone. Al modello testualista, situazionista e postmodernista di Ghezzi, basato sul principio della libera associazione di immagini, suoni e idee, Razzini contrapponeva una concezione contestualista, storiografica, e filologica dell'oggetto elettivo: un'idea di cinema più parsimoniosa e sicuramente meno esaltante ma che - tutto sommato - mi è sempre sembrata più utile a capire che cosa fossero e come funzionassero per davvero i film.
        A circa vent'anni di distanza, To Be or Not to Be torna accessibile in versione originale sottotitolata, sempre per iniziativa di Vieri Razzini, questa volta non più in televisione ma direttamente nelle sale. Il debutto dell'iniziativa ha avuto un discreto successo: To Be or Not to Be è fra i primi dieci incassi del box office italiano nel primo week-end di giugno, peraltro in compagnia di un altro classico come Gli Aristogatti. Verrebbe quasi da pensare che, nell'era del download e dello streaming che dirottano direttamente sui monitor domestici i film in prima visione, le sale potrebbero finalmente trasformarsi nel luogo dove riscoprire i classici del cinema, in alternativa alle sempre più asfittiche retrospettive nei baracconi culturalisti dei festival. Si tratta probabilmente di una pia illusione, che però questo piccolo miracolo del passaggio in sala di To Be or Not to Be permette perlomeno di accarezzare.

        I classici del cinema sono quei film che, pur appartenendo profondamente alla propria epoca, meritano di essere visti in qualunque epoca perché restano sempre moderni, sempre attuali. To Be or Not to Be soddisfa questa descrizione innanzitutto per come riesce a combinare due generi agli antipodi: la commedia sentimentale e il dramma storico-spionistico. Il film è la storia di una coppia - formata dagli attori Joseph e Maria Tura - che viene messa in crisi dall'attrazione della donna per un uomo più giovane, più aitante e soprattutto meno egocentrico. In tal senso To Be or Not to Be si può considerare come una variante della “commedia del rimatrimonio”. In particolare, To Be or Not to Be condivide con le opere analizzate da Stanley Cavell (p. es. Lady Eva, Accadde una notte, Susanna) la capacità di aggirare stilisticamente la censura del Codice Hays, raggiungendo culmini di erotismo senza mai ricorrere a immagini esplicitamente erotiche. Si guardi ad esempio il controcampo su Carole Lombard dopo che il giovane aviatore le ha detto pacatamente, in tutta innocenza: “You may not believe it, but I can drop three tons of dynamite in two minutes” (“Lei non ci crederà, ma posso sganciare tre tonnellate di dinamite in due minuti”). Qui il lavoro congiunto di scrittura, fotografia e recitazione (lo sguardo quasi estasiato dell'attrice trasfigurato dalla luce del primo piano, e poi il suo ripetere, con una punta di malizia, le parole pronunciate poco prima dal suo interlocutore) riesce a trasformare quello che sulla carta poteva ridursi a un greve gioco di parole in una delle più raffinate rappresentazioni della seduzione, del desiderio e del piacere che il cinema abbia mai saputo costruire.

        D'altra parte To Be or Not to Be è anche il racconto di come la piccola storia di Joseph e Maria Tura e della loro compagnia teatrale entri a far parte della grande storia della Seconda Guerra Mondiale. In questa prospettiva, un aspetto fondamentale della modernità di To Be or Not to Be è l'idea che il cinema sia una forma d'arte destinata a esplorare la frontiera fra il teatro (inteso come paradigma della finzione) e la realtà. In una bellissima recensione pubblicata su “Cinéma 62”, Jean Eustache analizza To Be or Not to Be partendo della celebre domanda della Carrozza d'oro di Renoir: “Dove finisce il teatro? Dove comincia la vita?” - domanda che peraltro sta alla base anche del più importante film di Eustache, La maman et la putain.
        Nell'interrogarsi sulla frontiera fra teatro e vita, film come La maman et la putain, La carrozza d'oro e To Be or Not to Be ricorrono a uno stile realistico ma parsimonioso, che nel ridurre al minimo indispensabile movimenti di macchina e montaggio, rende palesi i limiti spaziali dell'inquadratura, peraltro accentuati dal formato quasi quadrato 1.37:1 (cfr. Rinaldo Censi, “To Be or Not to Be - La perfezione è fuori misura”, “Il Manifesto”, 30/5/2013). Ne risulta uno spazio della finzione che non è presuntuosamente bigger than life, ma orgogliosamente smaller than life: una rappresentazione che si confronta con la realtà senza pretendere di rimpiazzarla. Il fatto che la finzione sia “più piccola” della vita non comporta però che essa sia estranea alla vita. Per Lubitsch (come d'altra parte per Renoir e per Eustache) il teatro è sì distinto dalla realtà, ma è anche parte integrante della realtà, è una costruzione fittizia capace d'incidere significativamente sul mondo reale.
        Nel raccontare il teatro come elemento attivo della resistenza polacca contro l'oppressore nazista, To Be or Not to Be fornisce infine una risposta molto chiara all'annosa questione etico-estetica concernente i limiti della finzione e dell'arte di fronte alla tragedia storica (questione che accomuna film eterogenei come Il grande dittatore, Kapò, L'ultimo metro, La vita è bella, Train de vie, Il pianista, Bastardi senza gloria). Nella prospettiva di To Be or Not to Be, la finzione ha il diritto di sconfinare nella tragedia storica, ma ha anche il dovere di prendere posizione, d'incidere sulla realtà, di farsi agente storico a sua volta. Per parafrasare il finale del celebre saggio di Walter Benjamin, che appartiene peraltro alla stessa temperie storica di To Be or Not to Be, quel che va apprezzato nell'arte - ieri come oggi - non è la finzionalizzazione del politico, ma la politicizzazione del fittizio. (Enrico Terrone)


 

Segnocinema n. 181

COME PIETRA PAZIENTE

Regìa: Atiq Rahimi              Orig.: Afghan./Fr./Germ./U.K., 2012

Sogg.: dal romanzo Pietra di pazienza di Atiq Rahimi. Scenegg.: Jean-Claude Carrière, Atiq Rahimi. Fotogr.: Thierry Arbogat. Musica: Max Richter. Mont.: Hervé de Luze. Scenogr.: Erwin Prib. Costumi: Malek Jahan Khazai. Suono: Dana Farzanehpour, Noemi Hampel, Lars Ginzel. Interpr.: Golshifteh Farahani (la donna), Hamidreza Javdan (l'uomo), Massi Mirowat (il giovane soldato), Hassina Burgan (la zia). Prod.: Micahel Gentile, Lauraine Heftler, Gerhard Meixner e Roman Paul, per The Film/Studio 37/Razor Film/Corniche/Arte France Cinéma/Jahan-E-Honar prods. Distr.: Parthénos. Durata: 103 min.

In una città afghana lacerata dalla guerra civile e dall’integralismo islamico, una donna si prende cura del marito privo di conoscenza. Ha un proiettile nella nuca che qualcuno gli ha sparato in una futile rissa. La donna, dopo aver pregato ininterrottamente per sedici giorni, affida le due figlie a una zia che vive in un bordello. Da sola in casa, comincia a considerare il marito come una “pietra paziente” alla quale poter raccontare, per liberarsene, i torti subiti, i segreti mai svelati. La donna, acquisendo una nuova consapevolezza di sé, ripercorre la sua vita: un padre incapace di amare se non le sue quaglie da combattimento; un marito assente perché dedito alla guerra, e quando presente, distante e animalesco; cognati lascivi; una suocera pronta ad accusarla di sterilità. Dopo la rivelazione dell’ultimo segreto (la donna si è lasciata mettere incinta da uno sconosciuto per evitare di essere ripudiata), l’uomo si risveglia e tenta di strangolarla. La donna lo uccide con un khanjar. 


“Perciò racconto i miei dolori alle pietre / che, se non possono rispondere alla mia pena /... non interrompono la mia storia. / Quando piango, ai miei piedi esse ricevono / le mie lacrime umilmente e sembrano piangere con me /... / Una pietra è silenziosa e non offende” (Shakespeare, Tito Andronico)

        Il titolo allude - secondo Atiq Rahimi, regista del film nonché autore dell’omonimo romanzo da cui è tratto - alla sang-e sabur, la pietra paziente che, secondo la mitologia persiana, ascolta e assorbe, sino a frantumarsi, le miserie e i dolori di un individuo che in tal modo se ne affranca. James Frazer, ne Il ramo d’oro, sottolinea come il trasferimento del male in una pietra fosse una pratica comune a tutti i popoli primitivi. Le pietre erano considerate dimore della divinità. Nel romanzo di Rahimi, infatti, la pietra paziente è la Pietra Nera incassata nella Ka’ba della Mecca intorno alla quale girano milioni di pellegrini pregando e raccontando i propri patimenti. A rivelarlo è il padre del marito della donna, l’unico uomo che ha avuto dell'affetto per lei: le leggeva poesie, le raccontava storie, le insegnava a scrivere, a pensare; un personaggio chiave che spiega la capacità acquisita dalla donna di riflettere su se stessa e che purtroppo è cancellato nel film per dare più spazio al ruolo della zia (perennemente inquadrata mentre si imbelletta), forse con l’intento, non necessario, di aggiungere un tocco di colore ai toni cupi e alle atmosfere fortemente drammatiche.
        Non solo le scene girate nel bordello, ma anche quelle relative all'infanzia, al fidanzamento e alle nozze della protagonista sono semplici e colorate illustrazioni etnografiche. Tragiche nel loro realismo sono invece le scene in esterno che mostrano una città in guerra squarciata dai bombardamenti, dagli incendi, dalle assordanti deflagrazioni. Il regista ha dichiarato di essersi ispirato a Germania anno zero di Rossellini; ma ad aggirarsi fra le macerie non è un bambino (come nel suo precedente romanzo e film Terra e cenere), ma una donna che, racchiusa nel burqa, diventa una spettrale presenza. La guerra penetra fin dentro la casa: si sente il fragore degli spari, lo spostamento d’aria delle esplosioni infrange i vetri, i soldati entrano con i kalashnikov per minacciare, derubare, insultare.
        L’interno dell'abitazione, centro propulsore del film, è spoglio, disadorno: per terra un kilim con i cuscini; sulle pareti scrostate una beffarda foto del marito da giovane eroe di guerra e un piccolo khanjar; su una mensola l’unico libro possibile, il Corano; davanti alla finestra una tenda con motivi di uccelli migratori colti mentre spiccano il volo. Su di essi indugia nell’incipit la macchina da presa, quasi a rimarcare l’anelito verso un volo di libertà congelato e precluso. Nella stanza risuona la voce della donna: prega, grida, insulta, si lamenta. In un serrato crescendo racconta le sue sofferenze, le ingiustizie patite; parole pesanti che sembrano erompere dalle viscere insieme alle voci di milioni di donne offese da secoli di sottomissioni e di barbarie. Alla voce della donna si oppone il mutismo dell’uomo. L’inerzia, l’insensibilità e l’immobilismo del suo corpo sono immagine degli esiti della violenza e del fanatismo così come dell’incapacità di liberarsene.

COME PIETRA PAZIENTE

        Dalla staticità sembra rifuggire la stessa macchina da presa che, pur all’interno di un unico ambiente, si muove attorno ai corpi con lentezza ma riprendendoli da più punti di vista, ora allontanandosi, ora avvicinandosi per cogliere un dettaglio (la mano che inquieta sgrana il rosario) o un’espressione del volto: quello intenso ed espressivo della donna (quando il burqa lo ricopre è come se sullo schermo si spegnesse una luce); quello raccapricciante e perso nel vuoto dell’uomo attorno al quale le mosche ronzano e i ragni tessono la loro tela. Significativa nel film è anche un'altra voce che si distingue dall’arroganza dei mujahiddin che irrompono nella casa: quella timida e balbuziente di un giovane soldato che chiede amore e impara presto a darlo. Con lui la donna scopre di poter ricevere da un uomo il piacere, la tenerezza, la richiesta di un conforto.
        Già altri film hanno raccontato gli orrori della guerra e la problematica condizione femminile nei Paesi mediorientali: Il cerchio di Panahi, Viaggio a Kandahar di Makhmalbaf, Osama di Barmak. Come pietra paziente, tuttavia, è anche e soprattutto una storia di “liberazione”, di presa di coscienza da parte di una donna. Il volto della protagonista, inizialmente contratto dal dolore, dai dubbi, dalla paura di essere posseduta da forze demoniache, si apre al sorriso di chi ha compreso, amato, goduto. Un sorriso che ha in sé la forza e il desiderio di contagiare e di cambiare il mondo. La donna, con il suo sincero racconto, vorrebbe restituire al marito non solo la vita, ma una nuova vita, vorrebbe che il mostro si trasformasse in una persona capace d’amare.
        L'uomo, tuttavia, non può essere la sua pietra paziente perché è lui stesso il responsabile del male che gli viene confessato e perché, non avendo il coraggio di ammetterlo e di sopportarlo, nessuna forza divina abita in lui. (Eliana Elia)


 

Segnocinema n. 180

LINCOLN

Regìa: Steven Spielberg              Orig.: U.S.A., 2012

Sogg.: basato in parte sul libro Team of Rivals: The Political Genius of Abraham Lincoln di Doris Kearns Goodwin. Scenegg.: Tony Kushner. Fotogr.: Janusz Kaminski. Musica: John Williams. Mont.: Michael Kahn. Scenogr.: Rick Carter. Costumi: Joanna Johnston. Suono: Ron Judkins. Eff. Vis.: Framestore, the Garage VFX; Ben Morris e Garan Miljkovich (superv.). Interpr.: Daniel Day-Lewis (Abraham Lincoln), Sally Field (Mary Todd Lincoln), David Strathairn (William Seward, segretario di stato), Joseph Gordon-Levitt (Robert Todd Lincoln), James Spader (WN Bilbo), Hal Holbrook (Francis Preston Blair), Tommy Lee Jones (Thaddeus Stevens), Lee Pace (Fernando Wood), Michael Stuhlbarg (George Zeaman), David Costabile (James Ashley), Jackie Earle Haley (Alexander Stephens), S. Epatha Merkerson (Lydia Smith), Jared Harris (Ulysses S. Grant), Tim Blake Nelson (Richard Schell). Prod.: Steven Spielberg, Kathleen Kennedy, Kristie Macosko Krieger e Adam Somner, per DreamWorks Pictures/20th Century Fox/Reliance Entert./Participant Media/Dune Entert. pres./Amblin Entert./Kennedy-Marshall Co. prod. Distr.: 20th Century Fox Italia. Durata: 149 min. 

Con la nazione dilaniata dalla Guerra di Secessione, il sedicesimo presidente degli Stati Uniti si trova a dover compiere scelte cruciali per il futuro del Paese. Gli sforzi strategici di Lincoln per concludere la guerra e abolire la schiavitù s'intrecciano con le sue vicende personali, fino alla tragica conclusione dell’aprile 1865. 


        L’opera di Steven Spielberg, se si escludono rare eccezioni, è definita da un’oscillazione ininterrotta fra una dimensione collettiva, in cui il racconto e l’affabulazione lavorano in maniera inclusiva, propriamente popolare; e una dimensione profondamente individuale, autobiografica, in cui ossessioni e idiosincrasie personali del regista emergono nitidamente. Sebbene le due siano strettamente dipendenti (non si dà l’una senza l’altra), esiste una gerarchia tra di loro: se la dimensione collettiva e popolare è un orizzonte a cui Spielberg non cessa mai di tendere, l’autobiografia è il filtro, il principio organizzatore che dà forma al suo cinema - un cinema (e una memoria) di tutti, e insieme intimamente personale.
        Questa tensione irrisolta fra il collettivo e l’individuale raggiunge in Lincoln un livello del tutto inedito. È evidente al livello del materiale narrativo, che Spielberg e Kushner manipolano utilizzando i modi del biopic per impostare le linee guida del grande affresco d’epoca: l’impresa del singolo, tra incertezze private e pubblici ostacoli, raggiunge il suo coronamento e imprime una svolta alla Storia. Eppure, lo Spielberg di oggi non è più (o non è solo) quello di Schindler’s List: al di là delle pur attente critiche rivolte da più parti alla figura del “grande uomo bianco”, paterno e salvifico, che abita insistentemente i film del regista (pensiamo anche ad Amistad, per esempio), Lincoln è prima di tutto una storia di compromessi, tra ragion pratica e ideali, tra bene collettivo e battaglia individuale. Ciò che risolve il rompicapo del Tredicesimo Emendamento non sono le vacue orazioni che vanno in scena in Parlamento, ma al contrario ciò che passa sotto silenzio, ciò che resta nell’oscurità: quello che Thaddeus Stevens non dice durante il suo intervento conclusivo, le trattive sotterranee (letteralmente, nel caso dell’incontro in cantina tra Stevens e Lincoln), la corruzione, le minacce. Spielberg riesce nella difficile impresa di mostrare i nudi ingranaggi della politica senza poesia, ma non senza epica. Ne esce così un distillato della visione politica spielberghiana: un progressismo senza incertezze ma anche senza radicalismi, in cui i meccanismi e i confini del sistema (i diritti umani, lo Stato, la democrazia rappresentativa) non vengono mai messi seriamente in discussione, ma anzi celebrati come salvezza dal caos mortifero che si annida appena al di là di essi.
        Qui, come altrove in Spielberg, sono le trame a schermare l’orrore, a contenerlo: le trame politiche, certamente, ma anche e soprattutto le trame narrative, che il regista e Kushner intrecciano armoniosamente, quasi senza sforzo (soprattutto considerando la sostanziale riluttanza di Spielberg a impegnarsi con storie troppo affollate di personaggi, dopo le scottature a inizio carriera di Sugarland Express e 1941). C’è la guerra civile, con le strategie, i bollettini delle battaglie e la delegazione sudista in arrivo per trattare la pace; c’è la corsa contro il tempo per approvare l’Emendamento, con il febbrile susseguirsi dei tentativi di raccogliere il numero necessario di voti alla Camera; ci sono infine i rapporti familiari del presidente con la moglie Molly e il figlio Rob, così simili nei loro slanci e nelle loro fragilità. Tuttavia - ed è uno dei grandi meriti del film - queste trame si allentano qua e là, e lasciano intravedere frammenti di un orrore lasciato ai margini, che preme per entrare. Si tratta di quella dialettica, profondamente spielberghiana e presente sin dai tempi di Duel, tra la familiarità della coerenza narrativa e un’alterità inquietante, indicibile, che la eccede e insieme la alimenta.
        Ciò che tiene insieme il film è una narrazione dal ritmo pacato ma regolare, sublimazione del leggendario talento spielberghiano nel raccontare storie, che qui raggiunge le vette di un neo-classicismo imponente e rarefatto, distante ma complementare rispetto alla reinvenzione del thriller anni Settanta messa in scena in Munich, l’altra collaborazione tra il regista e Tony Kushner. E come in Munich - ed ecco l’alterità radicale - ciò che colpisce e affascina in Lincoln è l’ossessiva presenza della morte, con una sostanziale differenza, però: se nel primo la morte spinge il film in una corsa forsennata in cui sangue chiama sangue, confondendo l’una nell’altro sete di vendetta e senso di colpa, qui la morte impregna il film, lo assedia, vi aleggia intorno come un fantasma.
        Se dunque Lincoln racconta il mito fondativo dell’America spielberghiana, è un mito pervaso di morte. Una morte i cui segni lampeggiano ovunque: c’è la guerra civile, mostrata senza orpelli retorici in immagini sfuggenti, prive di commento musicale e dai colori esangui - come l’apertura del film, una scena di massa inquadrata in campo medio, in cui il blu dei nordisti e il grigio dei confederati si confondono, inzuppati di fango e sangue. C’è la macabra e potentissima visione delle gambe amputate ai soldati, buttate alla rinfusa in una fossa comune. C’è la morte del giovanissimo terzogenito Willie (che ossessiona tutti i membri della first family) e c’è, infine, la morte dello stesso Lincoln a sigillare il film. Racconto, (auto)biografia, mito, morte: le diverse dimensioni s'intrecciano, si mescolano l’una all’altra.
        Raccontando la sua nascita di una nazione, Spielberg si specchia in egual misura in Abraham Lincoln e in David Wark Griffith, pioniere della grammatica del cinema narrativo. Così, fantasia collettiva e individuale si sovrappongono nuovamente, sotto l’egida di quella metafora paterna che attraversa tutto il cinema spielberghiano: il padre della nazione da una parte, il padre della narrazione dall’altra. Spielberg disegna così una genealogia della propria politica e del proprio cinema, in una confusione mai così riuscita, mai così perfetta, tra racconto del sé e racconto dell’altro. (Mauro Resmini)


 

Segnocinema n. 179

LA PARTE DEGLI ANGELI (The Angels’ Share)

Regìa: Ken Loach              Orig.: U.K./Fr./Belg./It., 2012

Sogg. e Scenegg.: Paul Laverty. Fotogr.: Robbie Ryan. Musica: George Fenton. Mont.: Jonathan Morris. Scenogr.: Fergus Clegg. Costumi: Carole K. Fraser. Suono: Ray Beckett. Interpr.: Paul Brannigan (Robbie), Siobhan Reilly (Leonie), John Henshaw (Harry), Gary Maitland (Albert), William Ruane (Rhino), Jasmin Riggins (Mo), Scott Dy- mond (Willy), Scott Kyle (Stephen Clancy), James Casey (Dougie), Roger Allam (Thaddeus), Charles MacLean (Rory McAllister), David Goodall (Angus Dobie). Prod.: Rebecca O’Brien, per Entert. One pres./Sixteen Films/Why Not Prods./Wild Bunch/BFI/Les Films du Fleuve/Urania Pictures/France 2 Cinéma/Canal Plus/Cinecinema/Sofi- cinema/Le Pacte/Cineart/France Televisions/Canto Bros Prods. Distr.: BIM. Durata: 101 min.

Quattro ragazzi di Glasgow, Robbie, Rhino, Albert e Mo, all’ennesima bravata evitano il carcere dedicandosi ai lavori sociali, sotto la direzione del volontario Harry. Per Robbie è un momento particolare perché sta per avere un figlio e, se non si fa venire una bella idea, il padre della fidanzata non gli darà la possibilità di veder crescere il bambino. L’idea giusta non tarda ad arrivare. 


        Il nuovo film di Ken Loach, premio della giuria a Cannes 2012, si chiede la “parte degli angeli” (il riferimento metaforico è alla “quota degli angeli” ovvero a quel 2 per cento dello scotch contenuto in una botte che evapora ogni anno) da che parte sta, in un modo che è congeniale al regista, per tematica e tecnica. È un film che parla di giovani che cercano una possibilità di vita normale, fatta di famiglia e lavoro, e lo fa in un modo leggero e divertente. Sulla storia del recupero di Robbie e sulle sue questioni personali e familiari (in cui rientra anche la vicenda del padre della fidanzata che vuole allontanarlo) va ad inserirsi la seconda trama, rappresentata dal colpaccio che il gruppo vuole tentare. I quattro ragazzi un po’ problematici trovano infatti una parziale redenzione grazie al supervisore dei lavori sociali che li introduce al mondo dei distillati e dei whisky pregiati.
        La vera storia del film, però, è quella che mantiene in bilico l’incertezza di una loro possibile ricaduta: e anche qui, infatti, da bravi ragazzi di strada quali sono, trovano l’escamotage in via del tutto abusiva. Coerentemente con la poetica e l’ideologia loachiana è un film individuale, che diventa di gruppo; le esigenze del singolo arrecheranno beneficio al gruppo intero: il personaggio principale resta ancora Robbie, che poi però diventa anche l’esponente principale della banda.
La sceneggiatura dunque mantiene lo spettatore in attesa della risposta: come andrà a finire? Se per quanto riguarda la prima trama, la domanda è: ce la farà Robbie a non accettare i soldi del suocero che vuole mandarlo a Londra, per toglierselo dai piedi? Per quanto riguarda la seconda trama, la domanda è: ce la faranno a non farsi scoprire e andare a fondo nel colpaccio? Oppure, in caso contrario, per l’ennesima volta si faranno scoprire sanzionando pubblicamente il fallimento di ogni tentativo educativo? Grazie a un flashback vediamo la crudeltà con cui Robbie picchia il ragazzo che poi lo denuncia. Si scopre quindi che era strafatto di coca e con degli amici che si vedono appena nell’angolo dell’inquadratura.
        È il modo lieve che ha Ken Loach di commisurare tutto alla normalità (qui intesa in senso cinematografico, come possibilità di proporre non per forza l’extraordinarietà) che, come si è detto, è anche il perno dell’interno film. Per riuscirci Loach gioca sulla rifinitura dei personaggi. Ti dico che l’atto commesso è frutto di una buffoneria, ma te lo dico inquadrando le spalle di un amico di Robbie nell’angolo dell’inquadratura. È il tocco di antieccesso di Loach. Nel film anche il ragazzo che viene picchiato da Robbie è di umile origine. Forse in più ha la fortuna di avere i genitori, ma per il resto è un disgraziato pure lui. Al regista non interessa opporgli il ricchissimo, perché la società stessa darebbe, per quel contesto, una percentuale bassissima di possibilità d’incontrare un super ricco.
        Loach si attiene alla realtà, come certe sue inquadrature prolungate del tutto immotivate. Sono cose che accadono: guardare un po’ più del solito qualcuno, senza nessun motivo, per distrazione, per astrazione (come la scena in cui la ragazza fa la foto al gruppo in kilt). La fidanzata di Robbie è ricca ma non è una principessa, anche lei è figlia di malavitosi. La stessa impiegata della distilleria, a detta di uno di loro, ha il corpo di una dea, ma è una ragazza normalissima. È un universo coerente. Tutto il resto appartiene al cinema finto. Nel milieu di “normalità” può anche accadere che qualcuno non risponda a una domanda, e che questo non per forza voglia dire che c’è qualcosa sotto, come succede quando Robbie chiede a Harry se ha figli: un attimo di silenzio, poi squilla il telefono e non se ne parla più.
        La parte degli angeli sta dalla parte di Ken, dalla par- te buona, e dalla parte di Ken stanno i suoi personaggi. Sono dei simpatici ragazzi di strada, noti per piccole delinquenze (astuzie, buffonerie e poco altro), alle quali vengono peraltro costretti dalla realtà che li circonda che non dà loro scampo: sono dunque delle vittime. Del resto è la stessa conclusione a cui arriva Robbie, durante l’attimo di presa di coscienza: gli nasce un figlio e si reinterroga sulle sue azioni. Una pecca del film è proprio questo discorso del personaggio sul significato complessivo del film, che va a esplicitare ulteriormente ciò che lo spettatore, reduce dai suoi collegamenti, ha già chiaro: se l’avessero fatto al figlio, lui l’avrebbe impiccato. Qua Loach abbonda e tradisce il peso leggero del film.
        Dalla parte degli angeli resta comunque l’astuzia dell’arrangiarsi, l’ingegno aguzzato. Un inno al cervello che riesce a reinventare, seppure illegalmente. (Martina Federico)


 

Segnocinema n. 178

REALITY

Regìa: Matteo Garrone              Orig.: Italia/Francia, 2012

Sogg: Matteo Garrone, Massimo Gaudioso. Scenegg.: Maurizio Braucci, Ugo Chiti, Matteo Garrone, Massimo Gaudioso. Fotogr.: Marco Onorato. Musica: Alexandre Desplat. Mont.: Marco Spoletini. Scenogr.: Paolo Bonfini. Costumi: Maurizio Millenotti. Suono: Maricetta Lombardo. Interpr.: Aniello Arena (Luciano), Loredana Simioli (Maria), Nando Paone (Michele), Graziella marina (mamma di Luciano), Nello Iorio (Massimone), Nunzia Schiano (zia Nunzia), Rosaria D'Urso (zia Rosaria), Giuseppina Cervizzi (Giusy), Claudia Gerini (presentatrice GF), Raffaele Ferrante (Enzo), Paola Minaccioni (cliente romana), Ciro Petrone (barista), Salvatore Misticone (calzolaio), Vincenzo Riccio (Vincenzo), Martina Graziuso (Martina), Alessandra Scognamillo (Alessandra). Prod.: Domenico Procacci, Matteo Garrone e Jean Labadie, per Archimede-Fandango/Le Pacte-Garance Capital/Rai Cinema/Soficinema 7/Coficup-Backup Films/Cinemage 6/La Sofica Manon 2/Canal+. Distr.: 01 Distribution. Durata: 115 min.

Luciano Ciotola è un pescivendolo di Napoli. Il lavoro rende, anche se va arrotondato con qualche giro di elettrodomestici in nero. Per puro caso, Luciano sostiene un provino per il Grande Fratello e comincia a credere di essere selezionato per lo show. Mentre attende la chiamata, la sua realtà quotidiana comincia a sfaldarsi.


        Più che troppo tardi, il film di Garrone sembra arrivato troppo presto, a riconferma che si tratta di un regista dalle antenne molto dritte (ma il plauso va allargato al gruppo dei fidi sceneggiatori, tra cui Maurizio Braucci e Massimo Gaudioso, tra i pochi talenti letterari che abbiamo al lavoro in Italia sul grande schermo). Di essere giunto troppo tardi lo accusano coloro che vedono nel film una satira più o meno letterale del Grande Fratello o dei reality in generale, adducendo il fatto che il GF si trova in quarantena a causa dei bassi ascolti - e dunque non rappresenta più i gusti degli italiani - e altri programmi nati sulla scorta dell’originale si stanno rapidamente sfaldando, come esempio di televisione postmoderna erosa dai nuovi media e dai social network. In verità, mai come ora, sia pure in epoca di frantumazione dell’offerta televisiva, ci troviamo di fronte a un panorama pullulante di programmi molto simili, per lo più orientati sulla sfida professionale o sull’addestramento, con aspiranti cantanti, cuochi, manager e così via. La letteratura critica sull’argomento è vastissima, dunque - in buona sostanza - non pare proprio che Reality sia così lontano dal mondo che viviamo. Anzi.
        E qui veniamo al secondo aspetto. Perché il film di Garrone potrebbe essere giunto troppo presto? Lo intendo, qui, in senso del tutto positivo. Ben lungi dall’offrirsi come un'invettiva in forme tragicomiche nei confronti dell’apparire postmoderno, ben lontano dal parlarci dei 15 minuti warholiani e della loro coda nei reality show a cavallo tra anni Novanta e Duemila, Reality sembra invertire il segno fino alle estreme conseguenze. È il mondo ricostruito della televisione (o di altre simulazioni di trasparenza pubblica) a esondare nel privato e a increspare - qui sì, come in un racconto di Philip K. Dick - il mondo del protagonista, che si sente spiato, osservato e soprattutto giudicato dal GF: si tratta di una delle prime volte in cui compare nel cinema italiano la funzione della paranoia, in luogo di quella dell’ossessione. Il cinema italiano ci ha spesso raccontato ossessioni - per il sesso, per il cibo, per il potere e così via - più raramente ha sfiorato il modello complottista hollywoodiano in stile La conversazione, che Garrone deve aver avuto bene in mente. Ciò permette a Garrone di lavorare di fino su alcuni aspetti: evitare i pirandellismi, scartare tutta un’area letteraria vecchiotta e non adatta ad analizzare i nostri tempi (da Orwell a Kafka), avvicinarsi semmai a certo Saramago (come quando a noi spettatori sembra quasi che dentro il GF ci sia un sosia di Luciano, ma si tratta di una suggestione rapidissima), e osservare da vicino una mutazione antropologica.
        Non ci sono più partiti, chiese, istituzioni, enti, luoghi di ritrovo, la casa del GF è perfetto corrispettivo nazionale delle architetture intollerabili e claustrali sapientemente messe in scena, dall’acquaparco dei cafoni, all’outlet come città di plastica, dalla piazzetta dove lo show da pescivendolo è l’ultima eredità del folklore locale all’abitazione fatta di muri scrostati e di una famiglia passivo-aggressiva. L’incomprensione in stile Totò del suo amico (che fraintende e pensa di essere spiato dalla GdF, Guardia di Finanza) nasconde il senso del film. Che poi l’attore protagonista, Aniello Arena (capace di oscurare il Toni Servillo esagitato e prevedibile di È stato il figlio, in una sfida tutta interna al cinema italiano), sia un ergastolano, non fa che moltiplicare i voli pindarici del racconto, dove un uomo ipnotizzato dalla speranza di “evasione” mediatica, finisce con l’escogitare un piano per farsi “imprigionare” dentro la casa di Canale 5.
        La funzione dello stile risulta perfettamente coerente con il progetto. Il ricorso alla steadicam per la gran parte del film, e la conseguente scelta di affidarsi a sinuosi piani sequenza, da una parte fluidificano cinematograficamente i dispositivi televisivi verso i quali il protagonista tende, in direzione diametralmente opposta, e dall’altra sortiscono effetti labirintici. Tutti gli spazi risultano - e non per incuria del regista - difficili da percepire organicamente, e anche i luoghi più aperti (gli outlet e la piazza) finiscono col soffocare lo spazio rappresentato. Luciano sembra sempre saper dove andare, come quando s'incunea in un condotto d’aria per interloquire con l’ex protagonista del GF, o quando cammina per i corridoi di casa, ma poi si ritrova sempre intrappolato: incastrato dietro una grata, rinchiuso nello sgabuzzino dove ricostruisce il confessionale, confinato sulla scala di uno scivolo acquatico (per tornare dal quale deve percorrere un tragitto degno di Escher).
        Camera e fotografia, valorizzati da Marco Onorato (precocemente scomparso dopo Cannes), mostrano dunque che i valori tecnici di Reality - compresa la partitura fiabesca e sontuosa di Alexandre Desplat - non sono solo orpelli produttivi del regista assurto a rango internazionale, bensì opzioni linguistiche degni di questo nome. In buona sostanza, e al di là dell'oggettiva compattezza dell’opera, che cosa ci suggerisce Reality? Almeno due cose. La prima è che siamo in un’epoca dove, ben lungi dal confondere realtà e finzione secondo schermi novecenteschi, i media sono elementi disincarnati, perpetui, dislocati e onnipresenti, e che possiamo esserne sopraffatti persino quando (o proprio perché) non ci sappiamo adattare antropologicamente ad essi. La seconda è che il cinema italiano può e deve ingaggiare confronti sorprendenti col proprio passato.
        Garrone, per esempio, torna a Cinecittà, e ci fa tornare a fine film l’avatar onirico di Luciano, come un ladro, un incursore, uno spettro ghignante, che finalmente sta dove voleva stare a costo di essere invisibile e probabilmente morto. (Roy Menarini)